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Le sceneggiate sulla pelle dei palestinesi

di Salvo Ardizzone - 03/10/2025

Le sceneggiate sulla pelle dei palestinesi

Fonte: Italicum

A oggi, 157 stati su 193 riconoscono la Palestina, uno stato che non esiste, né può esistere nelle condizioni poste, ovvero, vivere disarmato accanto a un’entità che ne massacra la popolazione mentre annette progressivamente i suoi territori. Un non-stato privo di qualsiasi attribuzione di uno stato vero, in primis di una qualsivoglia sovranità.
E ciò perché da sempre “Due popoli due stati” è stato ed è uno slogan ipocrita, è servito a chiudere gli occhi dinanzi allo scempio dei palestinesi in corso da decenni, oggi al genocidio; a inventare una realtà staccata dalla realtà per non affrontare quella vera, malgrado fosse sotto gli occhi di tutti. Adesso, riconoscere questo ircocervo, questa chimerica assurdità, è divenuto moda; è la scappatoia per fingere di fare qualcosa senza fare nulla.
Ed è doppiamente ignobile perché il genocidio può essere fermato senza atti estremi, senza interventi militari o nuove guerre: deve essere chiaro a tutti che senza appoggio esterno, senza l’assistenza e il continuo aiuto che fornisce l’Occidente, senza i commerci, le partnership, il sostegno finanziario che gli viene dato, Israele collasserebbe in pochi giorni. E non sono solo gli USA a fornirli.
A titolo d’esempio cito il vergognoso caso del Regno Unito: il primo ministro Starmer ha riconosciuto sì la Palestina, ma, contemporaneamente, gli assetti militari inglesi hanno prestato e prestano costante assistenza alle continue aggressioni delle Forze Armate israeliane: ricognizione, rifornimento aereo, ISR, designazione dei bersagli, forniture di sistemi d’arma e munizioni. E non è il solo a farlo: a parte americani e britannici, anche i francesi, i tedeschi e persino gli italiani lo fanno. Dietro la facciata imbarazzata, l’Occidente presta un corale quanto sostanziale aiuto al genocidio in atto. Alle continue, selvagge, aggressioni di Israele. 
L’ho detto altre volte ma lo ripeto ancora: fra il Fiume e il Mare può esistere un solo stato democratico che abbracci tutti coloro che ne accettino le regole democratiche; ma ciò può avvenire solo dopo il collasso dell’entità coloniale che occupa il territorio, con ciò implicando l’esistenza di una lotta di liberazione che ne è naturale conseguenza, e cesserà solo con la fine dell’ultimo regime coloniale esistente al mondo. È ciò che insegna la lunga storia delle lotte di decolonizzazione. 
Quella che manca all’Occidente è la volontà politica d’assecondare il principio di autodeterminazione del popolo palestinese, quello stesso riconosciuto – beninteso, a parole – dalle cosiddette liberal-democrazie. Ennesima dimostrazione di doppio standard occidentale, che applica i principi che dichiara di sostenere secondo spudorata convenienza.
Il discorso di Netanyahu all’Assemblea dell’ONU è stato conseguenza di questo atteggiamento subalterno che l’Occidente ha assunto nei confronti di Israele. Non è stato un discorso rivolto al mondo, il Premier israeliano non ritiene d’averne bisogno e del resto l’aula era in vasta parte vuota. Il suo intervento si è svolto alle 9, a inizio seduta, e molti hanno preferito disertarlo; altri, in massima parte i rappresentanti africani, arabi e sudamericani, hanno scelto di alzarsi e uscire quando ha preso la parola. Il discorso era rivolto al proprio fronte interno e a Trump, che non era presente; si trovava a un torneo di golf, dove non ha mancato d’affermare dinanzi ai giornalisti che si è vicini alla pace. 
Le dichiarazioni di Netanyahu, accompagnate dai soliti cartelli che usa esibire, sono state la più spudorata accozzaglia di menzogne che mi è capitato d’udire: sarebbe una bugia la fame che c’è a Gaza, e se c’è, è causa di Hamas che ruba i viveri; sarebbe una bugia la strage dei civili, anzi, le IDF prestano la massima attenzione a limitare le vittime collaterali, a suo dire, come mai nessun Esercito ha fatto.
A parte le stupefacenti falsità, è semmai interessante come scarichi del tutto l’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen, equiparandola ad Hamas. Trapela chiaro che non la considera più un’interlocutrice utile perché del tutto squalificata. E, ponendole sopra lo strumentale marchio del terrorismo, non vuole che nessuno possa usarla al di fuori dei progetti di Israele. 
