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Perché coltivare una cultura auto-denigratoria?

di Francesco Lamendola - 23/04/2019

Perché coltivare una cultura auto-denigratoria?

Fonte: Accademia nuova Italia

Eppure, come si usa dire, non ce l’ha ordinato il medico: perché dunque costringiamo i nostri giovani, fin dai banchi di scuola, a studiare una storia d’Italia che è denigratoria nei confronti del popolo italiano e che si caratterizza in senso spiccatamente anti-nazionale? Una storia che è lesiva dell’onore e della dignità nazionali, mentre le celebrazioni e le tirate d’ammirazione nei confronti di altri Paesi e altri popoli si sprecano? La risposta sembrerebbe facile: per la stessa ragione per cui il cinema italiano ha sempre coltivato – sempre, intendiamo dire, dal 1945 – una visione caricaturale degli italiani, e specialmente delle nostre forze armate: la versione del “tutti a casa”, dell’8 settembre 1943 come forma mentis dell’italiano e come vocazione naturale del soldato italiano; e cioè per compiacere i nostri benefattori e liberatori, gli Alleati anglo-americani e, in minor misura, anche tutti gli altri: tutti quelli che ci hanno generosamente aiutato, e sia pure a suon di bombe, stupri e guerra civile, a liberarci da quella orribile pestilenza che è stato il fascismo. Eppure, forse questa spiegazione non è del tutto sufficiente. Dopotutto, son passati più di settant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale; tedeschi e giapponesi hanno smesso da un pezzo di auto-flagellarsi, anche se crimini di guerra, le loro forze armate e le loro polizie politiche, ne hanno perpetrati ben più delle nostre. Allora, una eterna tendenza all’auto-disprezzo, che il popolo italiano cova in se stesso da molto prima che il fascismo cadesse in modo poco glorioso, dopo che aveva promesso di far rivivere le glorie dell’Impero Romano? Certo, anche questa è una risposta abbastanza convincente; e tuttavia neppure essa, forse, esaurisce del tutto l’interrogativo. No: più si considera la cosa, e più ci si persuade che, alla base dell’auto-denigrazione sistematica, attuata non solo da scrittori, cantanti e registi, ma anche dagli autori dei libri di testo scolastici e dalla stessa classe insegnante, c’è un nodo ben più profondo e, per certi aspetti, indicibile, nel senso che, se pure qualcuno ne intuisce la presenza, fa bene a tacere e fingere di non aver visto né udito nulla, perché chi mostra di aver visto, udito e soprattutto compreso, rischia l’emarginazione totale dai salotti buoni della cultura e dell’informazione, se non qualcosa di peggio: il licenziamento o la denuncia penale. Proprio come nei regimi totalitari e, in particolare, nell’ex Unione Sovietica. E qual è questo segreto indicibile, che è meglio ignorare e fingere di non vedere e non sapere? Che la classe dirigente italiana, nel suo complesso, e salvo alcune rare eccezioni (Enrico Mattei, per esempio, che si sa come è finito; o il generale Dalla Chiesa) è la stessa che, nel ‘45, è andata al potere sull’onda di una guerra civile che, nelle ultime settimane, si è trasformata in un massacro indiscriminato dei vinti, e di una guerra mondiale vinta dal nemico; e quindi essa è debitrice a quel nemico, divenuto prodigiosamente alleato e liberatore, della propria permanenza nei posti chiave dell’economia, della finanza, della politica, dell’amministrazione pubblica e della cultura. In altre parole, dal 1945 la classe dirigente italiana è divenuta una classe sub-coloniale al servizio del vincitore: ha esercitato per delega il suo potere e fatto i suoi intessi, non quelli della nazione. Il grado di servilismo che i nostri politici, specialmente di sinistra, hanno mostrato anche recentemente nei confronti dei poteri stranieri – la grande finanza di Soros, la BCE, la Francia di Macron, gli USA e soprattutto Israele - ha una ragione precisa: esistono grazie alla benevolenza di quei poteri; dunque, guai a offenderli. Più che custodi dell’interesse nazionale, essi sono i cani da guardia di poteri stranieri le cui politiche ed interessi sono, sovente, contrari ai nostri. In quale Paese ove esista un minimo di fierezza nazionale, un partito di opposizione scrive una lettera di scuse ad un governo straniero che ha insultato pesantemente l’Italia e il suo governo, legittimamente eletto? Eppure, anche questo obbrobrio abbiamo dovuto vedere, ad opera del vertice del Pd, nei confronti del signorino Macron. Solo se si tiene conto di questa dipendenza fisiologica si capisce perché i nostri governi hanno sempre ceduto alle richiese e alle prepotenze dei Paesi cosiddetti amici e alleati. Non potrebbero fare diversamente, perché una vera base popolare non ce l’hanno. O servire quei poteri, o lasciare le amate poltrone.

