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La scuola progressista è dannosa, e profondamente classista

di Antonio Catalano - 19/12/2021

La scuola progressista è dannosa, e profondamente classista

Fonte: Antonio Catalano

Ho scritto spesso di scuola, provando a spiegare quali siano i fattori che ne hanno determinato la distruzione, la cancellazione del suo ruolo di crescita intellettuale nella società, con il conseguente approdo a quella che definisco la sua fase post-agonica (l’agonia si è già consumata).
La scuola ha compiuto per intero il processo di trasfigurazione, è diventata, con la compiaciuta approvazione degli apparati istituzionali, mero luogo di socializzazione a base di varie “educazioni” finalizzate a promuovere il “nuovo mondo” prospettato dall’ideologia globalista di marca progressista.
Dopo averla affossata anni fa, è ricomparsa la nuova “Educazione civica” (quella vecchia era deputata a insegnare i rudimenti del diritto costituzionale, ma solo alle superiori), ma la cosa non ci rallegra in quanto si tratta di un vero e proprio cavallo di troia, concepito infatti allo scopo di inculcare nelle giovani menti le idee-chiave tanto care al credo globalista.  Elisabetta Frezza (il cui intervento a un recente convegno si può ascoltare cliccando sul link riportato in basso nei commenti), a proposito della nuova educazione civica, dice delle cose molto interessanti. La Frezza, dopo averci ricordato che questa “nuova” materia è diventata obbligatoria a partire dalla scuola dell’infanzia, ci dice che metodologicamente si comporta come un asso pigliatutto, in quanto entra trasversalmente in ogni altra materia del curriculo, contaminandola. Dal punto di vista del contenuto non è altro che il pacchetto dei dogmi raccolti nel nuovo vangelo universale, l’Agenda Onu 2030. (Tra parentesi, l’anno scorso ho dovuto sudare le proverbiali sette camicie per impedire che tra gli obiettivi di dipartimento venisse inserita l’insidiosa e tanto ideologica “agenda 2030”). Questa agenda, una vera e propria teologia, globalista, ruota intorno alla formuletta dello sviluppo sostenibile che si presenta in veste ecologista, ma di quell’ecologismo contro l’uomo, quello declamato dalla fanciulla scandinava, secondo cui l’uomo è il parassita dell’ecosistema. Teologia che si presenta in veste egualitaria, pacifista, scientista, genderista, omosessualista, pansessualista, trans femminista, integrata in corsa con tutto il pacchetto sanitario legato alla nuova situazione sanitaria. Insomma, la nuova educazione civica, nome d’arte dell’Agenda 2030, dice la Frezza, è il grande carro dentro il quale vengono trasportate tutte le ideologie in voga per addomesticare fin dalla culla il cosiddetto cittadino globale, un’altra etichetta truffaldina, al fine di ipnosi collettiva. Perché il cittadino chi è? È l’abitatore, il difensore della sua polis, e nella cosmopoli globale, che è un non luogo, che a lui è alieno, si tramuta e si dissolve nell’apolide. Il cittadino globale, questo è il cittadino della nuova educazione civica, è semplicemente il non cittadino, l’individuo senza patria e senza identità, proprio come lo vogliono le élite.  
Lo ripetono da anni i diligenti dirigenti scolastici che ormai la scuola non è più quella di 30 anni fa, che essa non ruota più intorno alla “lezione frontale” (espressione divenuta dispregiativa), che basta con l’ossessione dei programmi (ieri a Rai Storia la solita esperta progressista parlava col sorrisetto beffardo, di chi esprime sufficienza, dei programmi come retaggio di una scuola del passato). Perché nella scuola contemporanea non si insegnano più i contenuti, ma le competenze, lo spirito del tempo richiede (secondo questi allucinati cultori del progresso a prescindere) adattamento veloce ai frenetici cambiamenti occorsi nella società. Il cardine della concezione progressista: una sorta di frenesia neo-eraclitea (dal filosofo presocratico Eraclito, quello che “tutto scorre”, per intenderci) che pretende che si consideri il cambiamento valore in sé, guai a discuterne i presupposti, perché se no ti rovesciano addosso bagnarole di ingiurie, che vanno dal “bonario” retrogrado all’immancabile fascista. Che i ragazzi arrivati in quinta superiore non conoscano quale siano le regioni d’Italia, quali i suoi capoluoghi, quale il fiume più lungo (lasciamo stare gli affluenti di destra e di sinistra), quali le montagne, quando si è formato lo stato italiano eccetera (tutte nozioni – ah, il nozionismo! – che una volta si possedevano alle elementari), queste sono pinzillacchere, vuoi mettere la loro capacità di adattarsi nel mondo che cambia? La cultura progressista propugna una cittadinanza ideologica, quando la vera cittadinanza si nutre della consapevolezza di essere parte della comunità nella quale si vive, e della conoscenza del tempo e dei luoghi condivisi, presupposti fondamentali per la costruzione, e il rafforzamento, di una identità individuale e collettiva.
