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La modernità è la malattia: o guarire o morire

di Francesco Lamendola - 12/09/2016

La modernità è la malattia: o guarire o morire

Fonte: Il Corriere delle regioni

 

Esistono due maniere di vivere, due filosofie esistenziali, due modi di porsi, concretamente e quotidianamente, di fronte al reale: secondo natura e contro natura. La prima maniera era quella dei nostri nonni, specialmente nel contesto della civiltà contadina; la seconda è la nostra, che inizia coi telai meccanici nel XVIII secolo, prosegue con gli opifici del XIX e la catena di montaggio del XX, con le grandi città che vivono di terziario, con le folle “democratiche” che corrono da tutte le parti, ascoltano due o tre telegiornali al giorno, fanno la spesa al supermercato e, la sera, si rintanano nei loro covili a riempirsi di compresse per l’ansia, per la depressione e per l’insonnia, in attesa di riprendere, al mattino dopo, la loro vita artificiale da schiavi consenzienti.

Non staremo qui a spiegare perché la modernità sia, in se stessa, una malattia, e perché l’uomo moderno, in quanto tale, sia un malato cronico: è una di quelle cose che o si capiscono spontaneamente, e anteriormente a qualunque ragionamento, oppure non si capiranno mai. Ci limiteremo a indicare l’elemento decisivo di quella malattia: l’alienazione da se stessi, conseguenza, a sua volta, della rottura della relazione verticale dell’esistenza, e, quindi, del rapporto con Dio. Senza più relazioni con Dio, l’uomo ripiomba dentro se stesso; ma non trova sfogo al suo slancio metafisico, per cui o imputridisce, e muore ancor vivo, decomponendosi, oppure si mette volontariamente sulla strada dell’autodistruzione, cercando disperatamente di scrollare da sé quel di più di energia, di tensione, d’inquietudine, le quali, non trovando più uno sbocco verso l’alto, lo cercano verso il basso: verso gl’istinti primordiali, la lussuria, l’ira, la cupidigia.

Afferrato in questo ingranaggio, che proietta all’esterno sotto forma di industrie, di megalopoli, di voli intercontinentali, di viaggi nello spazio, di scissione dell’atomo e di manipolazione genetica, fecondazione artificiale e clonazione, l’uomo moderno si trasforma in un analfabeta di se stesso, si atrofizza nei suoi istinti positivi, nel suo nobile slancio vero l’alto, e sprofonda sempre più nella palude delle pulsioni inferiori, trasformandosi in un demone distruttivo e autodistruttivo, in una creatura del male, che odia la vita (aborto, eutanasia, droga, matrimonio omosessuale), ma non ha il coraggio di guardarsi allo specchio e vedersi e giudicarsi per ciò che realmente è diventato, e che si racconta un mare di frottole con le quali si persuade di essere un cavaliere del progresso, della libertà, della giustizia sociale, e chissà di quante altre nobilissime cause. Se poi non ce la fa proprio più, si affida alle cure di una forma di magia nera chiamata psicanalisi, o si riempie di farmaci che bloccano i sintomi del suo male, senza minimamente intaccarne le cause; finché, vinto, si abbandono alla follia, si abbrutisce con l’alcol o gli stupefacenti, si uccide o uccide degli altri esseri umani, proiettando su di essi le sue intollerabili frustrazioni e convincendosi che, una volta eliminata la moglie, il marito, l’amante, il padre, il rivale o il collega di lavoro, le cose andranno meglio, il suo equilibrio verrà ristabilito e la vita gli darà i meritati riconoscimenti per la sua intelligenza, la sua bravura, il suo fascino, la sua creatività.

L’uomo premoderno (una figura ancora qua e là esistente, ma sempre più rara), e specialmente il contadino, immerso nel ciclo della natura e della vita, abituato a non dare nulla per scontato, a non fondarsi sulla rivendicazione di “diritti” ma sul lavoro delle sue mani, cosciente dei suoi limiti, della sua fragilità, della sua imperfezione e, soprattutto, della sua mortalità, ma anche fiducioso verso Dio e abbastanza umile da chiedere con la preghiera l’aiuto necessario per le necessità della sua vita, abbastanza onesto da ringraziare per tutto ciò che riceve, a cominciare dal pane quotidiano, non vive in un mondo astratto e artificiale, ma nel mondo reale, concreto, delle cose vere. Egli non sa quel che succede in Australia, né chi ha vinto l’ultima edizione del Grande Fratello, e neppure chi ha conquistato la medaglia d’oro alle Olimpiadi: eppure, cosa strana, non ne risente affatto, non se ne cruccia, non se ne gloria, è immerso nella vita vera e ciò gli basta a riempire i suoi pensieri.

