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Nietzsche e Dioniso

di Tovo Flores - 20/09/2021

Nietzsche e Dioniso

Fonte: Arianna editrice

Poco prima di precipitare nelle tenebre della follia, Nietzsche scrisse gli illuminanti  “Ditirambi di Dioniso”, che costituiscono una breve raccolta di poesie corali in onore al dio. Una di queste è assai significativa. Essa dice : “Tu che hai visto nell’uomo/ tanto il dio quanto la pecora-/ sbranare il dio nell’uomo/ come la pecora nell’uomo/ e sbranando ridere”. (1) Il verbo sbranare indica chiaramente la terribile sorte in cui il dio, simboleggiato da un giovane toro, veniva tagliato in nove pezzi durante la festa delle Donne Invasate, celebrata in onore della madre Seméle (che era stata stuprata da Giove): un pezzo del corpo veniva bruciato e il resto divorato dai fedeli. Le orgiastiche sacerdotesse, dette anche Menadi o Baccanti, che erano anch’esse nove, danzavano sfrenatamente durante il rito (2). L’atto rituale durante i baccanali talvolta dava origine ad un vero e proprio cannibalismo, mentre si celebrava la morte e la resurrezione del dio: per Nietzsche ciò significava, simbolicamente, l’avvento di una trasformazione che sanciva la nascita  del superuomo, poiché: questa, questa è la tua felicità/ felicità di una pantera e di un’aquila/ felicità di un poeta e di un giullare!...” (3).  Il superuomo è da intendersi quindi come colui che supera sia l’istinto del gregge (la pecora), sia la sottomissione ad un qualsiasi dio per diventare un rapace o un artista gioioso.

La passione verso il dionisiaco si palesò nel filosofo sin dalle prime opere scritte, restando per altro una passione del tutto interiore, poiché egli in realtà condusse una vita quasi ascetica.

Come Nietzsche giunse a “scoprire” la presenza del dionisiaco nel mondo greco antico? In primis fu lo studio delle grandi tragedie di Sofocle ed Eschilo, e in particolare i cori che  accompagnavano le terribili vicende che venivano narrate. Si tenga presente che Nietzsche aveva studiato al ginnasio di Pforta ed era un filologo di professione. Fu, inoltre, allievo del grande filologo Ritschl. A Basilea, dove insegnò grazie ad una raccomandazione di questi, frequentò il famoso storico J. Burckhardt, autore, fra l’altro, di un’opera monumentale, quale la “Storia della civiltà dei Greci”.  Sicuramente fu l’attrazione verso i “misteri” dei Greci, che erano rimasti profondamente legati alla tradizione popolare delle forme di culto, che gli fecero comprendere il lato oscuro della spiritualità greca originaria: ciò indirettamente gli confermarono le giustezza della visione schopenhaueriana, dalla quale aveva attinto il concetto dell’irrazionalità del vivere. Nietzsche fu colpito dalle rappresentazioni di Orfeo, Proserpina, di Dioniso con il suo corteo, che avevano il loro fondamento principale nella universalità della natura. Tutte le storie tramandate dai misteri rivelavano la loro terribile forza vitale in grado di sconvolgere persino gli avvenimenti storici. Per questo i Greci provavano un timore innato verso di esse, trovando l’antidoto catartico con l’esplicare ed attuare nella loro vita pratica l’intelletto, l’arte e la politica, che Hegel definì le “figure dell’individualità bella”. In altre parole essi cominciarono ad esercitare la “misura”, ossia l’armonia e la compostezza equilibrata, raffigurate, come si sa, dal dio Apollo. Nel mondo presofista, Apollo e Dioniso appaiono accoppiati l’uno con l’altro: da tale connubio nasce l’opera d’arte, che trova il suo culmine creativo nella tragedia attica, che è altrettanto apollinea che dionisiaca. Nella tragedia (da tragos odè, canto del capro), infatti, Dioniso si incontra e scontra con Apollo. Questo legame, che non è mai una conciliazione, fra i due dei  rappresenta l’intima ed essenziale spiritualità  dei Greci:  legame che viene però gradualmente dissolto col prevalere dell’apollineo.

