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Massimo Cacciari e la "dittatura democratica"

di Diego Fusaro - 16/07/2020

Massimo Cacciari e la "dittatura democratica"

Fonte: Diego Fusaro

Dicevano gli antichi che talvolta anche l’ottimo Omero sonnecchia. Variando sul tema, potremmo affermare che tavolta anche l’allineatissimo Massimo Cacciari si risveglia. E dice – ebbene sì – qualcosa di vero, qualcosa di non allineato con l’ordine dominante. È successo l’altro giorno, allorché ha qualificato il capitalismo terapeutico gestito da Conte una “dittatura democratica” (sic!). Tornerò tra breve su questa curiosa espressione. Lasciate, però, che io vi dica che ho sempre ritenuto che le parole che Marx applicava a Proudhon si potessero riferire, con una piccola variazione, anche a Cacciari: presso i politici, che non sono filosofi, egli passa per un grande filosofo; e presso i filosofi, che non sono politici, egli è considerato come un illustre politico. Non dovendomi per mia fortuna inchinare di fronte a Cacciari, posso permettermi il lusso di dire garbatamente ciò che di lui penso io e, invero, so che pensano molti altri che pure di facciata lo celebrano, magari scrivendo poi di parlar franco, sincerità e autonomia (“le ho viste io quelle facce!”, direbbe don Abbondio). Il percorso teorico di Cacciari, invero, si lascia inquadrare abbastanza facilmente, al netto del lessico alessandrino e involuto, tipico di chi, non avendo molto da dire, deve dirlo in una forma tale per cui il lettore ritenga sempre propria responsabilità esclusiva il non aver trovato nulla nelle pagine lette. Il percorso di Cacciari rientra appieno in quelle che Merleau-Ponty ebbe a definire le “avventure della dialettica” o, per tornare a Marx, nell’ampio, ospitale e sempre vivo orizzonte della “miseria della filosofia”: è, nel suo complesso, un tentativo di dimenticare Marx, di esorcizzarlo e di esorcizzare, con Marx, il proprio passato marxista. “Krisis”, “pensiero negativo”, “angeli necessari”: sono tutte formule che, alla fine, si lasciano ricondurre a un comune orizzonte, che è quello dell’abbandono di Marx e dell’approdo al nichilismo di chi, alla fine, cede al vuoto di senso del capitalismo imperante, che fino a ieri aveva provato a contestare teoricamente e praticamente. Sorte analoga – si dirà – a molti altri Sessantottini, passati ad avvelenare i pozzi in cui avevano bevuto. Divenuti ciò contro cui combattevano. Scrisse Costanzo Preve che Heidegger è la camera di decompressione ideale per abbandonare Marx e per passare, dalla critica del capitale, alla sua difesa depressiva in stile “destino dell’essere”. E, infatti, la Tecnica di Heidegger e di Cacciari non è se non il Capitalismo di Marx pensato non dialetticamente come orizzonte intrascendibile e dunque innalzato a destino ontostorico: si passa così dall’11° tesi su Feuerbach – interpretare il mondo non basta – al desolato teorema per cui “solo un Dio ci può salvare”. Dal proletariato rivoluzionario all’angelo necessario. Dalla passione rivoluzionaria alla confessione d’impotenza della krisis. Dal pensiero dialettico al pensiero negativo. Che è, poi, la variante depressa del più euforico – e più noto – pensiero debole di Vattimo: il quale, però, si è redento, ed è passato recentemente a una contestazione radicale del capitalismo. Morale? Dalla Gruber o dalla Berlinguer troverete Cacciari, mai Vattimo, che pure filosoficamente lo supera sotto ogni profilo. Se il capitalismo assurge a orizzonte destinale immutabile dalla prassi, occorre accettarlo: e ciò non perché sia buono, ma semplicemente perché non v’è altra possibilità. Come diceva una canzone di parecchi lustri or sono, non c’è più niente da fare, è stato bello sognare. Ciò vale per il maximum del capitalismo come per il minimum di alcune sue determinazioni: così la riforma costituzionale di Renzi, nel 2016, per Cacciari doveva essere approvata, benché facesse “schifo” (sic!). L’Unione Europea va appoggiata sempre e comunque. Salvo poi dire che quella di Conte, occasionata dal Coronavirus, è “dittatura democratica”. L’espressione è, ovviamente, demenziale. Ma, se non altro, rivela che perfino Cacciari ha capito che, dopo tutto, qualcosa non torna.