Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La Grande Illusione del Progresso: il Transumanesimo come religione terminale dell’Occidente

La Grande Illusione del Progresso: il Transumanesimo come religione terminale dell’Occidente

di Fabrizio Fratus - 16/06/2025

La Grande Illusione del Progresso: il Transumanesimo come religione terminale dell’Occidente

Fonte: Il Talebano

La civiltà occidentale contemporanea è fondata su un mito che ha assunto i contorni di una vera e propria religione laica: quello del progresso. Nato in epoca moderna, alimentato dalle rivoluzioni industriali e consacrato dallo sviluppo economico postbellico, questo mito sostiene l’idea di un avanzamento inarrestabile e lineare dell’umanità verso un futuro sempre più luminoso. In questa visione, il passato è ridotto a un’ombra di ignoranza, superstizione e arretratezza da superare con urgenza, mentre il futuro – qualunque esso sia – è per definizione desiderabile. Questa narrazione ha resistito a tutte le crisi: finanziarie, sociali, sanitarie, persino esistenziali. La fede nel progresso è diventata impermeabile alla realtà. Non è più una speranza, ma un dogma: si è trasformata in una fede cieca, sostenuta da un sistema mediatico e culturale che funziona da apparato liturgico, in difesa dell’unico culto ammesso – quello del Nuovo. In questo contesto, il transumanesimo non è una deviazione, ma la logica conseguenza del paradigma dominante. Esso incarna il punto terminale del mito progressista: l’idea che l’uomo possa (e debba) superare sé stesso, la propria biologia, i propri limiti, fino ad annullare la distinzione tra umano e artificiale. Una visione che non si accontenta di migliorare la vita umana, ma aspira a rifare l’uomo da capo, come se la sua struttura ontologica fosse un errore da correggere con algoritmi, modificazioni genetiche e impianti neurali. L’ibridazione tra corpo e macchina, la dissoluzione dei confini identitari (come nel caso del “genere” fluido), la tecnicizzazione della vita quotidiana e la delega di ogni funzione cognitiva all’intelligenza artificiale rappresentano tasselli di un unico disegno: la sostituzione dell’uomo con un’altra cosa. Ma questo “nuovo uomo” non è un superuomo: è un artefatto, una creatura tecnica senza radici, senza mistero, senza spirito. L’Occidente, nel nome del progresso, sta compiendo un suicidio antropologico. Si tratta di un processo che non si limita a minare le strutture sociali o le tradizioni culturali, ma che colpisce il cuore stesso dell’identità umana. L’uomo, una volta pensato come soggetto portatore di senso, spiritualità e libertà, viene oggi ridotto a un assemblaggio di dati biologici e funzionalità da ottimizzare. Questo non è avanzamento: è regressione sotto le spoglie della modernità. In realtà, ciò che si presenta come innovazione è spesso un processo di impoverimento. La crescente dipendenza dalla tecnologia ha coinciso con una perdita di capacità cognitive, di senso critico, di autonomia. L’analfabetismo funzionale, l’incapacità di comprendere e valutare le informazioni, è la spia più evidente di una decadenza travestita da innovazione. L’uomo “potenziato” è spesso un uomo svuotato. Il transumanesimo, nel suo nucleo più profondo, è una negazione della trascendenza. Nega la creazione, l’anima, il destino spirituale dell’uomo, sostituendoli con la tecnica, la manipolazione, l’auto-produzione. È la maschera moderna del desiderio prometeico, luciferino, di essere come Dio – ma senza Dio.  Non stupisce, quindi, che ogni forma di dubbio verso questo paradigma venga stigmatizzata come reazionaria, retrograda o “anti-scientifica”. Chi non si adegua alla narrazione dominante rischia l’esclusione sociale. La cultura del dissenso è scomparsa, inghiottita da una nuova ortodossia tecnocratica che non ammette eresie. Eppure, un’alternativa esiste, anche se poco battuta. È quella che parte dal recupero di un’antropologia spirituale, radicata nelle grandi tradizioni religiose e metafisiche dell’umanità. L’uomo non è un errore da correggere, ma una creatura da custodire. I limiti non sono ostacoli, ma condizioni della libertà. La fragilità non è un difetto, ma il segno di un’apertura al trascendente. In questo senso, la vera rivoluzione non è quella che aspira a costruire androidi, ma quella che recupera il senso dell’umano: la sua dignità, la sua interiorità, il suo legame con il divino. Non si tratta di fuggire la modernità, ma di attraversarla con uno sguardo critico e radicato. Di rifiutare il mito terminale del progresso per riabbracciare un orizzonte di senso. Restare umani, oggi, è un atto di resistenza. Significa rifiutare l’idea che ogni possibilità tecnica sia automaticamente un bene. Significa credere che l’uomo valga per ciò che è, non per ciò che può diventare attraverso la tecnologia. Significa – in ultima istanza – sottrarsi al culto del post-umano per tornare all’umano, non come punto di partenza, ma come destino da custodire.