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Le nostre guerre del Capitale

di Massimo Fini - 08/05/2022

Le nostre guerre del Capitale

Fonte: Massimo Fini

“In un mondo dove il male è di casa e ha vinto sempre, dove regna il capitale oggi più spietatamente” (Don Chisciotte, Francesco Guccini)
La vicenda ucraina si è rapidamente trasformata in una guerra ideologica: fra “mondo libero” e quello che libero non è. Lo ha detto chiaramente, fra gli altri, Silvio Berlusconi alla convention di Forza Italia: “Soltanto 2 miliardi di esseri umani vivono in condizioni che si possono definire libere e democratiche, secondo il modello occidentale. Gli altri 6 miliardi, cioè i ¾ della popolazione mondiale, sono governati da dittature, da sistemi autoritari o comunque si trovano a vivere in condizioni di insufficiente libertà politica e insufficiente libertà economica e civile”. Insomma bisogna scegliere: o di qua o di là. O con l’Occidente o contro l’Occidente o comunque fuori. Il termine “Occidente” fa rabbrividire perché ricorda quelle grandi agglomerazioni senza volto, Eurasia, Estasia, Oceania, di cui parla Orwell in 1984. Diciamo, per semplificare al massimo, perché sul tema si sono spese intere biblioteche, che nella civiltà occidentale sono garantite alcune libertà civili negate nei sistemi dittatoriali o autoritari. A cominciare dalla libertà d’espressione che però molto spesso è più formale che sostanziale perché chi esce dal seminato viene demonizzato, emarginato, silenziato. “Canta nel vento” per ricordare una bella canzone di De André in morte di Luigi Tenco. Ma è sempre meglio che essere sbattuti a Ventotene o in Siberia.
Però credo che il “mondo libero” debba fare qualche riflessione su se stesso. Ha creato un modello di sviluppo, indubbiamente attraente e potente tanto da aver sfondato in culture in origine lontanissime dall’iperattivismo liberista, come quella cinese (al fondo del pensiero cinese c’è la “inazione”, cioè la non-azione di Lao Tse, Il Libro della Norma) e indiana. Questo modello di sviluppo è fondato sulla supremazia dell’Economia e della Tecnologia rendendo l’uomo una semplice “variabile dipendente” da questi due moderni Iddii. In questo senso gli uomini che vivono nei “mondi liberi” o in quelli autoritari sono sulla stessa barca: i totalitarismi cinese o russo non sono che dei capitalismi di stato, con tutte le antinomie del capitalismo propriamente detto. È un modello che ho definito “paranoico” perché non permette di raggiungere mai un momento di equilibrio, di pace, di serenità: salito un gradino bisogna farne immediatamente un altro e poi un altro ancora, all’inseguimento di una sempre sbandierata ma impossibile felicità finché “morte non ci separi” (è il “produci, consuma, crepa” dei CCCP). L’uomo è stato degradato a consumatore. Fra i tanti paradossi di questo modello paranoico c’è che noi oggi, si viva in un mondo libero o in uno autoritario, non produciamo più per consumare, ma consumiamo per poter produrre. È un’antinomia che era già stata notata, con un certo suo stupore, da Adam Smith che pur è uno dei padri del modello liberista. Gli uomini nella loro stragrande maggioranza sono diventati degli “schiavi salariati” e, per dirla con Nietzsche (chi era costui?), un mondo che postula l’uguaglianza e ha bisogno di legioni di “schiavi salariati” è un mondo che ha perso la testa. E noi l’abbiamo persa da tempo. Siamo diventati degli impiegati della Tecnica e dell’Economia. Nel “mondo libero” nessuno, a parte eccezioni così esorbitanti da risultare insultanti (Bezos, Musk), è veramente libero, padrone di se stesso. Facciamo un paragone con gli infamati “secoli bui”. I contadini e gli artigiani del Medioevo non avevano padroni sul capo, avevano la loro vita nelle proprie mani, nel tranquillo ruminare delle stagioni (le corvées che tanto scandalizzano i moderni erano roba ridicola come nota ancora Adam Smith). Non esisteva, per quanto a noi possa sembrare sorprendente, la disoccupazione. “Che cosa sarebbe successo in un’economia tradizionale, preindustriale, se su un campo su cui vivevano dieci persone si fossero accorti che otto erano sufficienti a coltivarlo tutto e al meglio, mentre il lavoro dei due, i ‘marginali’, era superfluo? Li avrebbero cacciati a pedate nel sedere dicendogli di andarsi a cercare impieghi più produttivi?  Nient’affatto. Si sarebbero divisi il lavoro in dieci, approfittando del tempo così guadagnato, che non è ancora il nostro sinistro ‘tempo libero’, eterodiretto, per andare all’osteria, a giocare ai birilli, a corteggiare la futura sposa” (Cyrano se vi pare…). Noi abbiamo invece usato la tecnica per sbattere fuori dal mondo del lavoro quelli in sovrappiù, per andarsi a cercare impieghi ancora più subordinati, umilianti e feroci.
Nevrosi e depressione nascono con la rivoluzione industriale colpendo prima la borghesia (Freud) e in seguito l’intera comunità. Noi tutti oggi basculiamo fra nevrosi e depressione. Il fenomeno della droga, sconosciuto nel mondo premoderno, è sotto gli occhi di tutti. E fermiamoci qui, per pietas.
In un recente articolo sul Fatto (27/4) il sociologo De Masi ha richiamato Martin Heidegger che negli anni Trenta ha posto il problema cruciale dell’ambiguità della Tecnica che però va accoppiato, nel mio pensiero, all’Economia e alla Pubblicità il vero motore dell’intero sistema (basta collegare i servizi drammatici che ci vengono dall’Ucraina con gli spot televisivi che immediatamente li seguono per capire ciò che dico).
Ricorda De Masi sunteggiando Heidegger: “L’Occidente ha convogliato nello sviluppo tecnologico tutta la volontà di potenza dell’uomo, trasformandola in fine a se stessa. Così facendo ha trasformato il mondo in apparato tecnico e noi tutti in impiegati di questo apparato”. È ciò che da tempo, salendo sulle spalle robuste di Heidegger, sostengo anch’io. Sul tema si è esercitata anche una delle menti italiane più lucide, Umberto Galimberti (Psiche e tchne). Anche Galimberti è estremamente critico nei confronti della Tecnica, ma sostiene che la Tecnica è un fatto cui non ci si può opporre. Io sto sul versante opposto. Come lo scudiero de Il settimo sigillo di Bergman mi ribello.