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La letteratura non corregge il mondo

di Marcello Veneziani - 01/05/2021

La letteratura non corregge il mondo

Fonte: Marcello Veneziani

Rigurgitano dagli anni di piombo nove ombre rosse del terrorismo, restituite dalla risacca francese alla giustizia italiana dopo decenni di rifugio protetto. E nello stesso tempo riaffiora una parola chiave che sembra appartenere a quegli anni: impegno, anzi engagement, alla francese. In quel tempo la nobiltà di un’opera, un’arte e un autore era misurata dall’impegno civile, politico, ideologico. Cinema impegnato, cultura impegnata, letteratura impegnata. Da Emile Zola a Jean-Paul Sartre – ma si potrebbe risalire ai giacobini e alle società di pensiero illuministe – la Francia è stata la culla dell’engagement come dei rifugiati politici.

Walter Siti ha scritto un pamphlet argomentato e tagliente Contro l’impegno (ed. Rizzoli) in cui nota il ritorno dell’impegno tra molti scrittori, soprattutto nostrani. Siti critica la letteratura che vuol “riparare il mondo”, per dirla con Obama, proteggere le vittime dai soprusi, denunciare il male, insegnare a vivere, fare giustizia, lanciare messaggi, fare proseliti. Ma teme di essere “strumentalizzato dalla destra”, perché rivolge la sua critica a Roberto Saviano ma anche a Michela Murgia, a Gianrico Carofiglio e altri. Rassicuro Siti: per quel che mi riguarda non lo farò. Anzi, pur apprezzando il suo pamphlet e condividendo molte sue critiche, lo sorprenderò dicendo che l’impegno in letteratura non è un male in sé. E’ una forma di letteratura che ha pari dignità delle altre, quella incentrata su temi esistenziali, quella lacerata da dubbi, quella evasiva, quella fantastica e così via.

La letteratura ha sempre convissuto con l’impegno: allarghiamo lo sguardo oltre il nostro tempo. Per non parlare degli antichi, Dante fu autore “impegnato” mentre Petrarca e Boccaccio non lo furono. E la sua passione civile non toglie nulla all’altezza lucente dei suoi versi e dei suoi scritti. O per planare in tempi a noi più vicini: l’idealismo militante delle riviste fiorentine, l’interventismo della cultura dalla Prima guerra mondiale in poi, ha percorso la letteratura e ancor più il pensiero. Gli scrittori interventisti, citando alla rinfusa D’Annunzio e Marinetti, Papini e Malaparte, e su altri piani Gramsci, Gobetti e Salvemini, Gentile e Berto Ricci, furono fautori dell’impegno. E in tempi più recenti Pasolini.

Non critico Saviano, Murgia, Carofiglio e altri per il loro “impegno” ma per la sostanza del loro impegno. La letteratura, anche quella impegnata, va giudicata per la qualità e la consistenza dell’opera, l’onestà e la lucidità delle argomentazioni, la bellezza dei testi, la capacità di parlare all’intelligenza e al sentimento dei lettori. Certo, la letteratura che tocca la condizione umana e non si ferma al proprio tempo è su un gradino più alto; ma la collocazione non garantisce da sola la qualità. L’impegno non basta per legittimare o incensare un’opera o un autore ma nemmeno per squalificarli o liquidarli. Anche il narcisismo, che è la patologia regina del nostro tempo, produce tanti mostricciattoli in letteratura ma in sé non basta per squalificare un’opera: ci possono essere anche capolavori scritti in pieno delirio narcisistico.

Cosa diventa insopportabile nel neo-impegno? Innanzitutto il manierismo ideologico-correttivo, o per dirla con le parole di Siti riferite alla fiction televisiva, dove sono più sfacciati e banali gli schemi conformisti: “il manuale Cencelli del politicamente trendy: un nero, una suora progressista, una coppia omosessuale, una donna a capo del distretto di polizia, un handicappato”. E poi i migranti che “vengono usati in letteratura come in politica come bandiere, simboli, insegne da ostentare”. Per non dire del cinema, dove l’impegno è con rimborso a piè di lista: un film con i suddetti ingredienti riceve fondi, premi, aiuti. Insopportabile è l’impegno solo da una parte, o peggio all’ombra di un Intellettuale Collettivo, in favore di corrente e di mainstream; finge di parlare contro il potere e il pensiero unico ma di fatto esprime con varianti personali i precetti e i canoni obbligati del catechismo progressista-antifascista-antirazzista, con relativo disprezzo per chi non la pensa come loro. Poi la pretesa di giudicare il mondo ponendosi su un piano più alto, e giudicarlo senza conoscerlo, sulla base dei propri stereotipi e pregiudizi rielaborati: riducono chi la pensa diversamente a un solo Modello, un solo Livello. Ecco il Male, il Nemico.

Ma il vero guaio per l’impegno è che non c’è più un modello utopico di società perfetta verso cui tendere, come era stato fino agli anni di piombo, sicché resta solo la sua carica negativa: rimane il rigetto verso la realtà, la natura, la storia, la vita comune, tutto ciò che puzza di “normale”. Da qui l’impoverimento di orizzonti, il risentimento, l’assenza di autocritica, il manicheismo partigiano, la necessità di avere un nemico su cui scaricare ogni male e negatività del mondo, anche quelli che derivano dall’umana imperfezione o dalla natura della vita.

Certo, sul versante opposto, o meglio sui versanti opposti, almeno nell’ultimo mezzo secolo, l’impegno è stato più scarso e timido, costretto a rifugiarsi e perfino mimetizzarsi in mondi remoti e introflessi; ma è stato anche poco riconosciuto, disprezzato, isolato, demotivato, messo a tacere, fino alla morte civile. Con l’aggravante che “a destra” si legge poco. In un breve passaggio, Siti liquida di sfuggita Oriana Fallaci e Carlo Sgorlon, sbriga in modo sprezzante Gianpaolo Pansa, giudicandolo con parametri letterari (ma le sue opere sono giornalismo d’inchiesta storica, non hanno pretesa letteraria) e critica Pietrangelo Buttafuoco come un fascista barocco e dannunziano ma lo tratta con un po’ più di rispetto.

Insomma, la letteratura impegnata, come quella non impegnata, riflette i tempi di risacca e bassa marea. Non è tanto l’impegno a immiserire la letteratura, ma più spesso è la miseria letteraria e umana a impoverire l’impegno.