Questa tesi venne esposta da Nietzsche nel suo primo libro importante, che è la “Nascita della tragedia ”, il quale suscitò entusiasmo in Wagner, ma anche aspre critiche da parte del noto filologo tedesco von Wilamowitz-Moellendorff. Nietzsche sostenne che il razionalismo filosofico di Socrate e le tragedie di Euripide avevano soffocato l’istinto dionisiaco, dando il via ad un’epoca di decadenza (decadenza degli istinti!) che avrebbe travolto tutto l’Occidente. Su questa questione tuttavia non ci soffermeremo, poiché si di essa è stato scritto sin troppo.

Ci interessa, invece, esaminare un altro importante libro giovanile di Nietzsche, che è “La filosofia nell’età tragica dei Greci”, che è, a parer nostro la sua prima opera filosofica, intesa in senso stretto. Studiando tale lavoro, che alla fine è un breve manuale di filosofia che si occupa dei presofisti, si può facilmente osservare che il suo filosofo prediletto era Eraclito, dal quale derivò il senso dell’ “amor fati”.                               Egli comprese, leggendone i frammenti, che Eraclito era giunto allo scoprimento della lotta fra i contrari “… osservando il caratteristico andamento di ogni divenire e trapassare, inteso da lui sotto la forma della polarità, come lo scindersi di una forza in due attività qualitativamente diverse, antitetiche e tendenti al ricongiungimento. Una qualità che entra continuamente in discordia con se stessa e si divarica nei suoi opposti, e di continuo questi opposti cospirano nuovamente l’uno verso l’altro…” (4): opposti che appunto si incarnavano in Dioniso ed Apollo. Egli, quindi, ritenne, al modo di Eraclito, che tutta la realtà in divenire fosse pervasa immanentemente, nella propria struttura interna, dalla lotta fra i contrari. Così infatti scriverà più tardi in “Ecce homo”:

Il sì alla vita anche nei suoi problemi più oscuri ed avversi, la volontà di vita, che nell’immolare i suoi esemplari più alti sente la gioia della propria inesauribilità – questo io lo chiamo dionisiaco, questo ho inteso come ponte  verso la poesia del poeta tragico. Non per svincolarsi dal terrore e dalla pietà, non per purificarsi da una passione pericolosa per mezzo di una violenta scarica – questo è stato l’equivoco di Aristotele- : bensì perché, al di là del terrore e pietà, quella gioia che comprende in sé la gioia dell’annientare… In questo senso io ho il diritto di considerarmi il primo filosofo tragico – e cioè l’estrema antitesi e l’antipodo di un filosofo pessimista. Prima di me non esisteva questa trasposizione dell’elemento dionisiaco in pathos filosofico: mancava la saggezza tragica – ne ho cercato invano un qualche segno persino nei grandi Greci della filosofia, quelli di due secoli prima di Socrate.  Mi è rimasto un dubbio per Eraclito, nella vicinanza del quale sento più calore e mi sento di miglior umore che ovunque altrove. L’affermazione del flusso e dell’annientare, che è il carattere decisivo in una filosofia dionisiaca, il sì al contrasto e alla guerra, il divenire, con rifiuto radicale persino del concetto di “essere” – in questo io debbo riconoscere quanto di più affine a me sotto ogni aspetto sia stato pensato finora. La dottrina dell’ “eterno ritorno”, cioè della circolazione incondizionata e infinitamente ripetuta di tutte le cose – questa dottrina di Zarathustra potrebbe già stata insegnata da Eraclito. Per lo meno se ne trovano le tracce nella Stoa, che ha ereditato quasi tutte le concezioni fondamentali di Eraclito” (5).

Il brano di quest’opera, scritto anch’esso alcuni mesi prima della follia, rivela una volta di più  quelli che sono stati i motivi conduttori di tutte le opere precedenti: ossia il riaffiorare di bisogni dionisiaci,  repressi, secondo la sua veduta, dall’etica socratico-platonica (e più tardi dal cristianesimo). Da qui l’esaltazione del divenire (amor fati), il sì al conflitto, alla guerra e all’eterno ritorno dell’uguale.

Nietzsche pensa all’Essere come tutto ciò che è presente nel suo divenire temporale, e quindi come Natura,  la quale è soggetta alla finitudine in tutti i suoi aspetti.

