Oggi è il tempo della guerra
di Salvo Ardizzone - 11/08/2025
Fonte: Italicum
Anche se è brutto a dirsi, la pace oggi non è possibile. Meno che mai è pensabile che essa si affermi stabile in un quadrante di questo mondo martoriato mentre le guerre continuano a infuriare altrove. Tutto si tiene perché i conflitti in corso, in Ucraina, in Medio Oriente (Medio Oriente, non semplicemente Palestina), i tanti altri che fuori dall’attenzione dei media già insanguinano Africa e Asia, e quelli che attendono di esplodere con sullo sfondo la deflagrazione finale fra USA e Cina, tutti, hanno un’unica matrice, un’unica logica: il cozzo in corso da anni fra l’unipolarismo egemonico americano ormai in crisi, ma che pretende di mantenere il suo dominio globale, e le potenze che a vario titolo lo rifiutano per affermare la propria sovranità, il diritto di scegliere da sé la propria via.
La guerra, scoppiata apertamente nel 2022, si è subito dilatata lungo le infinite faglie di questo confronto preesistente, investendo le reti di dominio poste dal sistema egemonico sul mondo: in Medio Oriente come in Africa, in Asia come nel Pacifico, separando sempre più nettamente Stati Uniti e suoi proxy dal resto del pianeta, quei sette ottavi di umanità sempre meno disposti ad assoggettarsi. Col risultato di estendere a dismisura le aree di conflitto e di spingere le nazioni più diverse a fare fronte unico contro l’aggressione di chi non si rassegna al suo declino, di chi continua a pensarsi eterno Numero Uno. Con ciò rendendo la possibilità di uno scontro catastrofico sempre più concreta.
Il punto è che, come ho anticipato, la pace non è al momento opzione possibile, e ciò perché l’Occidente, collettivo o allargato che dir si voglia, ma comunque a guida americana, si basa su assunti per sé irrinunciabili ma per gli altri irricevibili: in primis l’universale accettazione acritica del rules-based order, il sistema di regole (im)posto dagli USA a propria convenienza, e poi dell’eccezionalismo americano, l’indiscutibilità dei cosiddetti principi liberali, del presupposto che il liberismo sia l’unico sistema economico possibile e l’asserita liberal-democrazia (qualsiasi cosa voglia intendersi con ciò) l’unico sistema politico accettabile, anzi, legittimo, naturalmente a condizione d’essere comunque e sempre in linea con sostanza e interessi del sistema egemone di cui è emanazione.
In tutto questo è implicito il rifiuto delle diversità, di accettare percorsi e scelte altrui, meno che mai di concepire la possibilità – oggi realtà – di avere comprimari. In sostanza, per gli Stati Uniti il gioco è sempre a somma zero; ovvero, puntano a vincere a scapito degli altri, anche dei vassalli. Anzi, più che mai dei vassalli perché, nei travagliati tempi odierni, trovano molto, molto più facile sfruttare loro che gli altri (si guardi alle vergognose vicende di dazi, riarmo e simili per averne prova provata). Il concetto di rispetto reciproco, di rapporti win-win, di comuni interessi è del tutto assente. È forzatamente estraneo. Del resto non c’è da stupirsi, Storia insegna che tutti gli imperi in disfacimento hanno spremuto le province fino all’osso prima del crollo.
Eppoi, rimanendo bloccati nella propria narrazione, unica coerente a teoria e prassi dell’egemonismo, gli Stati Uniti – con i satelliti al seguito – si precludono la comprensione del vasto (sempre più vasto) mondo. E ciò è ulteriore viatico di scontro: vieta la comprensione reciproca, quindi la possibilità di accomodamento, e indica l’eliminazione di chi si vede nemico – doppiamente nemico perché diverso – quale unico obiettivo. Naturalmente, la difficoltà di comprendere l’altro da sé non è semplicemente occidentale, ma la presunzione di superiorità indiscussa (per meglio giustificare sfruttamento e dominio) quella sì, è propria dell’Occidente a guida americana, ne è elemento essenziale. È ciò che fa alzare il dito per impartire lezioni, per imporre (in verità, oggi solo provare a farlo) standard a sé convenienti.