Non si vuol dire, con questo, che è uno sprovveduto; se gli si parla di un problema, non solo di carattere circoscritto, ma anche di uno dei grandi problemi della politica nazionale o internazionale, sa vedere d’istinto il nocciolo della questione, sa cogliere i lati deboli di un ragionamento, sa formarsi una sua opinione; oppure, se non è capace di farlo, lo ammette francamente, riconosce di non sapere quali sono le leggi della finanza, o i meccanismi della politica e della diplomazia: non se ne cruccia, ma si rimette alla competenza degli esperti. Tuttavia, riducendo le grandi questioni alla loro nuda essenza, egli ne intuisce molto bene la natura e così, senza alcuna espressione forbita e senza dotte citazioni, di solito intuisce di che cosa si tratta e quel che andrebbe fatto.

Qualcuno dirà che questo è il mito del buon selvaggio in versione virgiliana: niente affatto, ne è l’esatto contrario. Rousseau ha una fiducia immotivata e ingiustificata nella bontà originaria e indefettibile degli esseri umani, a patto che la società cattiva non venga a corromperli e a farli tralignare; noi,  invece, stiamo affermando che gli uomini non sono più buoni, ma certo più sereni, più in armonia con se stessi e con il mondo, più pazienti, più responsabili, più laboriosi, più saggi, se non recidono il legame con Dio e con la vita soprannaturale, se non si rinchiudono nella logica dell’immanenza, se non si abbandonano all’etica del relativismo, se non si sprofondano nell’edonismo, se non si affidano ciecamente a un tecnicismo senza scopi, senza valori e senza neppure un’anima. Si potrebbe obiettare che tutto questo è utopistico, e che l’uomo moderno non ha alcuna possibilità reale di recuperare un simile orizzonte esistenziale, ormai consegnato agli archivi della storia. Rispondiamo che l’uomo di oggi può scegliere, interiormente, se appartenere alla modernità, oppure all’eternità; se essere se stesso, o quel che i meccanismi del diabolico consumismo vorrebbero che egli diventasse; se salvare la propria anima, l’incanto del mondo, le ragioni della speranza, oppure abbandonarsi all’angoscia, alla disperazione e alla morte, in cambio del piatto di lenticchie rappresentato dai vestiti firmati, dalla rincorsa al posto di prestigio, da una tecnologia tanto sofisticata e costosa, quanto futile e banale.

Per esempio: che non si possa fare a meno della televisione, del telefono, dell’abito firmato, dell’automobile, delle vacanze all’estero, dell’abbronzatura, della palestra, è tutto da vedere; tanto varrebbe dire che il fumatore non può fare a meno delle sigarette, o che l’alcolista non può rinunciare alla bottiglia. Se ci si accorge di essere schiavi delle cose, bisogna strapparsi da esse, costi quello che costi; oppure rassegnarsi a una vita da schiavi, cioè al livello più infimo della condizione umana (o sub-umana). Non pretendiamo, comunque, che si debba rinunciare alla tecnica, o all’economia di un capitalismo moderato, o alla logica del profitto: queste cose sono ormai necessarie per mandare avanti una società complessa, come la nostra; l’importante, però, è non diventarne schiavi. Si può anche adoperare la televisione, l’automobile, eccetera, senza esserne schiavi: cioè usandole con senso di responsabilità, nella misura del necessario e non oltre, e senza mai perdere di vista che l’obiettivo non sono le cose in sé, ma i servizi realmente utili e necessari che esse possono fornirci per puntare a qualche cosa d’altro. La vita materiale, con le sue necessità, deve essere la premessa per la vita spirituale, e, possibilmente, per la vita soprannaturale: questo è il giusto ordine di cose. Se ci si serve della televisione, in qualche misura, per coltivare alcuni bisogni intellettuali, come vedere un vecchio film o documentarsi su un certo argomento di attualità (sapendo, peraltro, che tale documentazione ci verrà fornita in maniera distorta e tendenziosa), ebbene lo si può fare: la televisione non è il diavolo, come non lo è l’automobile,  come non lo sono neppure le industrie, le banche o la finanza. Il problema è la dipendenza, la schiavitù; il problema è l’ipertrofia della produzione industriale, che serve a gettare sul mercato cose inutili o nocive, invece di cose utili e necessarie; il problema è la finanza malata, sono le banche speculative, le quali, invece di sostenere il lavoro e offrire un sicuro asilo al risparmio, producono utili per se stesse ed a rischio e pericolo dei risparmiatori, e tagliano le gambe agli imprenditori onesti, negando loro l’accesso al credito, se non a condizioni da usurai.

Noi possiamo scegliere se essere abitanti nella modernità o della modernità: nel primo caso resteremo noi stessi, qualunque cosa accada; nel secondo, accetteremo ciecamente, senza critica, senza riserve, tutta la filosofia della modernità: il materialismo, l’edonismo, il relativismo, l’efficientismo, l’utilitarismo, e, soprattutto, l’intellettualismo.