Per cui non c’è commessura fra realtà e razionalità, ma l’Essere si presenta nelle sue manifestazioni come sentimento, forza, istinto e passionalità. In Esso vi è un’essenza impenetrabile da parte della ragione (il dionisiaco), che non può essere colta dalla razionalità comune, sia essa scientifica o filosofica. Un lato oscuro che egli considera come il fondamento dello stesso apparire degli enti, come peraltro aveva anticipato Schelling nelle sue “Ricerche sull’essenza della libertà umana”. Enti che non sono fenomeni prodotti da una parvenza illusoria come era teorizzata da Parmenide o come un prodotto di un soggettivo percepire come affermava Berkeley con  suo “esse est percipi” e come anche Schopenhauer (il velo di Maya), ma esistenza reale come intendevano i filosofi Greci presocratici.

L’Essere è allora il fluire di tutte le esperienze degli esistenti nel loro vivere concreto, tragico e gaio insieme:  certo non è l’astrattezza di principi logici : “…il pensiero è finzione ” dirà Nietzsche.

Insomma, il pensare dialettico è presente nel pensiero nicciano, ma esso, come vedremo,  è “dualistico”, non monistico o triadico. Quindi tal pensare non sarà mai eletto a sistema unitario, in quanto non obbedisce ad alcuna regola determinata verso l’attuazione di un fine che non sia espressione di una volontà di potenza. Gli eventi che accadono sono retti da un “pòlemos” (conflitto) che sempre si ripresenta con protagonisti sempre nuovi e tuttavia sempre uguali nel ritorno. 

Nietzsche accetta il destino, lo ama in tutte le sue convulsioni, ramificazioni ed eccessi: tuttavia definirlo come uno “scriba del caos” (6) ci sembra certamente problematico,  poiché la contraddittorietà del reale, per quanto aperta e mai risolutiva, è “governata” pur sempre da un  “ordine” invisibile ai più, che è dato dalla opposizione apollineo-dionisiaco, mentre nelle opere della maturità viene concepita come volontà di potenza (l’apollineo è il principium indivituadionis) ed eterno ritorno dell’uguale (il dionisiaco flusso vitale). Vi è quindi in Nietzsche la convinzione che ci sia sempre, all’interno della finitudine degli enti, una opposizione perenne fra contrari  come diceva Eraclito. Semmai c’è da pensare su come egli possa essere considerato per davvero un pensatore eracliteo, poiché, come si sa, egli esclude qualsiasi “realtà” trascendente. Evola comprenderà per primo che Nietzsche palesava una evidente carenza intuitiva, espressa soprattutto nella “Nascita della tragedia”, per il fatto che non aveva visto la complementarietà combaciante dei due contrari rappresentati da Apollo e Dioniso. Egli scriverà a tal proposito: “Una delle prove della sua incomprensione per le tradizioni antiche è la sua interpretazione dei simboli di Apollo e Dioniso partendo da una filosofia moderna, come quella di Schopenhauer. “Dioniso” è stato riferito ad una specie di immanenza divinificata, ad un affermazione ebbra e frenetica delle vita nei suoi stessi aspetti più irrazionali e tragici. Per contro, di Apollo Nietzsche ha fatto il simbolo di una contemplazione del mondo delle forme pure intesa a liberare dalla sensazione e dalle tensione di quel sottofondo irrazionale e drammatico dell’esistenza, quasi fosse una fuga. Tutto ciò è privo di fondamento”. Inoltre, aggiunge Evola, “… la via dionisiaca fu una via misterica… un vivere portato ad una particolare intensità il quale sbocca, si capovolge e si libera in un più-che-vita, grazie ad una rottura ontologica di livello. Volendo, questo sbocco, che equivale alla realizzazione, al ravvivamento o al risveglio della trascendenza in sé, possiamo proprio riferirlo al vero contenuto del simbolo apollineo. Da qui, l’assurdità della antitesi, stabilita da Nietzsche, fra “Apollo” e “Dioniso “ (7).

In effetti una semplice opposizione di contrari che rimangono nettamente separati fra loro si esaurisce in un dualismo superficiale ed inferiore, in quanto i contrari, anche se posti sullo stesso piano ontologico, diventano irriducibili l’uno all’altro, come ad esempio i contrari etico-teologici fra Bene e Male propri dei Manichei e dei loro seguaci Pauliciani, Bogomili, Catari, o dai Calvinisti, di cui gli Americani sono l’esempio vivente. Invero una tale contrapposizione in costoro non implica una unità superiore, cioè una “coincidentia oppositorum” che è la risoluzione armonica e perciò davvero sintetica fra i contrari. Se viene a mancare, scriverà Guènon (8), una vera integrazione unitaria fra contrari, ci sarebbe “ad aeternum” una situazione conflittuale che implicherebbe uno squilibrio totale che ucciderebbe qualsiasi forma di vita. Infatti il complementarismo fra contrari comporta pur sempre dualità, la quale però essendo contenuta in una unità superiore, trova l’equilibrio perpetuo fra i due termini (come ad esempio il simbolo del Tao ben raffigura).         

