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Lo spettro

di Lorenzo Merlo - 06/07/2025

Lo spettro

Fonte: Lorenzo Merlo

Diversamente dal principio riduzionista ­illuministico entusiasta di fare quadrare il mondo, e quindi l’uomo, in un ordine certo, definitivo e oggettivo è opportuno dedicarsi a un progetto di tutt’altra destinazione. Sì, perché la realtà non è un oggetto ma un pensiero.

  “La conoscenza razionale doveva essere il punto di appoggio. Il nostro libro segue un’altra strada. [...] Il libro ha un significato per gli uomini che principiano a meravigliarsi [...]. (1)

 Ampio spettro

L’orizzonte muta e racconta il mutare di noi.

Le stagioni punteggiano gli anni e le nostre età.

Il sorgere del sole avvia i giorni.

Le notti ci ricaricano di ciò che il giorno consuma.

Della luna ci si è dimenticati.

La natura esprime le sembianze degli uomini.

La geografia segna le culture che da essa fioriscono.

L’incrocio di latitudine e longitudine ha il potere di fare sorgere la storia.

 “Del grande tessuto delle possibilità l’uomo singolo coglie quasi sempre pochi rari fili. Egli è limitato nella scelta dal tempo e dall’ambiente in cui vive”. (2)

 Invece di tenere conto della natura, la copriamo, fino a dimenticarla, con una mota di idee, che crediamo nostre ed esclusive. Così, separati dall’origine di noi, del nostro pensiero, della nostra immaginazione, e della nostra carne, ci affabuliamo da soli fino a scambiare le nostre descrizioni per realtà.

Quando mai ciò che spunta negli altrove vicini e lontani da noi può essere meno dignitoso, autentico, rispettabile?

Il senso della realtà ha la stessa natura della memoria. Esso non è costituito da dati e oggetti e concetti risiedenti in noi. È piuttosto la decantazione provocata dal fattore esistenziale K, cioè il vincolo imposto dalla nostra identità e biografia, ovvero ciò in cui siamo identificati o ciò che crediamo di essere. Infatti, credersi altro, come fa il nostro compare, chiunque esso sia, fa decantare altro.

 Dagli albini (o devo dire bianchi?) ai maculati (o sono obbligato a dire vitiliginei?), dai biondi (o adesso devo dire gialli?) ai rossi (o va bene anche ginger?), dai castani (si può dire o è d’obbligo marroni?) ai corvini (è offensivo per i corvi?)

Dai negri (li ho sempre chiamati così senza mai volerli offendere) ai gialli (i cinesi si possono chiamare così nonostante di solito musi gialli avesse uno sfondo di esclusione?), dai rosei (i bianchi erano gli albini) ai rossi (quelli che i buoni occidentali chiamano selvaggi mentre non vedono l’ora di spingere il bottone rosso della valigetta).

Dalle donne agli uomini, dagli sposati ai divorziati, dai celibi e nubili ai vedovi, dagli agiati ai disagiati.

Come non arrivarci da soli a riconoscere che i sentimenti che sciamano in noi ­sempre in simbiosi con le esigenze profonde e superficiali ­sono gli autori degli universi diversi che ci abitano o, meglio, che siamo? Come non vedere che il rosso, il bianco e il giallo che siamo, e le attrazioni e repulsioni che ci muovono, non sono altro che espressioni manifeste di emozioni, dai cui fondali sorge la vita?

 “Non sappiamo mai quale invisibile visione del mondo ci muove per ultima”. (3)

 Come non constatare che da ciò, dalle emozioni che siamo, nascono i pensieri coi quali informiamo il mondo? Come non riuscire a generare una cultura del rispetto davanti all’evidenza dei contesti diversi che abitiamo e che ci abitano? Come perseverare con politiche e pedagogie di acritico appiattimento concettuale, annullamento, alienazione, frustrazione sotto la chimera della meritocrazia? Come non vedere che l’indagine meccanicista col suo vessillo di verità non è che una fandonia, non è che un deplorevole tentativo di comprimere l’infinito nelle sue misere analisi?

“Essi [i pensieri degli uomini, nda] sono stati un giorno una forza, e risorgono per lo più in modi tipici. Non possiamo disfarcene come un labirinto di illusioni, e pronunciare così un giudizio di nullità. Essi sono stati un giorno espressione necessaria di anime umane, e invece di domandare quale sia la loro verità oggettiva e metafisica potremo domandare quale sia la realtà psichica della loro azione. Più ci occupiamo delle visioni del mondo e dei loro contenuti e maggiore è il numero di analogie che notiamo tra le forme che si ripresentano”. (4)

 Nel respiro c’è la vita, nel respiro della biografia c’è la nostra vita, uno specchio delle altre, un seme di progetti secondo latitudine e circostanza. Una banalità si direbbe, eppure, si deve dire, una verità nascosta dalle ombre proiettate dall’egoica supponenza sul fondo della caverna.

