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Le categorie del 'politico': Stato, politica e sovranità nel pensiero di Carl Schmitt

di Claudio Capo - 22/01/2023

Le categorie del 'politico': Stato, politica e sovranità nel pensiero di Carl Schmitt

Fonte: Barbadillo

E' tutt’altro che superato e le riflessioni contenute in Le categorie del politico portano testimonianza della sua attualità. Curato da G. Miglio e P. Schiera il volume edito per i tipi Il Mulino, riunisce i saggi più significativi della produzione politologica schmittiana dal 1922 al 1953 e ripercorre l’intera parabola di pensiero del filosofo tedesco. Certamente uno dei personaggi più rappresentativi della cultura mitteleuropea del Novecento, Schmitt è fondamentale per capire le trasformazioni politiche e giuridiche del mondo post-ideologico. In questa sede, per via della corposa quantità di temi trattati dal giurista tedesco, si impone la necessità di circoscrivere il campo di analisi ai due temi più importanti: Teologia politica (sul concetto di sovranità) e Il concetto di politico (sulla distinzione di amico-nemico).

L’Europa detronizzata
Il comune denominatore dei lavori presentati nel volume è inquadrato nella Premessa all’edizione italiana. Il giurista tedesco descrive un’“Europa detronizzata” che “cola a picco” dove i concetti di “politico” e “diritto” che erano stati elaborati dai popoli europei, subiscono una torsione tale da dissociarli dalla loro storia (p. 21). Schmitt è netto sul giudizio delle cause: il declino europeo è una conseguenza diretta della “rapidità del progresso scientifico-tecnico-industriale” dove “non è più possibile distinguere tra costituzione, legge e ‘misura’”, che, invece, si sono trasformate in metodi di una permanente trasmutazione dei valori (p. 22).

Ma chi, per farla con Mann, si è reso artefice di questo progressivo passaggio dalla Kultur alla Civilization? Per Schmitt la risposta è da ricercarsi nel concetto di “sovranità”. Il filosofo tedesco è lapidario: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione” (p. 35). In questa frase è sintetizzata la concezione schmittiana della sovranità. È una teoria genealogica sulla fonte del potere, del punto di chiusura dell’ordinamento giuridico. Per Schmitt ogni discorso sulla costituzione dell’ordine non può darsi senza porre un’idea di Stato. Tuttavia, il concetto di Stato presuppone quello di “politico”. In Schmitt, ogni discorso sullo Stato e sulla sovranità implica l’essenza del “politico”. Infatti, è il “politico” che, costituendo lo Stato, sancisce un proprio ordinamento e subordina a sé il diritto: la legittimità o l’illegittimità della norma è completa discrezionalità del “politico”. Lo Stato, ci dice Schmitt, è “una situazione, definita in modo particolare, di un popolo, è anzi la situazione che fa da criterio nel caso decisivo, e costituisce perciò lo status esclusivo, di fronte ai molti possibili status individuali e collettivi” (p. 101). L’ordinamento giuridico non esiste a priori come sostenuto dai giusnaturalisti e dal loro “diritto naturale”, ma è diretta emanazione del pensiero politico. Il politico, nella forma che assume nello Stato, “dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto” (p. 44). Nello stato d’eccezione la decisione, afferma Schmitt, si rende libera da ogni vincolo normativo e diventa assoluta in senso proprio, lo Stato sospende il diritto in virtù dell’autoconservazione dell’ordine (p. 39).