Già Anassimandro, con l’intuizione intellettuale dell’Infinito, contemplava l’Uno come il contenente dei contrari. Ma è con Eraclito stesso con il frammento n. 10, quello della “syllàpsis”, che significa rapporti o congiungimenti (…da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose), con in aggiunta il fr. 41 (Esiste una sola cosa saggia: conoscere la ragione, la quale tutto governa attraverso tutto) ed il fr. 50 (Prestando ascolto non a me, ma alla ragione, è saggio convenire che tutte le cose sono uno), che sarà espresso il senso profondo della “coincidentia oppositorum”. E di questa veduta si resero poi  assertori, sia pure in modo diverso, filosofi come Cusano, Bruno, Eckart, Silesio  e ancora Fichte, Schelling ed Hegel.

Il filosofo heideggeriano E. Fink, in suo famoso libro su Nietzsche, affermò che l’unità degli opposti in questi è “…sì nominata, ma non concepita in una comprensione intellettualmente compiuta dell’essere (9).

In effetti Nietzsche intese la polarità fra Apollo e Dioniso come gioco (il bimbo che gioca coi dadi, fr. 52 di Eraclito), un gioco che caratterizza l’innocenza del divenire. L’Essere è allora per lui il gioco stesso che non si risolve mai in una totalità, ma che sempre si ripresenta irredimibile e tragico nella perennità finita del divenire.

Per lui l’Essere è il divenire stesso, è la vita finita ed empirica, è gioco che rende alcuni dei, altri schiavi oppure uomini o superuomini.

 Abbiamo visto che Dioniso e Apollo sono i due contrari che si fronteggiano: il primo è, come viene concepito nella “Nascita della tragedia”, l’amorfo flusso della vita, ossia la volontà di vivere schopenhaueriana, il secondo è il principium individuationis.  Fink su questo punto è lapidario:

“Così egli si distingue da Schopenhauer anche nel fatto che non concepisce il fenomeno come una pura creazione dell’intelletto umano, ma come una forma apollinea posta e prodotta dallo stesso principio cosmico dionisiaco, forma che è sì apparenza, ma che tuttavia non è un nulla: così anche il tempo ha per Nietzsche un più serio significato: esso non sussiste soltanto per l’intelletto, ma è il modo in cui il principio governa: il gioco di Dioniso è il puro divenire. Poiché il tempo esiste nel principio stesso del mondo, può avere un grande significato nel regno degli Enti apparenti” (10).

Dioniso, dinamicamente, si antepone ad Apollo: esso è l’Essere stesso, il divenire temporale entro cui Apollo si oggettiva cercando di ordinare il caos originario dal quale proviene. Ai tempi dei grandi Fisici (i presofisti) il rapporto fra queste due Divinità era, per così dire, “felice . In un mondo apparentemente ordinato dalla compostezza e dall’ordine sociale politico, etico ed estetico (il cosiddetto classicismo) si celebravano in taluni periodi dell’anno le incontenibili e potenti esplosioni orgiastiche che culminavano nello sfogo delle pulsioni più profonde della psiche umana. La tracotanza vitalistica (hybris) scompensava quindi, sia pur per un breve tempo, i ritmi dettati dall’ordine razionale apollineo per dare sfogo alle pulsioni istintive insopprimibili.

Sennonché Socrate prima (il greco fallito per eccellenza secondo Nietzsche) e poi Platone e poi ancora il Cristianesimo con Tommaso innalzarono la ragione umana al massimo grado, e quindi segnando la vittoria di Apollo: ma così, di fatto, reprimevano e rimuovevano il dionisiaco nel subconscio rendendo di conseguenza gli uomini malati nel corpo e nella mente.

Tutta l’opera nicciana condannerà questo “attentato” alla salute psico-fisica umana arrivando persino ad odiare mortalmente il Cristianesimo, contro il quale scriverà tutte le sue opere ad indirizzo etico (invero quasi tutte).