Per questo è impensabile che gli USA accettino le ragioni della Russia; dovrebbero rinnegare sé, il proprio peculiare espansionismo predatorio; lo stesso che, dopo aver saccheggiato il proprio Continente, eliminando nel senso letterale i nativi, li ha spinti a razziare il mondo in nome di un supposto destino manifesto a dominarlo. Meno che mai sono in grado di comprendere la Cina, cultura così diversa e antica, con una forte coscienza di sé, del proprio stare nel mondo che non è disponibile a svendere.
Certo, anche Russia e Cina hanno culture diverse e, se si guarda alla Storia e alla stessa evidenza Geopolitica, avrebbero infinite ragioni per contrastarsi, come hanno già fatto a lungo, per rimarcare abissali differenze, ma ne hanno assai di più per fare fronte comune in omaggio alla legge che vede nel nemico del proprio nemico un amico, a prescindere da ogni altra cosa. Precetto che spinge i paesi a unirsi per coincidenza d’interessi contro la minaccia d’un Egemone disposto a tutto per puntellare un impero in crisi. Norma universale per chiunque stia nella realtà, dunque non vale per gli europei, oscillanti fra le narrazioni lunari delle proprie leadership platealmente asservite e cosiddette opposizioni più o meno alternative o dissenzienti, chiuse in un bizzarro sovranismo succube infarcito di suprematismo e liberismo, entrambi in perfetta assonanza col padrone. Quindi, gli uni e gli altri, del tutto irrilevanti fuorché per il danno – enorme – che infliggono a se stessi.
Abbiamo detto che, in uno scenario simile, necessità impone di far fronte comune, fratellanza indotta dalle circostanze. Oggi solida per convenienza, domani chissà. Assai probabile è il ritorno alle sfere d’influenza in un mondo che vira al policentrismo, archiviando l’Era Colombiana dopo 500 anni di supremazia incentrata sulle due sponde dell’Atlantico. Supremazia a ogni evidenza emigrata nell’Indo-Pacifico, nuova Isola Mondo con buona pace di Mackinder. Prospettiva infausta per il fu Egemone che non si rassegna; di qui il perpetuarsi dello scontro che il declinante impero non può vincere, a parte che per deficitaria base industriale e traballante finanza, per manifesta carenza d’un fattore essenziale: la coesione sociale.
Essa è coscienza di sé come comunità e implica la disponibilità a sacrificarsi per essa. Ergo: un popolo che si identifica nella propria civiltà e per essa è disposto a pagare, alla bisogna a battersi. Condizione sommamente assente alle latitudini europee. Per l’Italia, è illuminante un recente rapporto del CENSIS in cui, fra le tante “perle”, emerge che sono assai pochi gli italiani propensi a combattere se chiamati a farlo (il 16%); molti di più quelli che diserterebbero o preferirebbero affidare la faccenda a mercenari. Antico vizio italico che si riaffaccia, dimostrando che i singoli non si riconoscono in una comunità. A dubbia consolazione il fatto che gli USA non stanno affatto meglio, irriducibilmente spaccati al proprio interno fra fronti contrapposti irriducibilmente avversi, come solo chi si sente depositario della verità riesce a fare.
È esatto opposto di ciò che è avvenuto e avviene in Russia, in Iran e che, a ogni evidenza, avverrebbe in Cina. A pensarci, è stupefacente come l’Occidente resti cocciutamente prigioniero della propria narrazione, anche quando i fatti la rivelano del tutto bugiarda: ieri ha favoleggiato d’un cambio di regime a Mosca sulla spinta popolare mossa dalle sanzioni, ottenendo invece il compattamento della popolazione attorno alla bandiera; medesimo risultato riscosso col proditorio attacco all’Iran del giugno scorso e che otterrebbe in Cina. Sta già accadendo.
E già che ci siamo, sfatiamo ancora una volta l’eterno mito che vuole l’America invincibile grazie al suo PIL, il più bugiardo degli indicatori: è abbaglio tipico dell’Occidente aduso a misurare sé e gli altri con esclusivo metro economicista. A parte le lezioni della Storia (oggi anche della cronaca) e infiniti libri e saggi, fra tutti basta Emmanuel Todd nel suo “La sconfitta dell’Occidente”, quando evidenzia che gli USA sono un’oligarchia dipendente dall’estero, che regna su una società in avanzata disgregazione; può rapinare tutti i soldi che vuole, all’esterno come all’interno del paese, ma questo non allungherà il suo dominio perché, se esistono nazioni senza impero, non esiste impero senza una nazione che lo sostenga, senza una società coesa che ne regga le fondamenta.