Invece che acquisire conoscenza di superficie a oltranza, è necessario disfarsene, primo passo per far rientro nello sconosciuto e da lì risalire fino a dove la realtà si mostra per quel che è, un’architettura di congetture autopoietiche, stabili o traballanti, attraverso la quale traguardiamo il mondo, con il solo scopo di aggiungere un segmento alla struttura stessa, o per puntellare le narrazioni di quanto abbiamo già fatto esistere.

Realtà quindi come estensione di noi stessi, forse un’esigenza anche biologica, come corpus con il quale garantirci la sopravvivenza fisica e del senso.

 Spettro limitato

Il monopolio della cultura materialista ha soffocato le dimensioni umane considerate inutili alla conoscenza. Tra cui, per esempio, quella espressa dalla tradizione ermetica, attraverso il suo brocardo così in alto come in basso. Questo sintetizza che quanto accade nel mondo fisico è un riflesso di quello metafisico, sottile, esoterico. Non solo. Esso contempla e include anche che il medesimo principio, la medesima dinamica, la si può vedere realizzata in innumerevoli forme e che, quindi, è proprio avvedendosi dell’apparente diversità, che si può cogliere l’identica matrice spirituale. Una di queste matrici si compie nell’uomo, diverso per forma, nel tempo, identico in tutto il resto. E se così si arriva a constatare, ne segue che ogni sopraffazione – qualunque ne sia il motivo – è un’arroganza autopoietica sostenuta da leggi, da morali e dalla forza che alimenta, conferma e ci tiene entro la camicia di forza della storia che, a parole, tutti contestiamo per la sua ingiustizia e brutalità, per poi però, piuttosto che spogliarci delle infrastrutture egoiche e mortifere, sul fondo delle quali abbiamo seppellito noi stessi, dando in pasto alle ideologie la nostra dote creativa, seguitare a sostenerla, costi quel che costi.

 “Ogni uomo può solo concepirsi come prospettiva vista dal soggetto, [...] soggetto e oggetto sono quasi l’ombra l’uno dell’altro, e determinati e condizionati l’uno dall’altro”. (5)

 Le due concezioni – quella sottile, energetica, esoterica e quella grossolana, agnostica, materialista, scientista – entrambe storicamente legittime, permettono di osservare, riconoscere ed esprimere gli elementi, le entità, le forze che compongono tanto la storia e le sue forme, quanto l’universale, l’eterno, l’assoluto. Quella crassa – alla faccia del dominio della ragione – tende alla sopraffazione e alla storia conflittuale come ultima verità, l’altra al rispetto e alla storia come scuola quale passaggio necessario verso una concezione emancipata dall’egocentrismo.

 Così tutti i tipi che descriveremo ordinatamente non sono possibilità ultime, per le quali il singolo si decide, ma posizioni in cui egli può trovarsi, che trascende con la totalità della sua vita, quando si consideri questa come l’insieme dei suoi possibili sviluppi biografici”. (6)

 È un discorso inaccessibile a chi risiede, per ideologia o per carenza di consapevolezza, nel piano razional-positivista e material-meccanicista. Un territorio che, come tutti gli altri, genera le sue verità. Tra queste, la negazione che altro ci sia oltre alla cosiddetta materia o che ci sia altro oltre all’energia. La quale, a sua volta, sarebbe separabile e scomponibile fino alle più piccole parti: imprescindibile scopo del sapere definitivo. Ma contemporaneamente fino a impedire di avvedersi che proprio quell’analitica e avulsa ricerca sta alla base dell’impedimento nel riconoscere l’origine dei mali che ciliciano l’uomo, prima a vergate, ora con più sofisticati sistemi. Fino a impedire di fermare il protocollo dell’uniformizzazione e avviare quello necessario alla realizzazione dell’uomo compiuto, fondato sugli universi che siamo, composto da firmamenti di speranze.