E ora, ci sia permesso illustrare il nostro discorso facendo ricorso a due casi esemplari, uno degli ultimissimi anni in cui l’Italia è stata uno Stato indipendente e sovrano, il 1940; l’altro della tarda Repubblica di Pulcinella, quella, per intenderci, uscita dalla disfatta militare, dal sangue della guerra civile (a lungo dissimulato dietro fiumi di retorica) e del servilismo della nostra classe dirigente nei confronti dei poteri stranieri.
Orazio Pedrazzi (Travo, Piacenza, 11 agosto 1889-Firenze, 6 ottobre 1962), giornalista e scrittore ai suoi tempi assai noto e oggi, significativamente, pressoché obliato, nonché capoufficio stampa di D’Annunzio a Fiume, poi deputato al parlamento, console e ambasciatore di Sua Maestà Vittorio Emanuele III, autore di libri come Dalla Cirenaica all’Egeo, La conquista della Libia, L’Alto Adige e i Tedeschi, La Dalmazia e gli Slavi del Sud, La nazione Ceca, L’Italia e l’Oriente mediterraneo, Castelli di Boemia e di Moravia, Spagna di Dio, La stella solitaria, Italiani nel mondo, Terra di Dio, riporta questo fatto realmente accaduto (da: O. Pedrazzi, Racconti dell’Italia lontana, Torino, S.E.I., 1940):

Era un fanciullo silenzioso, solitario, che giocava poco e rifletteva molto, come fosse già stato un grande. Aveva pochi amici e leggeva assai, tutti lo consideravano come uno che aveva voglia di lavorare sul serio e lo stimavano. Il giorno in cui alla scuola italiana dove era andato per iscriversi, gli dissero che i posti erano al completo e che bisognava rivolgersi altrove, il silenzioso fanciullo aveva dato la stura a tutta la sua eloquenza e si era messo a pregare con caldo fervore per essere accettato; se appena fosse stato possibile lo avrebbero accontentato volentieri. Ma non era possibile; il siciliano scese le scale della scuola lacrimando senza dire più niente e fu anche lui del branco che pochi giorni dopo dovettero sedere sui banchi più comodi, ma tanto poco amati, delle scuole straniere.
Divenne più silenzioso che mai; rispondeva il puro necessario ai compagni ed ai maestri, come avesse voluto adoperare il minor numero possibile di parole francesi; la sua faccia aveva delle strane contrazioni ogni volta che il professore di storia e geografia capitava a parlare dell’Italia. Quelle lezioni di storia o di geografia lo facevano immensamente soffrire e quando sentiva l’insegnante parlare degli italiani con ironia o con sarcasmo egli chinava il capo sul libro per non stare attento e per non farsi vincere dalla voglia di prendere per il collo l’antipatico maestro.
Erano passati così alla meglio due mesi, quando un giorno il ragazzotto siciliano arrivò a scuola con un libro sotto il braccio e con un’aria che non prometteva nulla di buono. Un altro italiano vedendolo in quello stato gli domandò che cosa avesse; allora il siciliano gli mostrò il libro che aveva con sé (era il testo di geografia della scuola) ed additandogli una pagina gli disse: leggi! L’altro lesse; si parlava dell’Italia meridionale: “il paese della miseria e dei briganti!”.
- E noi dobbiamo studiare su questi libri – esclamò il ragazzotto con voce commossa – e dobbiamo imparare queste porcherie a danno del nostro Paese!
- Ed ora che farai?
- Lo vedrai!
Cominciava proprio in quel momento la lezione di geografia; gli scolari avevano preso posto nei loro banchi ed aspettavano rispettosamente che l’insegnante parlasse. Ma ecco che, prima di lui, il ragazzo siciliano si alza e con voce chiara e forte domanda:
- Signor maestro, voi sapete che nella vostra classe ci sono molti italiani? – Tutta la scolaresca si volò a guardare meravigliata l’audace compagno, mentre il maestro rispondeva con aria stupefatta: - Sicuro!
- Ed allora - continuò imperterrito il fanciullo – come vi permettete di farci studiare su un libro come questo? Tenetevelo! – e nel così dire lo scolaro lanciò il libro di geografia sulla testa dell’insegnante, che al colmo della sorpresa e della indignazione urlava:
- Andate fuori di scuola! Andate via!
- Certo – aggiunse calmo lo scolaro – perché sono Italiano e mi vergognerei di restar qui un  minuto di più.
Successe un putiferio. Lo scolaro siciliano fu espulso da tutte le scuole francesi, i giornali parlarono dell’incidente ed il libro di testo fu cambiato. Poche settimane dopo il ragazzo siciliano si imbarcava per la Sicilia. I suoi genitori lo mandarono a continuare gli studi a Messina. Egli tornava alla cara terra della sua gente, alla visione meravigliosa dello stretto, a quel paese “della miseria e dei briganti” dove vive in mezzo ai fiori sotto il bacio del sole e carezzato dalla brezza del mare Mediterraneo il popolo più buono, bravo e generoso che possa vantare la terra.