In realtà, pur osservando la presenza  di aspetti antivitalistici nel Cristianesimo, quali la sessuofobia, la compassione, l’esaltazione degli umili ecc., (tant’è che esso arrivò a concepire Dioniso come il Diavolo, visto che la figura caprina è la stessa),  c’è da considerare in verità che la teologia cristiana ammette la trascendenza in forma trinitaria. Nel Nietzsche giovane, come si diceva, c’è da notare invece una evidente deficienza intuitiva che consiste nel non aver compreso il collegamento omogeneo fra la sfera dionisiaco-apollinea, misterico-mantica e la sfera dialettica. G. Colli è stato estremamente chiaro e decisivo nell’individuare tale inadeguatezza sinottica del primo Nietzsche.

“Apollo,” scrive Colli “nella sua significazione avvolgente, come simbolo di esaltazione conoscitiva, come parvenza che allude a qualcosa di nascosto, non solo si allarga in Dionisio, o almeno è affine a lui, è in comunicazione con Dioniso stesso inteso come effusione interiore del sentimento, straripante e collettiva, come immediatezza e animalità estranee alla parola, ma è il dio della sapienza, allo stesso modo che lo è dell’arte, è il protettore della comunità pitagorica: non c’è antitesi qui tra arte e conoscenza, come vorrebbe Nietzsche, e Dioniso non è un dio concorrente della sapienza, poiché quest’ultima è legata alla parola, strumento di Apollo. Costui è il dio del responso, della parola ambigua, della divinazione, della conoscenza del futuro, e indirizza tutto ciò con imperiosa ostilità, con fomentazione agonistica. L’istigazione a interpretare, l’ostilità della parola come stimolo alla lotta, la formulazione antitetica dell’enigma: ecco gli elementi che vivranno nella dialettica. Il carattere di Apollo riapparirà nella spietata volontà di vittoria di chi discute, e la sua violenza si tradurrà nel legame di necessità che stringe l’argomentare della ragione”  (11).

Apollo, quindi, cela, al di là della sua serenità razionale, violenza, volontà di affermazione, e una natura dialettica che ne rivela la concordanza e la complementarietà con Dioniso. Eraclito scrisse nel frammento 48 : “Nome dell’arco significa vita; ma la sua opera è morte”. Nella lingua greca la parola arco si scrive “bìos” e così la parola vita. L’arco è lo strumento di Apollo, che quindi è anche un uccisore.

E lo stesso Dioniso, dio del vino, dell’eros e della danza senza freni, è anche il dio della sapienza, poiché l’ebbrezza, che il vino infonde, vince sull’opacità del quotidiano, preparando così il momento esaltante per il conoscere umano, che è sorto da una originaria intuizione estatica. Del resto, da sempre, la creatività del genio ha abbisognato spesse volte dell’aiuto, diciamo così, alcoolico. Si ritiene altresì che l’albero della conoscenza del bene e del male, che la Bibbia non specifica, sia in realtà una vigna, o comunque un albero, i cui frutti, una volta fermentati, donino l’ebbrezza della conoscenza.

Le opere giovanili di Nietzsche presentano perciò l’opposizione Dioniso-Apollo come opposizione nettamente dualistica, tutta all’interno di una finitudine che non trova mai risoluzione in una unità fra contrari che la trascendono.

Comunque nelle opere della maturità tale opposizione si ripresenta sotto altre spoglie. Apollo, il principio di individuazione, diventa la volontà di potenza del superuomo, mentre Dioniso viene concepito come l’eterno ritorno dell’uguale. Con queste due figure concettuali fondamentali, che Nietzsche elaborò soprattutto in opere quali “La gaia scienza”, “Così parlò Zarathustra”  e nei frammenti postumi raccolti dalla sorella Elisabeth e da Peter Gast con il titolo di “La volontà di potenza”, egli approfondì, mutandolo in senso logico ed ontologico, il dualismo pensato in gioventù, che era un dualismo espresso in termini estetici e più genericamente culturali. Cosicché, soprattutto ne “La volontà di potenza”, egli cercherà di superare la netta antinomia fra apollineo e dionisiaco, comprendendo i due contrari in una unità superiore. Lo stesso E. Fink osservò questo sforzo intellettuale di Nietzsche, quando sottolineò con un “finalmente” la più profonda penetrazione dell’antico dualismo:

“Volontà di potenza ed eterno ritorno in rapporto fra loro come l’Apollineo e il Dionisiaco, o, piuttosto, sono il dualismo, finalmente penetrato da Nietzsche, della sua antica metafisica dell’artista”  (12).