Il libro appena pubblicato di Mastrocola e Ricolfi – Il danno scolastico, la scuola progressista come macchina della disuguaglianza – non fa sconti: riconduce il danno scolastico alla cultura progressista che si è andata sviluppando a partire dagli anni Sessanta. Cultura che non si limita al perimetro della “sinistra”, anche se questa si autodefinisce con orgoglio progressista, ma che riguarda anche il campo della “destra” (continuiamo a riferirci a queste attribuzioni per comodità, solo perché ancora testardamente le si usano nel dibattito politico, ma dovrebbe essere ormai chiaro ai più che la loro valenza non è più quella “storica”). La distruzione della scuola imperniata sullo studio e sull’apprendimento di contenuti è stata sostituita dalla scuola “facilitata”, ma non si pensi che il trionfo delle idee progressiste sia il risultato (come si scrive nel libro) di una battaglia in campo aperto, che uno dei contendenti abbia vinto e l’altro abbia perso, la verità è che uno dei due contendenti non si è presentato; essa è il frutto di un paziente, meticoloso e ininterrotto lavoro cui hanno partecipato un po’ tutti, e ciascuno a suo modo, non solo i politici, gli intellettuali e i pedagogisti progressisti. Ci ricordiamo delle tre “I” (internet, inglese, impresa) di berlusconiana memoria (2001)?
Ma perché per gli autori del “Danno scolastico” la scuola progressista è una macchina della disuguaglianza? All’osservatore superficiale può suonare strana la cosa, perché in fondo la cultura progressista ha facilitato il percorso scolastico, lo ha semplificato; quindi, i figli dei ceti popolari hanno avuto la vita più facile, essendo la cultura “alta” appannaggio delle classi agiate. Ma loro ci spiegano che si è trattato di una semplificazione che si è espressa con l’abbassamento continuo della famosa asticella – assenza di apprendimento, assenza di padronanza del linguaggio, assenza di capacità di ragionare, difficoltà (spesso impossibilità) di capire le domande, di produrre autonomamente le risposte (invece che selezionarle tra 5 preconfezionate) – e che questo ha distrutto la capacità di concettualizzare, di esprimersi per concetti, presupposto fondamentale della conoscenza. Distruzione quindi che ha penalizzato in prima battuta proprio i figli dei ceti popolari, in quanto privi di quei supporti compensativi necessari a controbilanciare tale realtà. Come scriveva nel lontano 1998 Lucio Russo, per semplificare le cose si è passati dai segmenti ai bastoncini, dal che il titolo del suo fondamentale libro, prima spietata denuncia del nuovo corso nella scuola.
Mastrocola e Ridolfi, ognuno a suo modo, ci parlano di una scuola che ha distrutto la funzione docente, ormai del tutto svalutata, essendo i docenti ridotti a “facilitatori”, motivo per cui non esprimono più autorità e quindi non esercitano quella necessaria autorevolezza senza della quale non vi è insegnamento; ci parlano di pedagogisti progressisti che considerano del tutto secondario l’insegnamento delle materie; ci parlano insomma di docenti che non esprimono più la loro naturale funzione, di docenti esposti alla disistima sociale (perché la stima sociale non è una variabile dipendente dell’ammontare retributivo, semmai è il contrario).
Secondo i nostri autori, di battaglie contro la vecchia scuola, considerata troppo seria per essere “democratica”, i picconatori ne hanno combattute (e vinte) molte. Ma quelle cruciali, quelle che hanno spianato la strada per il trionfo finale, giunto solo negli anni duemila, si sono svolte nel breve intervallo che va dall’avvio della scuola media unificata (1963) allo scoppio della contestazione studentesca (1968-1969). Un processo che si affermerà, definitivamente, con la riforma di Luigi Berlinguer. Poi proseguita con De Mauro, Moratti, Gelmini, la Fedeli, la Buona scuola…
Come si diceva, il trionfo finale è stato celebrato con la riforma Berlinguer (2000). Me lo ricordo come fosse oggi quel periodo. Nelle scuole si scatenarono i fanatici squadristi sostenitori della riforma, attivisti progressisti della sinistra (in particolare della Cgil scuola) che aprirono una micidiale offensiva a tutto campo contro la scuola “tradizionale”. Era letteralmente impossibile discutere, la loro intolleranza raggiunse picchi impensabili fino ad allora. Se non condividevi le loro idee, con annessa neolingua, ti impedivano di parlare, ti strappavano i microfoni, i manifesti, ti ostracizzavano in tutti i modi possibili. Esprimere semplicemente dei dubbi sul loro verbo progressista rappresentava per questi una dichiarazione di guerra alla quale rispondere con tutti i mezzi necessari.
Ma quali erano gli assi portanti della riforma Berlinguer? Ricordiamoli. Progetti, valutazione, diritto al successo formativo.
