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La fine delle superpotenze: verso un ordine mondiale insulare

di Peiman Salehi - 27/08/2025

La fine delle superpotenze: verso un ordine mondiale insulare

Fonte: Giubbe rosse

Per decenni, la politica globale è stata interpretata attraverso il prisma dell’egemonia. La Guerra Fredda ha offerto una lotta bipolare, mentre l’era post-1991 ha visto l’ascesa dell’unipolarismo americano, proclamato come la “fine della storia”. Oggi, tuttavia, il mondo sta entrando in una fase completamente diversa: non la sostituzione di una superpotenza con un’altra, ma la fine delle superpotenze stesse. Il XXI secolo si sta delineando in un panorama in cui potenze regionali e grandi potenze coesistono, si allineano e competono in un sistema frammentato e isolato, privo di un egemone universale.

L’erosione del primato americano non è semplicemente il risultato dell’ascesa della Cina o della persistenza della Russia. È, più fondamentalmente, il prodotto delle contraddizioni interne dell’America. Un tempo gli Stati Uniti attraevano il mondo non solo per la ricchezza o la superiorità militare, ma anche per i loro valori liberali. Durante la Guerra Fredda, la forza dell’America risiedeva nel presentarsi come una terra di opportunità in cui razza, religione e background non determinavano le prospettive di ognuno. Attraeva talenti globali, simboleggiando libertà e pluralismo. Oggi quel magnetismo è svanito. Costruire muri al confine con il Messico, limitare l’immigrazione e controllare la libertà di parola nei campus in nome dell’ortodossia politica sono sintomi di una nazione che sta abbandonando i propri ideali liberali. Quando i leader statunitensi minacciano di espulsione gli studenti stranieri che protestano contro Israele, rivelano la vacuità di quelle stesse libertà che un tempo distinguevano l’America dai suoi rivali. La superpotenza si sta corrodendo dall’interno, non tanto perché altri stanno emergendo, quanto perché ha cessato di incarnare i valori che ne sostenevano il fascino.

La Cina, da parte sua, è indubbiamente in ascesa. La sua Belt and Road Initiative abbraccia continenti, la sua economia potrebbe presto eclissare quella degli Stati Uniti e la sua portata tecnologica si sta espandendo rapidamente. Eppure la Cina non sta diventando un egemone nel senso americano del termine. A differenza di Washington al suo apice, Pechino non cerca di esportare un’ideologia o di imporre un modello di governance universale. Il suo approccio è pragmatico: proteggere i mercati, garantire i flussi energetici e intrecciare l’interdipendenza. La Cina potrebbe diventare l’economia più forte del mondo, ma non si trasformerà nel tipo di superpotenza globale che un tempo era l’America. Sta costruendo influenza senza offrire una dottrina, e così facendo conferma che l’era dell’egemonia universale sta finendo.

Ciò che sta emergendo è invece quello che Amitav Acharya ha descritto come un ordine post-egemonico, con tre livelli di potere: potenze regionali, grandi potenze e, in passato, superpotenze. Quest’ultima categoria sta svanendo. Gli Stati Uniti rimangono formidabili, ma non riescono più a dominare il sistema internazionale. Cina e Russia sono attori importanti, ma limitati nella portata e nella legittimità. In Asia occidentale, stati come l’Iran si stanno consolidando come poli regionali, mentre Africa e America Latina stanno producendo attori riluttanti a subordinarsi a un unico blocco. Il potere non è più centralizzato; è disperso in molteplici nodi che operano come isole in un mare turbolento.

Questo ordine “isolato” ha profonde implicazioni. Durante il periodo unipolare, la politica globale ruotava attorno a un unico asse: allinearsi o contrarsi agli Stati Uniti. Nei prossimi decenni, gli Stati godranno di maggiore manovrabilità. Saranno in grado di costruire legami con più centri di potere simultaneamente, forgiando coalizioni senza essere assorbiti da un unico impero. Il Medio Oriente, ad esempio, lo illustra vividamente. Iran, Cina, Russia e altri cooperano selettivamente, mentre gli Stati del Golfo Persico si bilanciano tra Washington e Pechino. L’Africa collabora sempre più con potenze occidentali e asiatiche, senza subordinarsi a una sola. L’America Latina sta esplorando nuove strade di regionalismo, attingendo a storie di resistenza al controllo imperiale. Questi sono i contorni di un mondo non più governato da un egemone.

Per il Sud del mondo, questa transizione rappresenta sia un’opportunità che un rischio. Da un lato, apre spazi di sovranità e autonomia: gli Stati possono scegliere i propri allineamenti, perseguire l’integrazione regionale e rifiutare la dipendenza da una singola potenza. Dall’altro, la frammentazione può significare instabilità. Senza un arbitro dominante, i conflitti rischiano di prolungarsi, poiché le potenze concorrenti forniscono sostegno alle fazioni opposte. L’assenza di un egemone può liberare, ma può anche destabilizzare.

Eppure una lezione è chiara: il secolo americano è finito e un secolo cinese non lo sostituirà. Il XXI secolo sarà invece definito da molteplici centri di potere, ognuno dei quali plasma la propria sfera d’azione senza dominare il mondo. In questo contesto, le esportazioni ideologiche contano meno delle coalizioni pragmatiche; il dominio conta meno della sopravvivenza. Iran, Cina, Russia, Brasile, Sudafrica e altri agiranno come isole di influenza in un sistema troppo complesso per essere governato da uno solo.

Il termine “superpotenza” potrebbe presto appartenere ai libri di storia. Ciò che rimane sono grandi potenze e potenze regionali, che interagiscono in un mosaico di alleanze mutevoli. Gli Stati Uniti accelerano il loro declino tradendo i principi liberali che un tempo ne sostenevano la forza. La Cina cresce, ma senza un progetto universalizzante che le impedisca di assumere il ruolo della potenza americana. Il resto del mondo, nel frattempo, scopre margini di manovra. In questo ordine plurale, nessuno scrive le regole da solo. L’era delle superpotenze sta finendo; è iniziata l’era delle potenze isolate.

orientalreview.su  —     Traduzione a cura di Old Hunter