Il secondo esempio è di una ventina d’anni fa, il 1991. Si tratta di un romanzo per ragazzi di un certo Alki Zei, Storia di Petros, tradotto in varie lingue, che narra le avventure e il duro apprendistato alla vita di un ragazzo greco, durante il periodo dell’occupazione italiana e tedesca della sua patria, durante la Seconda guerra mondiale. Quel libro è stato tradotto anche in Italia, da una prestigiosa casa editrice, la Mondadori, e inserito in catalogo all’interno di una nota collana di libri per la gioventù, quelli che abitualmente vengono adottati nelle scuole medie, o nel biennio delle superiore, e coi quali i professori cercano di stimolare nei loro giovani allievi il gusto per le buone letture. Ebbene, in quel libro due personaggi, di nazionalità greca, a un certo punto stanno parlando delle nostre forze d’occupazione, e uno dei due se ne viene fuori con questa espressione: quei coglioni degli italiani. A parte la parolaccia, forse non proprio idonea alla formazione di un giovane lettore, per di più in ambiente scolastico (ma queste, ormai, sono sottigliezze del galateo delle quali ben pochi adulti si preoccupano, professori compresi), l’espressione è estremamente ingiuriosa per le nostre forze armate e per il popolo italiano nel suo complesso. L’Italia ha lasciato parecchie migliaia di morti in quella terra, nel periodo 1940-1941; il nostro esercito si è battuto valorosamente, come valorosamente si è battuto quello greco, e siamo ben disposti a riconoscerlo: non riteniamo lecito accettare un tale insulto alla memoria dei nostri soldati, i quali, fra le altre cose, e per unanime testimonianza dei greci stessi, si comportarono assai umanamente verso la popolazione civile, a differenza dei loro camerati tedeschi. Vi furono alpini, fanti e marinai italiani che giunsero a togliersi il pane di bocca per darlo ai bambini greci, mentre una fierissima carestia riduceva quel popolo quasi alla totale prostrazione. A quanto ci risulta, nessuno scrittore italiano ha mai adoperati espressioni ingiuriose per i soldati e per i popoli che combatterono contro l’Italia nel corso della Seconda guerra mondiale: greci, russi, francesi, britannici, americani, eccetera. Se, per ipotesi, qualcuno lo avesse fatto, noi saremmo i primi a comprendere che un tale romanzo, presso quel popolo, non meriterebbe di trovare una casa editrice disposta a tradurlo, né un professore, o comunque un adulto, intenzionato a farlo leggere. Ma nell’Italia di oggi, questo avviene e nessuno registra l’anomalia: si vada in rete e si controlli se mai qualcuno ha protestato per quella frase contenuta in quel libro, il quale, al contrario, ha ricevuto una buona accoglienza nel nostro Paese. Il fatto è che la nostra classe dirigente persegue la politica dell’auto-mortificazione nazionale: nulla di più normale, da noi, che mettere in commercio un libro straniero che insulta gli italiani – e potremmo fare tanti altri esempi; ma le cose non vanno in questo modo nei maggiori Paesi stranieri. Come minimo, una nota fuori testo avrebbe dovuto spiegare ai giovani lettori italiani che quella frase è sbagliata, oltraggiosa e immeritata: perché gli italiani, in Grecia - indipendentemente dal giudizio che si vuol dare di quella campagna militare – furono valorosi in guerra e generosi dopo la vittoria, cioè nei due anni abbondanti dell’occupazione militare di quel Paese.
E ora si confronti questo episodio con il brano scritto da Orazio Pedrazzi in Racconti dell’Italia lontana. Quel libro era destinato, esso pure, ai giovani lettori: ma il suo scopo era quello d’instillare in essi una giusta fierezza della propria nazionalità. Perché questa è ancora oggi la linea seguita da americani, britannici, francesi, eccetera: noi soltanto perseveriamo nel pessimo vizio dell’auto-disprezzo. Il fatto è che, oggi, l’ininterrotta egemonia culturale della sinistra è stata tale, che anche solo accennare un discorso come quello che stiamo facendo fa venire la bile a tutto l’establishment politicamente corretto; e subito decine d’intellettuali progressisti, pacifisti, umanitari, buonisti, immigrazionisti e, naturalmente, antifascisti, insorgeranno, strepitando: Come, come? Si vuol dunque far risorgere l’esecrabile nazionalismo? Ma non sapete, non ricordate più che il nazionalismo è l’anticamera del fascismo? Vogliano dunque consentire il ritorno del fascismo?