Lo stato d’eccezione
In Teologia politica assistiamo all’esaltazione della categoria del “politico” che, detenendo la decisionalità sullo stato d’eccezione, piega a sé le istituzioni, il diritto e la morale. Schmitt designa come bersaglio principale della sua critica la negazione liberale dello Stato per favorire il diritto. Schmitt polemizza col Kelsen di Il problema della sovranità, il quale spinge verso la fissazione del valore giuridico – universale e imprescindibile – degli interessi collettivi e declassa lo Stato – e dunque il politico – al rango di “controllore”.  Gli “interessi collettivi” e la morale liberale è fissata nella sottomissione del politico all’economico, nella crescita dei compiti “tecnico-organizzativi” e “sociologico-economici” e nell’arretramento fino a dissoluzione dei problemi squisitamente politici. La categoria del “politico”, non obiettiva, viene guardata con sospetto, come pericoloso punto di rottura dell’hobbesiano “contratto sociale” che tiene al sicuro i cittadini; al contrario, la categoria dell’“economico”, obiettivo e razionale, è valutata positivamente, come massimizzazione delle possibilità individuali. Sotto queste premesse, a detta di Schmitt, lo Stato moderno – o quel che ne rimane – sembra essere diventato davvero ciò che Weber vide in esso: una grande fabbrica. Anche il Schmitt, così come in Jünger, Sombart e Spengler – e più in generale come in tutti volti principali della Rivoluzione Conservatrice – in moloch da abbattere è quello della borghesia: “La borghesia liberale vuole un Dio che però non deve poter divenire attivo; essa vuole un monarca che però dev’essere privo di potere, essa pretende libertà e uguaglianza, e tuttavia anche la limitazione del diritto di voto alle classi possidenti, per assicurare all’istruzione e alla ricchezza il necessario influsso sulla legislazione, come se istruzione e ricchezza dessero il diritto di opprimere gli uomini poveri e non istruiti; essa elimina l’aristocrazia del sangue e della famiglia e lascia però sussistere l’impudente signoria dell’aristocrazia del denaro, che è la forma più ordinaria e stupida di aristocrazia; essa non vuole né la sovranità del re né quella del popolo” (p. 80).

Il crinale amico-nemico
Su questa alterità esistenziale si definisce il crinale di “amico-nemico” per eccellenza del pensiero schmittiano. Prima di proseguire nella definizione della distinzione “amico-nemico” è utile ricordare come il giudizio di valore in Schmitt, seppur presente ed evidente, venga posto in secondo piano: il filosofo tedesco è più interessato a costruire la struttura nella quale si esprime il “politico” che a apprezzarne il senso. Il significato che assume la distinzione di amico e nemico è quella di “indicare l’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione” (p. 109). In altri termini, questo crinale rappresenta la radicalità attraverso cui una comunità, necessariamente politica, si riconosce nella condivisione di un orizzonte di significati distinto da altri, dallo “straniero” (der Fremde). Necessariamente politica, si è detto. Infatti, per Schmitt, un mondo definitivamente pacificato dove viene meno la distinzione amico-nemico, sarebbe un mondo senza politica. Ma questo, prosegue il giurista tedesco, non è una possibilità auspicabile perché percorrerla significherebbe l’annientamento di tutto ciò che si diversifica. La distruzione del politico è l’anticamera della “ultima guerra finale dell’umanità” (p. 120). Tali guerre – non necessariamente ordinate dalla prassi bellica (l’abbandono della violenza, infatti, è propiziato dall’economico), sotto il vessillo dell’umanità, si presentano come espansioni ideologiche dell’imperialismo commerciale. Queste, afferma Schmitt, “sono necessariamente intensive e disumane poiché superando il politico, squalificano il nemico anche sotto il profilo morale e lo trasformano in un mostro disumano che non può essere solo sconfitto ma dev’essere definitivamente distrutto” (Ibidem).  L’universalità presentata dal liberalismo è sinonimo di piena spoliticizzazione dello Stato e ha come conseguenza il suo venir meno. Il mondo politico, in quanto pluriverso, si vede negato nella sua universalizzazione. Venuta meno ogni distinzione, eretta l’unica concezione del mondo, l’unica cultura e l’unica morale, viene meno lo Stato, la politica e ogni tentativo di diversificare l’esistente. Per Schmitt, tutte le concezioni politiche sono state mutate e snaturate dal liberalismo. Il pensiero liberale sostituisce l’economia all’etica, allo spirito il commercio, alla cultura la proprietà e il bengodi. Lo Stato diventa società di mercato, la politica cede il passo al sistema di produzione e di scambio in funzione dell’utile personale. Il popolo, politicamente unito nella sfera “amico”, si trasforma, sul piano spirituale e fattuale, in un pubblico concorrente, in una massa di consumatori. Il liberalismo porta i settori della vita umana fuori dall’ambito politico, isolandoli e alienandoli nella suggestione di massa. “La morale diviene autonoma nei confronti della metafisica e della religione, la scienza nei confronti della religione, dell’arte, della morale e così via. Il caso più importante di settore autonomo della realtà è costituito con assoluta sicurezza, dall’autonomia delle norme e delle leggi dell’economia” (p. 159).

