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Massacro di Wounded Knee: il diritto dei Popoli di esistere

di Sergio Caruso - 30/12/2025

Massacro di Wounded Knee: il diritto dei Popoli di esistere

Fonte: interagireinformati

Il 29 dicembre 1890, a Wounded Knee, non si concluse solo una giornata di sangue: si chiuse simbolicamente un’epoca. Quel massacro, consumato nel Sud Dakota ai danni di oltre duecento Lakota — per lo più donne, bambini e anziani — rappresenta uno dei punti più tragici e rivelatori della storia dell’espansione statunitense verso il West. Non fu uno scontro tra eserciti, ma l’annientamento di una comunità già stremata, colpita mentre era accampata e praticamente disarmata. Il pretesto fu il controllo delle armi; la vera paura, invece, era un’altra. 
La Ghost Dance, il rito che aveva ridato speranza a molti popoli nativi, non era un piano di guerra. Era una preghiera collettiva, una visione: il ritorno degli antenati, la rinascita della terra, la fine delle sofferenze. In un mondo distrutto da fame, deportazioni e trattati traditi, quella danza era un atto di resistenza spirituale. Ma per il governo degli Stati Uniti, e per l’esercito, ogni forma di identità non controllabile appariva come una minaccia. Così la speranza fu scambiata per ribellione, e la risposta arrivò sotto forma di cannoni e fucili. 
Wounded Knee non fu un incidente isolato, bensì il risultato di decenni di politiche sistematiche. Fin dall’inizio dell’espansione verso ovest, i nativi americani furono considerati un ostacolo: non cittadini, non interlocutori alla pari, ma presenze da rimuovere. I trattati firmati — spesso sotto costrizione — venivano regolarmente violati non appena si scopriva oro, terre fertili o nuove rotte commerciali. La parola data ai capi tribali valeva meno di una concessione mineraria. 
La “destinazione manifesta”, l’idea che gli Stati Uniti avessero una missione divina di espandersi da un oceano all’altro, fornì la giustificazione ideologica a tutto questo. In nome del progresso e della civiltà, intere popolazioni furono deportate. Il Trail of Tears, il cammino delle lacrime, rimane uno degli esempi più noti: migliaia di Cherokee morirono durante la rimozione forzata dalle loro terre ancestrali. E non furono gli unici. 
Quando le deportazioni non bastavano, arrivavano le riserve: territori spesso aridi, lontani dalle risorse necessarie alla sopravvivenza, dove i nativi venivano confinati e resi dipendenti dalle razioni governative. La distruzione deliberata delle mandrie di bisonti — fondamentali per molte culture delle Grandi Pianure — non fu casuale, ma una strategia per spezzare ogni autonomia economica e culturale. 
Alla violenza fisica si affiancò quella culturale. Alla fine dell’Ottocento, migliaia di bambini nativi furono sottratti alle famiglie e mandati nei collegi di assimilazione. Lì veniva loro proibito di parlare la propria lingua, di praticare le proprie tradizioni, persino di portare i capelli lunghi. L’obiettivo era esplicito: “uccidere l’indiano per salvare l’uomo”. Non servivano più i fucili; bastava cancellare l’identità. 
Anche quando le guerre indiane finirono ufficialmente, le politiche di spoliazione continuarono. Il Dawes Act del 1887 frammentò le terre tribali in appezzamenti individuali, aprendo la strada alla perdita di milioni di ettari a favore dei coloni bianchi. Ancora una volta, l’integrazione promessa si tradusse in impoverimento e marginalizzazione. 
Wounded Knee, dunque, non è solo un massacro: è un simbolo. Segna la fine violenta di un mondo e l’inizio di un lungo silenzio imposto. Per decenni, la narrazione ufficiale parlò di “pacificazione” del West, mentre ignorava il prezzo umano pagato dai popoli nativi. Solo molto più tardi si è iniziato a riconoscere — almeno in parte — la portata di quelle ingiustizie. 
Ricordare Wounded Knee oggi significa guardare senza filtri a quella storia. Significa riconoscere che l’espansione verso il West non fu solo un’epopea di pionieri, ma anche una lunga sequenza di espropri, violenze e promesse tradite. E significa capire che la dignità, la memoria e l’identità per cui danzavano i Lakota nel 1890 non sono scomparse sotto la neve di quel giorno: continuano a chiedere ascolto, verità e giustizia.
Guardare a Wounded Knee, però, non significa solo voltarsi indietro. Quel massacro parla anche al presente. Il trattamento riservato ai nativi americani durante l’espansione statunitense presenta inquietanti parallelismi con quanto avvenuto — e continua ad avvenire — nei Territori Palestinesi dalla Nakba del 1948 a oggi. In entrambi i casi, un popolo radicato da generazioni su una terra viene progressivamente espropriato in nome di un progetto politico presentato come inevitabile, necessario, persino morale. 
Come per i nativi americani, anche per i palestinesi l’espulsione iniziale è stata accompagnata da una narrazione che li dipingeva come ostacoli, come presenze scomode su una terra “da far fiorire”. Villaggi cancellati, mappe ridisegnate, nomi cambiati: la rimozione fisica è andata di pari passo con quella simbolica. Le riserve indiane trovano un’eco nei territori frammentati della Cisgiordania, nelle enclave isolate, circondate, controllate; Gaza, come molte riserve, è uno spazio chiuso dove la sopravvivenza stessa dipende da decisioni esterne. 
Anche qui, la resistenza — spesso prima di tutto culturale, identitaria, quotidiana — viene frequentemente letta esclusivamente come minaccia alla sicurezza. E come la Ghost Dance fu interpretata come preludio alla guerra, così ogni forma di autodeterminazione palestinese viene facilmente assimilata a ribellione da reprimere. Il linguaggio del controllo, della sicurezza, dell’emergenza permanente giustifica politiche di forza che colpiscono in larga parte civili: donne, bambini, anziani. Ancora una volta, la sproporzione diventa sistema. 
C’è poi la dimensione del tempo: una violenza che non si consuma in un solo evento, ma si dilata per decenni. Per i nativi americani non fu un unico massacro a distruggere il loro mondo, ma una lunga sequenza di trattati violati, confini spostati, diritti negati. Lo stesso accade ai palestinesi, intrappolati in una condizione che non è né guerra né pace, ma una continua erosione della terra, della libertà, della possibilità di futuro. 
Il parallelismo non serve a sovrapporre storie diverse, né a semplificarle. Serve piuttosto a riconoscere uno schema ricorrente: quando il potere decide che un popolo è sacrificabile, quando la sua umanità viene subordinata a un progetto più grande, la violenza diventa strutturale e si autoassolve. Wounded Knee ci insegna che queste storie, anche quando vengono soffocate, prima o poi tornano a chiedere conto. 
Ricordare il massacro dei Lakota e guardare alla Nakba e all’occupazione dei Territori Palestinesi significa allora fare un atto di responsabilità storica. Significa rifiutare le narrazioni che chiamano “progresso” ciò che nasce dall’esclusione, e “sicurezza” ciò che si fonda sulla negazione dei diritti di un altro popolo. Perché la danza degli spiriti dei Lakota e la perseveranza palestinese parlano la stessa lingua: quella di chi, anche quando tutto viene tolto, continua a rivendicare il diritto di esistere.