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Lontano nel cuore: la Siberia nell’arte arcaica di Marco Pighin

di Anna K. Valerio - 22/10/2017

Lontano nel cuore: la Siberia nell’arte arcaica di Marco Pighin

Fonte: Barbadillo

Sono i giorni giusti, con le strade stordite dalle Pm10 e l’invito politico a non aprire le finestre, per raccontarvi la favola bella di uno che ha fatto il gran rifiuto al mondo (moderno). Via dal correre matto di tutti, antivitale, improduttivo, inerte; via dai capricci dei capi, al lavoro, dai maneggi squallidi per fare carriera, dalla mandibola bloccata in una maschera di sorriso destinata a durare un’intera esistenza.

Marco Pighin va per la prima volta in Siberia nel 2009. Non è ancora un “apprendista fuochista”. È un fotoreporter friulano trentenne che collabora con Repubblica, Espresso, Vanity Fair. È andato laggiù-lassù, in un villaggio nel cuore della Terra, perché gli hanno commissionato un reportage. Cammina sulle strade sterrate che sfiorano la taiga in cerca di dove la fotografia è già pronta: i nomadi che corrono con lo sciamano. Lì li incontra per la prima volta, giganti di quaranta metri, il nostro paesaggio primordiale, eterno. Il pino silvestre, l’abies, il cedro siberiano. Si inchinano umili al cielo, oppure sono “quiete verticale” e puntando il cielo salgono dritti, altissimi.

Intorno, tutto è molto lento e silenzioso. Due colori. Il verde. Il bianco. Un fiume attraversa il piccolo villaggio e tutti bevono la sua acqua. Le case sono di legno, con l’orto per l’autosostentamento. I maschi sono virilissimi, capaci di farsi la doccia fuori a -45. È gente che non si lamenta mai e se fa un incidente ne ride. Quando lui telefona a casa, chiedono “Perché sei arrabbiato?”; lì non c’è la nostra passionalità facile: si parla a voce bassa, i gesti sono misurati, una sorta di velluto li avvolge, come la neve sul paesaggio. Ma non per questo la vita è meno viva. Anzi. Guizza, spumeggia, irrompe, respira. Sono i pesci che si pescano nel fiume, l’energia vegetale che, nel punto più lontano dagli oceani, esplode dalla terra in maniera incredibile, l’estate che invade l’aria all’improvviso, da un giorno all’altro – prima c’era la neve e poi, subito, ecco i 40 gradi e una nube di insetti.

Finite le sue foto, Marco torna in Italia, ma la vera direzione del verbo tornare è ormai, per lui, la Siberia. Dimentica l’agenzia milanese che gli trovava da lavorare, non risponde più alle mail dell’arcigna radical chic che vorrebbe comandargli di fotografare il falso e dei suoi degni compari-comari. Torna nel cuore della Terra, sposa la taiga e una ragazza del villaggio siberiano e vive per qualche anno in una casa mobile, senza acqua corrente. Non ci sono vie di fuga, in quel nuovo eterno paesaggio: si è soli con se stessi. Ma i polmoni si gonfiano di ossigeno, gli occhi si riempiono di spazio, le orecchie piano piano ricominciano a sentire, nel silenzio, gli ultrasuoni del mistero. L’aria gelata raddoppia il calore dei muscoli. E il cuore può smetterla di battere paura.

Quella non è solitudine: è pace. E libertà. Nel punto massimo della propria salute e del proprio vigore, Marco comincia ad ascoltare le voci della taiga e a distinguerne le varie essenze. Quando racconta delle foreste lontane, nei suoi giri di conferenze per l’Italia, ne dà una descrizione meravigliosamente precisa. L’iperico, “pianta votata alla luce”. Il pino silvestre, “magnifico, coraggioso, umile, è un pioniere nel paesaggio. Avanza sulla sabbia e lì arriva la vita e si espande la taiga.” E soprattutto l’abete: “con il tronco che cresce drittissimo verso l’alto, nel folto intricato della vegetazione, e ha una corteccia estremamente sottile, segno che il passato non lo appesantisce. E i suoi aghi come sono? Morbidi… È l’esempio perfetto della fede: di un’assoluta fiducia nell’attraversamento dell’oscurità.”

Non è che un piccolo gesto di pietas chiudere il profumo, l’anima, di queste piante in boccette scure da 5 ml. Oggi Marco si definisce “apprendista fuochista” perché usa il fuoco – purificatore, trasfiguratore – per estrarre dal suo paesaggio siberiano oli essenziali. Rispetta rami e tronchi raccogliendoli a mano, li taglia solo con il machete, li trasporta con il calesse di un’amica, si sforza di essere “il più silenzioso interiormente possibile” mentre il processo di pietas si compie in una distillazione lunghissima. Come il maestro spadaio giapponese quando forgia una katana.

Eh, che esagerazione! – soffierà la caposervizio radical chic. Che follia inutile – faranno eco i compari-comari – tutta questa cura, questa solennità, per un po’ di profumo al pino…

Non sanno, loro, che solo un ascolto sottile, solo un silenzio radicale, solo un’attenzione estrema, solo la libertà che viene da un coraggioso rifiuto ci diranno, in ogni àmbito, le parole che varrà la pena ascoltare.