Ecco: se dovessimo compendiare in una sola parola l’essenza patologica, cancerogena, della modernità, sceglieremmo proprio questa: l’intellettualismo. L’uomo moderno è malato di intellettualismo; la società moderna è malata d’intellettualismo. Esso non va confuso, si badi, né con la facoltà della ragione, che, di per sé, è una cosa nobilissima, né con l’amore per la cultura e per la ricerca del sapere; ne è, anzi, in un certo senso, la perfetta negazione. Per stabilire il primato dell’intellettualismo, la modernità ha prodotto una nuova figura di parassita sociale, di cialtrone tuttologo e tuttofare: l’intellettuale. Per esistere, l’intellettuale ha bisogno di quella strana cosa, innaturale, e, in ultima analisi, irreale, che è l’opinione pubblica: entità liquida, mutevole, elusiva, inafferrabile, che si nutre di sondaggi (d’opinione) e si mantiene in vita, artificialmente, mediante le “battaglie” portate avanti, appunto, dall’intellettuale. A sua volta, l’opinione pubblica è creata dalla stampa periodica (e, oggi, anche dalla televisione e dalla rete informatica), ossia da ciò che Kierkegaard chiamava, con disprezzo, “le gazzette”. Sono le gazzette che tengono in piedi questa strana e nebulosa entità, chiamata opinione pubblica, che poi sarebbe l’opinione di tutti e di nessuno: e l’opinione, lo sappiamo dalla filosofia greca, è il contrario della certezza, ossia della verità. Ne consegue che tutto si regge sugli umori di una entità fantasmatica e collettiva che si nutre di opinioni, le quali le sono fornite dalle gazzette: le quali, a loro volta, sono gli stipendifici della mala razza degli intellettuali di professione. Sì, lo sappiamo: la maggior parte degli intellettuali, oggi, non scrivono sulle “gazzette”, ma insegnano nelle università, o lavorano negli istituti di ricerca pubblici e privati; come categoria, però, essi nascono precisamente dalle “gazzette”, e questo nel corso del XVIII secolo, con il preciso mandato (della Massoneria e di altre società segrete) di diffondere la”filosofia dei lumi”. Di questa eredità genetica, che li ricollega ai philosophes francesi e ai savants della Ragione illuminista, spregiudicata e anticristiana, agli intellettuali dei nostri giorni è rimasto appiccicato il lezzo inconfondibile, insieme a tutti gli altri vizi: la superbia, l’inconsistenza, la presunzione, la facilità a imprestare la loro penna al vincitore di turno, lodando le sue virtù e maledicendo le orribili colpe del vinto. E si veda, a titolo di esempio, la sessantennale dialettica di Resistenza/fascismo, di Democrazia/fascismo, di Antifascismo/fascismo (osservando, debitamente, la maiuscola nel polo positivo, e la minuscola nel polo negativo di queste coppie oppositive; e il fatto che il primo termine può variare, mentre il secondo resta fisso, inchiodato alla sua malvagità irredimibile, in saecula saeculorum).

A causa della dittatura di questa genia di parassiti presuntuosi e mediocri, tutto il mondo della cultura si è abbassato sulla loro misura. Oggi non abbiamo più dei veri filosofi (cioè persone capaci di pensare con la loro testa in modo rigoroso e originale), o, se li abbiamo, essi vengono bellamente ignorati; in compenso, abbiamo un certo numero di tele-filosofi, di filosofi dalla barba tinta, più o meno fotogenici e sempre rigorosamente politically correct, i quali ci affliggono dal piccolo schermo dispensandoci le loro pillole di saggezza di una desolante miseria speculativa, i loro discorsi da Bar Sport appena rivestiti da una cornice pseudo-filosofica, magari con qualche citazione di Heidegger o di Marcuse. Non abbiamo più nessun’altra categoria di pensatori “puri”, di autentici uomini di cultura, se non personaggi pronti e disposti a prostituirsi in versione televisiva, banalizzando concetti e ragionamenti, appiattendo i contenuti, svuotando di significato il pensiero creativo, l’arte, la scienza, e sempre per dare in pasto al pubblico la sua razione di mangime preconfezionato, la sua biada liofilizzata, come si addice alle pecore e ai buoi, quali in realtà sono gli anonimi signori della cosiddetta “opinione pubblica”.

Se così stanno le cose, che fare? La modernità è la malattia: il cancro che ci succhia l’anima e ci ottenebra la mente e la sensibilità. Dobbiamo decidere se vogliamo vivere o morire; e, nel primo caso, metterci in testa che dobbiamo restare ben svegli, senza farci ipnotizzare dal canto delle sirene consumiste; che, se vogliamo salvarci da un lento, progressivo processo d’incretinimento e di abbrutimento, dovremo lottare ogni giorno, ogni minuto, per riconquistare e difendere la nostra umanità, la nostra identità, la nostra personalità. Non a caso l’attacco che i poteri occulti stanno sferrando mira a distruggere queste tre cose: l’umanità, trasformandoci in robot intercambiabili; l’identità, omologandoci sulla misura di un “uomo medio” insipido e ubiquitario, buono per tutte le stagioni, per tutti i climi e tutti gli esperimenti, anche i più diabolici; e la nostra stessa personalità…