E, francamente, al di là delle dimostrazioni pratiche che sono già sotto gli occhi di tutti, è comunque assai difficile immaginare coesione nella patria del neoliberismo, dove i cittadini sono trattati – meglio, spremuti - come consumatori, al massimo da spendibili risorse umane, e le istituzioni gestite come S.p.A. di cui il governo è un Consiglio d’Amministrazione guidato da interessi altri. E per inciso: è discorso che vale anche – direi in particolare – per Israele, fratello minore dell’Egemone, per mille – assai complesse – ragioni capace di manipolarlo: è frantumato, sovra esteso e privo di strategia compiuta che non sia un delirio d’onnipotenza. La nevrotica, caricaturale copia degli USA odierni.
Altro motivo che genera e genererà guerre è che lo scontro fra i pesi massimi del pianeta (USA, Russia e Cina), sconvolgendo gli equilibri, stimola potenze medie o aspiranti tali ad ambire a maggior rango nel mondo, con ciò aprendo a conflittualità diffusa che troverà la naturale fine solo con la definizione di nuovi equilibri. E questo per l’antica regola che vuole ogni spazio lasciato da qualcuno immediatamente occupato da altri, col seguito di ovvie ostilità fra concorrenti. E di spazio, piaccia o no a Washington, la decomposizione dell’unipolarismo ne sta lasciando tanto.
Dunque, è una stagione di conflitti quella che aspetta l’umanità, ma il pericolo maggiore per essa non viene dal semplice proliferare delle guerre, quanto dal fatto che esse stanno progressivamente esaurendo l’Egemone, mostrandogli che non può vincere e spalancandogli la prospettiva di una sconfitta definitiva e, con quella, di una pubblica e non più manipolabile abdicazione al ruolo. Per gli USA e i suoi apparati, accettarlo è una contraddizione in termini, ossimoro insostenibile perché negazione della loro essenza che implicherebbe la fortissima tentazione di giocare il tutto per tutto in uno scontro frontale spinto alle estreme conseguenze.
Sono già in molti, a Washington come al Pentagono, che chiedono di rompere gli indugi e fare guerra alla Cina prima che il suo costante rafforzamento lo renda impossibile. In realtà, a mente lucida e occhio scevro da condizionamento, impossibile lo è già: ammessa – ma per nulla concessa – una vittoria, le conseguenze dello scontro fra titani distruggerebbero il mondo come lo conosciamo, e non solo per un eventuale conflitto nucleare ma per il tracollo che avrebbe l’economia globale a seguito del cozzo fra la prima potenza manifatturiera e la prima potenza (almeno a oggi, domani non si sa) finanziaria.
È dunque inevitabile un conflitto su scala globale? È possibile, sì, ma non inevitabile. E non per scrupoli o mancanza di volontà da parte dell’Egemone e dei suoi accoliti, israeliani in testa, ma per la pazienza strategica di coloro che gli si contrappongono, coscienti che il tempo lavora per loro. Russia, Cina, anche l’Iran, sono consapevoli della situazione e si attengono ai loro programmi senza farsi sviare. Coordinandosi in un fronte comune reso sempre più coeso – e numeroso – dall’arroganza altrui. Paradigmatico è l’esempio di Israele che, in un crescendo di aggressioni, dopo essersi auto-emarginato sta finendo per esaurirsi senza conseguire alcun risultato decisivo.
È quella che si definisce la strategia della rana: lasciar cuocere l’avversario a fuoco lento, evitando strappi che precipitino gli eventi. Non è certo che funzioni fino in fondo ma sta guadagnando tempo; tempo, mentre l’Egemone si indebolisce in interminabili conflitti e i suoi competitor si rafforzano. Con ciò allontanando lo scoppio di una guerra mondiale. Nel frattempo, un nuovo ordine mondiale policentrico sta emergendo.