 Dunque, una banalità per troppo pochi, visto che solo ciò che la scienza, o il materialismo, è in grado di riconoscere e misurare diviene vero, e va a porsi nell’insieme di verità impilate in babeliche librerie, fitte di categorie e di nomi ­tra cui quello di Popper ­cosa del quale in termini pragmatico-politici gli scientisti si disinteressano, tirando maldestramente fuori dalla manica le relative precisazioni sui limiti della conoscenza scientifica soltanto in ambito di contestazione e di attacco. E, soprattutto, soltanto da Popper in poi, e nonostante le scienze non analitico-materialiste delle tradizioni sapienzali e il loro lascito, nonché Wittgenstein, Gödel, Heisenberg, Watzlawick, von Foerster, Bateson, Korzybsky, Jaspers, Heidegger, Nietzsche, Bohm, Kant, Kierkegaard, Schelling.

 “Il quid, che vige come tutto o come esistenza, e che viene indicato con parole quali idea, o spirito, o vita, o sostanza, che è indimostrato o indimostrabile, e che si ride di ogni formulazione, poiché ogni formulazione deve di necessità essere nuovamente annullata, che è dunque non già un presupposto razionale, o un principio logico, [...] quel quid è il fondamento ed il fine in cui sono calate e comprese le formulazioni razionali di questo libro. Perciò tali formulazioni non sono autosufficienti e concluse in se stesse, ma dipendono in qualche modo da un fattore extralogico”. (7)

 La persistenza dell’ordine insignito dal succedaneo della scienza, lo scientismo, ha pervaso e rinchiuso la cultura e le menti, la creatività e il pensiero degli uomini che lo condividono per inconsapevole adesione, nonché per maturato agnosticismo che sempre corrisponde all’inettitudine a cogliere le dimensioni del reale negate dallo scientismo. Lo ha rinchiuso nella gabbia della dimostrazione, dio blasfemo per il quale l’uomo ha abiurato alla propria creatività. Un ammutinamento di se stessi, che facilmente emerge dallo scientista irritato per le parole che gli giungono da universi che non sospettava esistessero. Una delle sue più frequenti espressioni è relativa al consiglio di lettura. Non riesce proprio ad afferrare la banalità che l’evoluzione passa in canali emozionali e che la comunicazione razionale ha un potere specifico pari a zero.

 “Nella nostra esposizione verità ed esattezza significano perspicuità e limpidezza. Non si danno dimostrazioni”. (8)

 Come si diceva, ognuno segue la sua biografia, ne va della sopravvivenza, salvo raggiungere le consapevolezze che contemplano il cambiamento mostrandoci le reali dinamiche cui siamo soggetti, l’origine degli equivoci, dei conflitti e del benessere.

 Non a caso, la mitizzazione della tecnologia, arimanico superbo culmine del progresso e dell’uomo, ne sancisce la potenza, il significato, le politiche. E fa sì che – fatto salvo qualche ricercatore Pnei – tutto ciò che riguarda la vita profonda venga soffocato, animando e armando i suoi serial killer inarrendevoli con proiettili di parole, il cui calibro favorito è, di solito, ciarlatani.

Basta chiedere loro cosa sia l’innamoramento per sentirli piantare il discorso su fondali biochimici; o la coscienza per vederli glissare lasciando il tema agli altrettanto maldestri colleghi psicologi. Per non parlare di cosiddetti miracoli e autoguarigioni, nient’altro, secondo i prodi scientisti, che baggianate con il trucco, in ogni caso niente di cui occuparsi, pena spezzare il proprio filo rosso e andare cognitivamente a morire.

 “Per le sfere scientifiche il divorzio effettivo dalla totalità significa la morte. Alla conoscenza sottentrano una tecnica e un mestiere meccanizzati, e alla cultura dello spirito [...] si sostituiscono il possesso e l’esercizio di strumenti [...]”. (9)

 Ma se il potere assoluto del razionalismo infarcisce mente e pensiero e intelligenza, impone una lettura inopportuna del linguaggio emozionale, comprime l’umano entro contenitori finiti, ontologicamente inadatti alla conoscenza. Esserne consapevoli torna utile all’ecologia individuale e sociale.

 “Non posso descriverti la realtà perché è al di là di ogni spiegazione. Il desiderio fondamentale è essere, la paura fondamentale è non essere. Il mondo e la mente sono stati dell'essere. L'Assoluto non è uno stato dell'essere”. Nisargadatta Maharaj

 Karl Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, Roma, Astrolabio, s.d., p. 9.

  1. Ibid, p. 21.
  2. Ibid. p. 15.
  3. Ibid. p. 14.
  4. Ibid. p. 32.
  5. Ibid. p. 29.
  6. Ibid. p. 23-24.
  7. Ibid. p. 26.
  8. Ibid. p. 11.