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Non salgo più su un tram: ho il terrore che mi cedano il posto

di Massimo Fini - 03/12/2025

Non salgo più su un tram: ho il terrore che mi cedano il posto

Fonte: Massimo Fini

L’altra mattina ero sul “tram numero 10”. “Il tram numero 10” non è un tram come tutti gli altri, è un mito, perché con le sue 35 fermate attraversa da nord a sud tutta Milano. Rasenta molti quartieri e quindi tutti i milanesi lo conoscono e ne conoscono i percorsi. Se uno straniero si è perduto intorno alla Stazione Centrale basta dirgli “prendi il 10 e vedrai che ti porta vicino al posto che cerchi” (Lucio Dalla canta “nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino”, nel centro di Milano sì, perché scarsi sono i portici – invenzione di Nerone – che ti facciano da segnaletica).

Se mi chiedessero qual è il simbolo di Milano non risponderei il Duomo, risponderei: il tram. L’indicazione del “numero 10” corrisponde al vecchio “chiedilo al ghisa”, antropologia anch’essa scomparsa da Milano, insieme al Commissario di quartiere.
Quando, bambino di tre anni, arrivai a Milano, dopo aver vissuto sulle colline delle Prealpi (l’emergenza degli “sfollati”) ciò che più di tutto mi colpì, anzi la sola cosa che mi colpì, furono i tram, questi strani veicoli che non hanno ruote gommate, vanno su rotaie e si congiungono con quello che a me pareva un bastone (‘archetto’) a un reticolo di fili che stanno qualche metro sopra il tram. Così io, bambino, dicevo “Milano ha il cielo con la rete” e, trasportato dalla mia fantasia infantile, dicevo che da grande volevo fare il tranviere. Purtroppo lo dissi anche a mia madre che per tutta la vita è rimasta convinta che avessi fallito i miei obiettivi perché tranviere non ero diventato (sconsiglio a tutti di avere una madre nata in epoca zarista).

Il tram ha una particolarità che non appartiene a nessun altro veicolo: il suo sferragliare, anche lontano, molto lontano, in una notte buia e tempestosa, con la città deserta (i milanesi, a differenza dei romani, non abitano la notte) ti dà coraggio. È il leitmotiv di tanti racconti di Dino Buzzati, quando il protagonista, immerso in quegli incubi che solo lo scrittore di Belluno sa creare, si trova in un qualche guaio.
I tram, parlo sempre del dopoguerra, erano affollati fino all’inverosimile, la gente si stipava non solo sui predellini, ma si attaccava anche a delle corde che penzolavano dietro a ogni tram. Chi era stato sotto i bombardamenti americani non aveva certo paura di farsi la bua cadendo sul selciato. Comunque il pericolo era in qualche modo mitigato aggiungendo una carrozza a quella principale (il “doppio tram”, una goduria che oggi non esiste più).

Questo sovraffollamento era dovuto alla prima migrazione, principalmente dal Veneto e dall’Emilia (Milano, insieme a Torino e Genova, faceva parte del “triangolo economico”). Poi arrivò la migrazione dal Sud Italia, che a Milano, a differenza della fredda, in tutti i sensi, Torino (i “letti caldi”) non causò problemi. Chi veniva dal Sud Italia aveva voglia di lavorare e i milanesi, si sa, hanno sempre apprezzato chi rusca, per dirla in dialetto lombardo, anch’esso scomparso. La polemica era bonaria e linguistica: loro erano i “terroni”, noi i “polentoni”. Un po’ come i milanisti erano i Casciavit e gli interisti i Bauscia.
Nel dopoguerra, dopo una guerra persa nel peggiore dei modi, noi italiani eravamo poveri, non però al punto di soffrire la fame, questo se l’è inventato Giampiero Mughini. Ma bisognava stringere la cinghia, nel senso letterale del termine. Il nostro non consumismo non era una scelta, ma un obbligo. Eravamo asciutti e quindi più belli. In quel periodo di ristrettezze il pater familias passava il suo cappotto al fratello maggiore e costui ai minori. Insomma si scopava e il tasso di natalità non era ridotto, come oggi, al misero 0,63 per cento. Un’asciuttezza che c’era anche nel comportamento. Si vadano a vedere i funerali di Fausto Coppi, 1960. Chi assisteva ai funerali del “campionissimo”? La “gente comune”, come odiosamente si dice oggi. Nessun sgangherato applauso all’uscita della bara. Il popolo onora in silenzio e con grande compostezza il suo campione. Oggi, nel frastuono incessante che ci circonda, non sopportiamo più il silenzio, applaudiamo anche i morti, di che cosa, d’esser morti?
C’è stato un periodo in cui a Milano si volevano abolire, per non so quale ragione, i tram. Per fortuna arrivò la crisi energetica del ’73 a porre fine a questo progetto insensato. Ritornarono in auge i tram, che non vanno a petrolio e persino i cavalli; ne erano rimasti solo alcuni, spelacchiati, con relativo calesse, davanti alla Scala, solo decorativi insomma.

Torniamo al tram dell’altra mattina. C’era una signora anziana, in piedi, in evidente difficoltà, perché i tram saranno anche una bellissima cosa, ma non possono evitare gli sbalzi del pavé. Davanti a lei, sedute, tre o quattro ragazze, nessuna che si sia sognata di alzarsi per cederle il posto. Per cui oggi un vecchio può tranquillamente salire su un tram senza il timore di essere considerato un vecchio inutile.
Si frigna molto sui giovani di oggi e loro stessi frignano su se medesimi e il loro futuro incerto. Il fatto è che le generazioni che si sono succedute alla mia non hanno conosciuto, non dico la guerra, questo era anagraficamente impossibile, ma nemmeno le ristrettezze del dopoguerra. Non hanno affrontato cioè nessun evento fondante, di quelli che temprano le persone, ne formano il carattere. Per cui l’unica cosa onesta, anche se modesta, che possono fare è una sola: invecchiare.