Con i progetti si mettevano in ombra le materie curriculari. I progetti trasformarono la scuola in un’ “impresa” che “offre” all’“utenza” attività extrascolastiche. Nasceva il famigerato POF (Piano dell’Offerta Formativa), il menu, il dépliant pubblicitario che presentava alle famiglie (utenza) il prodotto-scuola. Scuole che dovevano muoversi nel mercato della formazione secondo ben precise strategie di marketing, tese principalmente all’accaparramento di quote di mercato, rappresentate dai ragazzini della terza media da invogliare (tramite le rispettive famiglie) a iscriversi in scuole tirate a lucido per la bisogna, e più iscritti maggiori finanziamenti. Iscritti, e famiglie, che diventavano utenti/clienti. E si sa che il cliente ha sempre ragione. Ecco svelato il mistero del “partito delle mamme” che incute timore nei dirigenti. Il “partito delle mamme” (i papà ahimè sempre meno presenti), feroce difensore dei propri pargoli, diventava il tallone di ferro della nuova scuola. E questo è il motivo del perché diventava sempre più inutile condurre un ragazzo maleducato, o che ti mandava a quel paese (o che ti diceva “ti sparo nelle gambe”, come successe al sottoscritto), alla dirigenza scolastica: tu docente hai torto per definizione, come minimo non hai saputo motivare lo studente… quindi come minimo ti meriti quel comportamento. Ed ecco spiegato il motivo di tanti (purtroppo) docenti che si adeguavano mogi mogi e lasciavano fare, tanto ormai… Tenendo presente che i progetti distraevano i docenti dall’insegnamento, per cui “paradossalmente” chi dedicava tutto il suo tempo a insegnare (retrogrado!) era penalizzato retributivamente rispetto a chi impiegava parti considerevoli del tempo lavorativo in suddetti progetti.
La valutazione. Diventava “oggettiva”. Bisognava cioè misurare le competenze acquisite in un esercizio, in un progetto, in un corso, in un’uscita didattica, tutto doveva essere misurabile, tutto doveva rispondere a precisi parametri definiti dal dipartimento disciplinare, secondo una rigorosa tabella, uguale per tutti gli insegnanti.
Ma la perla della riforma Berlinguer era il “diritto” alla promozione e ad arrivare fino in fondo al percorso della formazione. Per cui si cancellava definitivamente quel che rimaneva del dovere e della responsabilità. Se non studi è perché è l’insegnante che non ha saputo motivarti, o è la scuola che non ti ha offerto corsi di recupero adeguati, e se capita che ti bocciano questo rappresenta un chiaro fallimento della scuola. Il fatto che l’insegnante non sa motivare (succede pure) lo studente diventava la giustificazione della mancanza di impegno nello studio. E poi, non bisognava stressare i ragazzi, dare compiti a casa era caricarli di un lavoro eccessivo che toglie loro tempo di vita, bisognava programmare le interrogazioni, non interrogarli per più di una materia al giorno eccetera eccetera; insomma, insistere sul fatto che lo studio è impegno, è fatica, rendeva ostile l’ambiente scolastico agli allievi, che invece devono vedere nella scuola un’occasione di gioco, di incontro, di esperienze… per questo i progetti assumevano nomi strani, strampalati: Senza zaino, Scuola due punto zero, Classi aperte, Classe viaggiante, Cervelli ribelli, Scuola capovolta…
Facilitare, semplificare, azzerare la responsabilità, garantire il “successo” scolastico non hanno reso la scuola più “democratica”, non ha favorito i figli delle famiglie di ceto popolare (basta solo osservare i dati della “dispersione scolastica”), ha solo creato una divaricazione ancora più netta, di classe, tra le famiglie che dispongono di mezzi (non solo economici) di sostegno dei propri figli e famiglie che non dispongono di questi mezzi. La cultura progressista ha creato le premesse di un abbassamento del livello di apprendimento e di conoscenza, ha demonizzato gli insegnanti che si sono opposti all’abbassamento dell’asticella, o semplicemente contrari a rilasciare falsi attestati.  
Gli autori, amaramente, ricordano come questi insegnanti resistenti sono siano stati bollati come reazionari, o più benevolmente come nostalgici, di conseguenza liquidati come incapaci di stare al passo con i tempi. La cultura progressista occupa posizioni di potere dalle quali impartisce con arroganza il suo verbo, sgarbatamente e altezzosamente ignorando qualsiasi critica si muova verso una scuola che nell’evidenza dei fatti fa acqua da tutte le parti. Basta, per esempio, leggere la risposta piccata di “Articolo 33” al libro di Mastrocola-Ricolfi. Da leggere la “Lettera a un genitore”, inserita nel libro (la riporto nei commenti).
Concludo questo lungo post con le dure parole finali del libro. «No, cari finti progressisti, su questo avete toppato. È stato uno sbaglio enorme. Il danno che avete inferto al nostro paese è grande, ma il danno che avete inferto ai ceti popolari è ancora più grave, e non scusabile. Perché l’abbassamento degli standard ha aumentato, non ridotto, le diseguaglianze sociali. Ricevere un’ottima istruzione era l’unica vera carta in mano ai figli dei ceti bassi per competere con i figli di quelli alti, cui molti di voi appartengono. Gliela avete tolta, e avete avuto il becco di farlo in nome loro. Imperdonabile.»