La volontà di potenza viene identificata con la vita stessa, intesa come forza espansiva propria di tutti gli enti, sempre spinta all’autosuperamento. In altre parole la volontà di potenza si manifesta come legge di natura, come morale, come politica e come arte e trova la sua più alta espressione dinamica nel superuomo, che non è “über”  (super o oltre) solo e perché è oltre l’uomo del passato, ma soprattutto perché la sua essenza consiste nel continuo sopravanzamento di sé. La vita è allora autopotenziamento, autocreazione, una libera produzione di sé che va oltre qualsiasi piano prestabilito.

Essa, poi, trova il suo culmine, o massimo compimento, nell’accettazione completa dell’eterno ritorno dell’uguale, quando cioè il superuomo si libera del peso del passato e “redime” il tempo.

Proprio in quanto principio di individuazione la volontà di potenza ripropone il mito di Apollo, del dio che vuole la Forma, la distinzione, la disciplina forte che forgia, crea e differenzia. Perciò Nietzsche, nella quarta parte de “La volontà di potenza”, comprende che l’apollineo è strettamente connesso con il dionisiaco, poiché esso può celebrare se stesso solo nell’eterno ritorno dell’uguale. Si vorrebbe con ciò “superare” il dualismo  attraverso l’unità fra i contrari. La volontà di potenza (l’apollineo), che è parte dell’essenza stessa dell’ente, viene concepita qui come una dionisiaca volontà della volontà che attua se stessa nella assolutezza dell’istante dell’eterno ritorno dell’uguale (il dionisiaco). 

Tuttavia tale superamento non si compie: la supremazia di Dioniso è innegabile. Questi è l’Essere vivente (Natura) che comprende insieme volontà di potenza ed eterno ritorno, senza però conciliare il loro contrasto. La volontà di potenza, infatti, vuole la Forma, mentre l’eterno ritorno la inghiotte. Il distinto si dissolve nell’indistinto. “Dioniso è l’unità della volontà di potenza come tendenza apollinea e l’eterno ritorno come profondità dionisiaca del tempo in tutte le cose finite” (13).

La “profondità dionisiaca” del tempo non è più concepita come accettazione del flusso perenne delle cose. Il Nietzsche della maturità vuole redimere lo stesso divenire dal generico “…e così via”. Il divenire viene perciò mantenuto come divenire, ma in esso viene immessa la stabilità, che è appunto l’eterno ritorno dell’uguale. L’ente, raffigurato dal pastorello nel capitolo del “Convalescentedello “Zarathustra”, può “determinare”, staccando con un morso la testa del serpente (simbolo dell’eterno ritorno), il carattere del divenire, ed essere perciò libero solo nell’accettazione dell’eterno ritorno dell’uguale.

Detto questo, si possono, indipendentemente dalla affascinante potenza del suo pensiero, osservare da un punto di vista strettamente logico-filosofico delle difficoltà insuperabili all’interno della sua visione.

Sorge infatti la domanda di come è possibile che un eterno temporale che sempre ritorna e che essendo governatore degli enti è di per sé finito, anche se si ripete all’indefinito, possa sussistere in sé, se tutto è contingente?

Eppoi come può l’attimo, essendo temporale, essere anche assoluto, visto che ogni assolutezza trascendente viene esclusa?

L’eterno ritorno dell’uguale, infatti, non è una verità che aderisce alla realtà del mondo, perché essendo il mondo soggetto al divenire non sarebbe possibile cogliere un attimo eterno, e perché il tempo è sì indefinito, nel senso che non finisce mai, ma che non è il vero infinito, perché il vero infinito non può essere determinato da alcunché, poiché altrimenti sarebbe una parte, e perciò finito. Il superuomo che decide di vivere l’eterno ritorno dell’uguale deve viverlo “come se” fosse vero. Non è importante dimostrarne la veridicità : in fondo questo non è il suo pensiero più “abissale” ?

Si può inoltre rilevare che se il Tutto è finito e contingente, anche se suscettibile di estensione indefinita, ciò significa che esso è rigorosamente nullo rispetto all’Infinito: nessuna somma di finiti dà l’Infinito e una “eternità” temporale è sempre relativa agli enti, e perciò non può essere la vera eternità, in quanto questa è astrattamente connessa all’Infinito che essendo indeterminato è senza tempo (14).