Il resto è un’allucinata narrazione: spicca il “combattiamo per voi!”, per l’America, per l’Occidente, per il mondo intero, contro il terrorismo (riedizione aggiornata della Guerra al Terrore di Bush figlio). Respinge in toto la creazione di uno stato palestinese comunque sia. Dichiara apertamente l’intenzione di una revisione dell’intero Medio Oriente, da rimodellare naturalmente in funzione degli interessi israeliani, che coinciderebbero con quelli della civiltà, dell’umanità intera. E sostiene con forza che Israele è terra degli ebrei da 3000 anni! Naturalmente, non fa nessuna differenza fra ebrei e israeliani, con ciò sostenendo lo strumentale equivoco che equipara ogni atto di critica a Israele, o alle politiche dei suoi governi, a manifestazioni di esecrabile antisemitismo.
Lunedì Netanyahu s’è incontrato con Trump e i rappresentanti dei paesi negoziatori. Prima di iniziare la trattativa, il Qatar ha preteso le scuse del Primo Ministro israeliano, quasi l’attacco israeliano fosse stato un’infrazione al galateo, ma suscitando comunque le inviperite reazioni di Ben-Gvir e Smotrich. Al centro dei colloqui c’era la prosecuzione del conflitto e la possibilità di addivenire a un accordo. E per inciso, il Consiglio Yesha, ovvero dei rappresentanti delle cosiddette colonie israeliane in Cisgiordania – illegali secondo il diritto internazionale, e peggio che illegali per tutto ciò che fanno - era negli USA. 
Al centro delle trattative c’era un ennesimo piano di pace articolato in 21 punti, anticipato giorni fa dal Times of Israel, poi divenuti 20 nel piano annunciato alla Casa Bianca. E, a quanto pare, nel suo incontro con Witkoff e Kushner di domenica 28 – definito dai due esasperante - Netanyahu ha ottenuto modifiche sostanziali, che hanno fatto infuriare i negoziatori arabi messi dinanzi al fatto compiuto.
Il progetto, coordinato da Witkoff nel corso di diversi giorni di incontri con un ristretto numero di leadership arabe (saudite, emiratine, egiziane, giordane, pare coinvolta anche la Turchia) sarebbe già stato approvato da Trump. Dietro di esso c’è Jared Kushner, il genero del Presidente, e Tony Blair che è stato coinvolto nel progetto da Kushner perché, con il suo Tony Blair Institute, una struttura lobbystica spacciata per think-tank, è assai ammanigliato presso i centri di potere mediorientali. 
Il piano prevede la restituzione dei prigionieri israeliani entro 3 giorni, e la contemporanea liberazione di 250 palestinesi condannati all’ergastolo e di 1700 gazawi arrestati dall’inizio del conflitto. È prevista la fine delle operazioni e il ritiro, graduale e condizionato, delle forze israeliane (che, tuttavia, resta del tutto indeterminato). L’obiettivo è la smilitarizzazione della Striscia con il disarmo dei militanti della Resistenza che, se si arrendono e accettano il nuovo status quo, potranno godere di un’amnistia. In pratica equivale alla resa e allo smantellamento della Resistenza che non si è riuscita a piegare in due anni di combattimenti. Non solo.
Preso atto che, malgrado le condizioni inumane i gazawi non intendono abbandonare la propria terra, ci sarebbe l’incoraggiamento a restare e l’inizio d’un percorso (per nulla chiaro né definito) per costruire un sedicente stato. Inoltre, ci sarebbe pure la garanzia (visto i precedenti, lecito quantomeno dubitarne) dell’ingresso nella Striscia di almeno 600 camion di aiuti al giorno (la stessa quantità garantita nel precedente accordo infranto da Israele a marzo), la cui distribuzione verrebbe affidata all’ONU e alla Mezzaluna Rossa. Con conseguente estromissione della GHF - la Gaza Humanitarian Fundation, emanazione della CIA - che si è macchiata di crimini rivoltanti e non è più in alcun modo presentabile.
Il cuore dell’operazione tenderebbe alla ricostruzione delle infrastrutture essenziali e alla costituzione di una zona economica speciale, centrata nel cuore del Mediterraneo e del Medio Oriente, in cui soggetti e interessi esterni impianterebbero i propri traffici al di fuori dall’impiccio di ogni sovranità statale. E attenzione: in prospettiva, c’era l’intenzione di reiterare il processo nella Cisgiordania, poi sfumata nelle versione della Casa Bianca.
In pratica, è una spregevole speculazione immobiliare e finanziaria presentata come un progetto umanitario. A scanso d’ogni equivoco, il Tony Blair Institute ha confermato che Blair sarebbe posto a capo dell’Autorità Transitoria a Gaza (GITA nell’acronimo inglese, poi divenuto il Board of Peace nelle dichiarazioni di Trump), come già ventilato in un incontro di fine agosto a Washington. Che equivarrebbe a mettere Dracula alla presidenza dell’AVIS. Comprendendo lo scarso appeal mediatico del personaggio, nelle dichiarazioni della Casa Bianca il “Board of Peace” sarà presieduto da Trump. Ma, con Kushner e Blair dietro.  