L’imperialismo commerciale
In tutta la sua attualità Schmitt arriva a prevedere un imperialismo fondato su base commerciale che, creando una situazione mondiale nella quale possa impiegare apertamente e nella misura che gli è necessaria le sue energie, si rende egemone e determina il senso comune. Questo “impero delle merci”, prosegue il filosofo tedesco, considererà come “violenza extraeconomica” il tentativo dei popoli – o di comunità interne agli Stati – di sottrarsi alle sue premesse e ai suoi effetti. L’avversario, il concorrente – non si parla più di “nemico” in quanto premessa del “politico – viene posto come “disturbatore della pace” e silenziato attraverso il ricorso della propaganda (pp. 164-165).  

Stati come carcasse vuote
Nella contemporaneità il politico si è sradicato e l’epoca dello Stato sembra essere giunta al termine, dirà Schmitt in Nomos della terra. Gli Stati sono carcasse vuote, assunti come protesi di un potere che non contengono più. C’è il verificarsi dell’ordinamento liberale: il superamento dello Stato e la subordinazione della politica all’economia. A questo punto delle considerazioni sulla scia di Schmitt sono più che dovute. Il marasma post-ideologico del nostro tempo, lungi dall’abolirli, occulta i reali rapporti di potere e alimenta l’autoreferenzialità del meccanismo di pensiero dominante. Presa coscienza dello “spirito del tempo”, a chi giova un’ulteriore centralizzazione economica, tecnica e scientifica? Perché le risposte del sistema di governance globale agli eventi che condizionano l’attualità – al netto delle imbarazzanti narrazioni proposte – appaiono giustificate solo nel senso di un rafforzamento del sistema che ha prodotto le stesse crisi? I recenti avvenimenti mondiali, osservarsi all’interno dei paradigmi schmittiani, assumono una chiarezza terrificante. Negli ultimi anni si è fatta sempre più insistente la pratica di condizionare l’autoconsapevolezza della società attraverso un “sistema di dosaggio dell’informazione” eterodiretto, alternando persuasività a muscolarità. L’apparente contraddizione di un sistema liberale che impone – direttamente o indirettamente, secondo misura – stimoli e conservi, ad un tempo, il proprio linguaggio è risolta nel compromesso: il mantenimento dei fini (economicizzazione dell’esistente), l’efficientamento dei mezzi (lo svuotamento delle capacità e dell’autonomia del politico).
Un primo argine alla retorica liberale nell’epoca del capitalismo avanzato è quello di ricordare che le società, qualunque esse siano, ovunque siano locate, nel tempo e nello spazio e qualunque sia il loro grado di apprezzamento, sono soggette ai rapporti di forza, ovvero a differenze relative tra le forze di uno stesso organismo. Pertanto, è il problema dei rapporti tra sovraordinazione e subordinazione che bisogna impostare esattamente e risolvere per giungere a una giusta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo e determinare il loro rapporto. In altre parole, chi determina cosa e chi si lascia determinare? Nel caso dell’Occidente moderno la struttura “determinante” viene indicata in quell’atteggiamento di “ricerca dell’utile” che, esteso ad ogni ambito del vivere, secondo Schmitt, sarebbe la negazione stessa del concetto di Europa. Cui prodest, quindi, la proclamazione della “difesa dei valori” che suonano in Schmitt come apologia del disvalore? Le categorie del politico può indicare un sentiero.

*C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Il Mulino 1972