Nietzsche non ha saputo o voluto rispondere a queste domande poiché era tutto impegnato nell’opera di distruggere ogni certezza metafisica e teologica.

La connotazione della sua meditazione sta tutta qui: ciò che è stato vero per millenni era falso e nessun’altra verità assoluta può essere costruita, se non come prospettiva e come imposizione di una volontà di potenza. Ma il vero in quanto tale non può più sussistere.

Di conseguenza, se il Dio delle religioni, come egli annuncia, è morto assieme al suo protettivo apparato metafisico-teologico, bisogna  prendere atto che pure i miti di Apollo e Dioniso sono tramontati del tutto nel nostro mondo attuale. 

Apollo, che è stato, come s’è detto, il dio che ha simboleggiato la misura, la bellezza e il filosofare profondo, è praticamente scomparso dall’orizzonte della spiritualità umana. Tutte le attività artistiche sembrano ormai prodotte da un colorificio, o da fabbriche di rumori assordanti, o peggio ancora da una discarica di rifiuti: tutto è insensato e caotico; il brutto domina. L’unica attività pensante ammessa è quello della ragione calcolante, che riduce tutto a quantità.

Dioniso, invece, all’apparenza potrebbe sembrare in ottima forma: i “rave party”, le danze sfrenate, l’uso e l’abuso di droghe obnubilanti, la sessualità fine a se stessa sembrerebbero confermare il suo trionfo.  Infatti, la musica moderna, che ha il suo fondamento nel jazz, richiama parossisticamente alla arcaicità primitiva e alla bramosia ululante del sesso. Ma così non è. Günther Anders ha scritto a riguardo alcune pagine geniali, che rivelano il tramonto di questo dio.

Lo scopo ultimo della musica moderna “…è liquidare il sesso stesso. Se si è messa in contatto col sesso, non lo ha fatto per collaborare, ma per trasformare la sua violenza compressa in una energia di un genere a lei proprio. Cioè di ridurre il ballo ad un processo di trasformazione e i ballerini a trasformatori, il cui dovere consiste nel trasformare le energie animali, in energie meccaniche” (15). Durante i veri balli dionisiaci del passato i ballerini vivevano appieno un’estasi genuina che li metteva in contatto con le femminili e divine potenze ctonie. Nel mondo attuale il loro “fuori di sé” si riduce ad un contatto sensibile con la macchina: Dioniso è ormai un “dio industriale”. Scrive ancora Anders che le musiche di oggi danno il via a balli ripetitivi che replicano il ritmo delle macchine: “La loro sincope è elevata a principio”. Il corpo si oggettiva nel movimento proprio degli automi.

 Ormai il dominio del “Gestell”, cioè dell’imposizione coercitiva della tecnica, è incontrastato. Il divino è scomparso ed è sepolto con tutto ciò che era umano. L’ultimo dio è un microchip.

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NOTE:

  1. F. NIETZSCHE, Ecce homo, ecc., p.107, a cura di G. Colli e M. Montinari, ed. A. Mondadori Milano 1977.
  2. R. GRAVES, I miti greci, pp.47-48. Vol I. ed. Longanesi, Milano 1963.
  3. F. NIETZSCHE, op. cit., p.107.
  4. F.NIEZSCHE, La filosofia nell’età tragica dei Greci, p.237, Ed. Newton, Roma 1991.
  5. F. NIETZSCHE, Ecce, cit., pp. 50-51.
  6. F.MASINI, Lo scriba del caos, ed. Il Mulino, Bologna 1986.
  7. J.EVOLA, Cavalcare le tigre, ed. Vanni Scheiwiller, Milano 1971 pp.66-67 
  8. E.FINK, La filosofia di Nietzsche, ed. Mondadori, Milano 1977, p.34
  1. R.GUENON, Il simbolismo della croce, ed. Luni Editrice, Milano 2003, pp.53-63.
  1. IDEM, p.39.
  2. G.COLLI, Dopo Nietzsche, ed. Adelphi, Milano 1974, pp.46-47. 
  3. E.FINK, op.cit., p.186-187.
  4. IDEM,op.cit., p.187.
  5. R.GUENON, op. cit., Luni editrice, Milano, pp.109-111.
  6. G. ANDERS, L’uomo è antiquato, p.84, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2007.


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BIBLIOGRAFIA

Testi usati e consultati.

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