Secondo il progetto, la Striscia verrebbe amministrata da un Consiglio d’Amministrazione (il Board) di 7/10 membri affiancati da venti a venticinque tecnocrati, l’Autorità Esecutiva Palestinese. L’iniziativa sarebbe sotto l’egida dell’ONU e le sue decisioni verrebbero sottoposte al potere di veto nel Consiglio di Sicurezza. La durata del mandato sarebbe di cinque anni, ma si sa come vanno queste cose, e il rinnovo perpetuo non è certo da escludere. 
Gli obiettivi sono almeno due; uno è politico: unificare Gaza e Cisgiordania, disinnescando con un’offerta “morbida”, con uno di quei deal all’occidentale tanto cari a Trump, quella Resistenza che in due anni non si è riusciti a piegare con le armi.
L’altro obiettivo è economico, ovvero, realizzare un colossale business. Per capirci, la GITA, o Board, sarà chiamata a gestire da 50 a 100 MRD di dollari. A parte gli assai lucrosi traffici che vi verrebbero impiantati (di cui i palestinesi nulla vedrebbero e meno conterebbero), basterebbe questo a giustificare l’operazione. 
La sede, all’inizio, sarà posta ad Al-Arish, in Egitto, e questo la dice tutta sul grado di connivenza delle potenze arabe vicine. Qui è opportuna un’ennesima precisazione: come ho avuto modo di sottolineare più volte a chi domanda come mai i paesi arabi facciano molto poco di concreto dinanzi all’aggressività israeliana, ricordo che i gruppi di potere che li controllano appartengono alla medesima cupola che ha sfruttato e soffocato l’area a braccetto con USA e Israele. Per cui, a parte i proclami retorici a uso delle loro popolazioni, quelle sì interessate – e tanto – alla questione, del destino dei palestinesi a essi assai poco importa.
Ciò che quegli stati vogliono è che il continuo stato di guerra che infiamma la regione cessi insieme alle continue aggressioni israeliane, e possano tornare a una convivenza divenuta più che mai conveniente nel nuovo clima multipolare: insomma, che i loro business non siano più disturbati. Ma c’è un fatto comunque acclarato: con la sua a-strategica dinamica aggressiva, Israele è divenuto corpo estraneo nella regione, scheggia impazzita che danneggia i concreti interessi di tutti, fattore di continua destabilizzazione per tutto il Medio Oriente e il Mediterraneo.
Il progetto dovrà essere garantito da una Forza di Stabilizzazione Internazionale, ISF nell’acronimo inglese, messa a disposizione non si sa ancora da chi, e da una cosiddetta polizia palestinese che quanto sarà palestinese o comunque emanazione di un’autorità legata a quella popolazione è eufemisticamente dubbio. Si tratta di contractors, mercenari al soldo di chi gestisce l’operazione, per garantire i suoi interessi. E per inciso, si stanno già addestrando nel Sinai. Nella pratica, sarà un’ennesima forma di occupazione militare per sfruttare l’area e i suoi abitanti. 
Netanyahu ha già accettato perché nella sostanza il piano rispecchia l’essenza degli interessi israeliani: in primis liberarsi della Resistenza che non si è riuscita a piegare con le armi. Certo, Ben-Gvir e Smotrich minacceranno sfracelli, ma, a parte un possibile salvacondotto giudiziario per Netanyahu, che lo garantisca in caso di caduta del governo (il presidente israeliano Hertzog ha già ventilato la possibilità di una grazia al Primo Ministro, come chiesto a gran voce da Trump a giugno), resta sempre la possibilità di un nuovo attacco all’Iran nei prossimi mesi, prima che si avvicinino le elezioni di medio termine americane. E questo garantirebbe la tenuta dell’Esecutivo. 
Dubbia è invece è l’approvazione della Resistenza, minacciata da Trump di sfracelli se non si suicida sottoscrivendo il piano. E, al momento in cui scriviamo queste note, l’adesione è assai più che dubbia.  Comunque vada, la regione è destinata a non avere pace, perché il processo avviato con Al-Aqsa Flood molto, molto difficilmente potrà essere fermato. S’inquadra nel generale sfaldamento di assetti ed equilibri propri dell’Unipolarismo egemonico garantito dagli USA, che essi non sono più in grado di mantenere. Indietro non si torna. La Storia non si ferma per cui, piaccia o no, in questo processo l’entità sionista, ultima realtà coloniale esistente al mondo, per sue caratteristiche interne e quadro esterno, è destinata a implosione al pari di tutte le altre che l’hanno preceduta su quella via.
Articolo tratto dalla rubrica Il Filo Rosso tenuta dall’Autore sul canale Il Vaso di Pandora.