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Perché siamo diventati così?

di Francesco Lamendola - 30/10/2019

Perché siamo diventati così?

Fonte: Accademia nuova Italia

L’Italia, e in generale l’Europa – ma l’Italia più di altri Paesi – è in pieno declino demografico: cosa che consente ai politici di sinistra, con perfetto rigore logico e impeccabile consequenzialità, di predicare la necessità, anzi, l’immeritata fortuna di poter disporre di larghe masse d’immigrati di ogni provenienza, ma specialmente africani islamici. Lasciamo stare, per ora, questo aspetto del problema; e rimandiamo ad altro tempo anche la discussione sulle ragioni del saldo negativo del nostro andamento demografico. Concentriamoci su ciò che esiste e non su ciò che non esiste, sui figli che non si vogliono fare, sugli aborti che non diminuiscono affatto come a suo tempo ci era stato promesso e garantito, sul crollo dei matrimoni, anche civili (ad eccezione, chi lo sa il perché, di quelli omosessuali), e sulla precarizzazione sempre più accentuata delle relazioni di coppia. Puntiamo l’attenzione sugli italiani che ci sono e non su quelli che potrebbero esserci, ma non ci sono, mancano all’appello per una ragione o per l’altra, tradendo il tacito patto generazionale per cui ogni generazione ha finora sempre lasciato un numero sufficiente di eredi per raccogliere il testimonio della famiglia, del lavoro, dei valori e della civiltà costruita nel corso dei secoli e dei millenni. Lasciamo stare anche i bambini, che meritano un discorso a parte, e i vecchi, i quali, poveracci, fra poco si vedranno negato non solo il diritto di voto, ma anche il diritto di esistere (non però di essere nominati presidenti della Repubblica o senatori a vita…), e saranno invitati con discrezione, ma anche con fermezza, a fare in modo di non gravare più a lungo sulle casse statali del fondo pensioni, magari togliendosi spontaneamente dalle spese e risparmiando a figli e parenti vari il fastidio e la spesa di occuparsi di loro o di pagare la casa di riposo o una badante per assisterli. Concentriamo la nostra attenzione sugli italiani giovani o relativamente giovani (il concetto di giovinezza si è prolungato alquanto negli ultimi anni), fra i venti e i quarant’anni, o anche fino ai cinquanta, dato che un uomo o una donna di cinquant’anni, oggi, se seguono la dieta, vanno regolarmente in palestra, si vestono alla moda, vanno dal parrucchiere ogni settimana e magari si fanno qualche lampada fuori stagione, possono fare invidia ai loro coetanei di qualche decennio fa, nonché ai loro figli del dì presente. Ma anche i ventenni, i venticinquenni, i trentenni, senza alcun dubbio, fanno la loro egregia figura a paragone dei loro padri, quando avevano la stessa età: basta confrontarli con le foto di famiglia per vedere la differenza. I giovani di oggi sono più alti, più ben fatti, vestiti con maggiore ricercatezza, con una più attenta cura per i particolari, dall’orologio da polso alla catenina da portare al collo; il taglio dei capelli  impeccabile e inossidabile (vedi il premier attuale, Giuseppe Conte), e non si notano ridicoli artifici come le ciglia finte o i nei finti delle ragazze degli anni ’60 e ’70. Inoltre sono pieni di bellissimi e originalissimi (sic) tatuaggi, che fanno capolino da ogni apertura possibile delle vesti, emergono dalla camicia e attraversano tutto il collo, ricoprono interamente braccia e mani, per non parlare delle spalle, delle gambe, dei polpacci, dei piedi, e naturalmente del petto, della schiena e del ventre: zone, queste ultime, che si possono ammirare soprattutto d’estate, col vantaggio del caldo e degli abiti particolarmente succinti e che conferiscono uno straordinario alone di mistero, di segreto, di riservatezza, tali da colpire e intrigare profondamente il prossimo e da suscitare mille domande, mille curiosità e mille desideri, come è giusto che sia nei confronti di chi si presenta in modo assolutamente speciale e diverso da tutti gli altri, mostrando una sua spiccata personalità e una forte indipendenza di giudizio, indifferente a ogni moda e insensibile al richiamo di qualunque conformismo.

E dove li andiamo a osservare queste italiane e questi italiani giovani, belli, palestrati, abbronzati, acconciati, agghindati, lustrati, lucidati e tatuati? Ma nei centri commerciali, naturalmente. E quando? In qualsiasi ora e giorno della settimana, si capisce; ma con una netta preferenza per la domenica mattina, beninteso sul tardi (dopo aver smaltito la serata, si fa per dire, del sabato) quando, finalmente liberi dal tran-tran lavorativo e soprattutto dalle noiose incombenze religiose che ancora i loro nonni si ostinano a praticare, come se la società fosse rimasta ferma all’età della pietra, sfilano avanti e indietro, in su e in giù, passeggiano, cazzeggiano, ammirano (non solo le vetrine) e sono ammirati, si pavoneggiano, chiacchierano, spendono e spandono (anche il poco che hanno…), fanno salotto, si esibiscono (e intanto si negano), civettano, ancheggiano, sculettano, occhieggiano, ammiccano, spettegolano, ridacchiano, sorbiscono il gelato, sgranocchiano le patatine o i pop-corn, masticano e ruminano la gomma americana, insomma offrono un meraviglioso spaccato sociologico e un inesauribile campionario umano, dalla studentessa liceale ai primi rossori (?), al ragioniere di mezza età, il quale, novello Aschenbach di Morte a Venezia, vuol sembrare più giovane di suo nipote, anche a costo di tingersi i capelli o ricorrere al parrucchino: un campionario che si offre in tutta la sua freschezza e spontaneità a chi abbia tempo e voglia di ammirarlo. Il tutto all’insegna della sobrietà, del buon gusto, del pudore, della più raffinata discrezione, non è vero? Niente di troppo vistoso, di troppo invasivo; niente di pacchiano, di grossolano; e, soprattutto, niente che impedisca alla vera personalità di ciascuno di apparire e di rifulgere in tutta la sua smagliante autenticità e nella sua irripetibile singolarità. Come vogliono i meravigliosi tempi dell’individualismo di massa che stiamo attraversando: nei quali ciascuno pretende di far valere e di vedersi riconosciuta dagli altri una clamorosa eccezionalità sulla base di non so quali meriti speciali ma nessuno è disposto a farlo nei confronti degli altri. Anche perché, oggettivamente, risulterebbe abbastanza complicato, in una società dove si fanno e dicono le stesse cose, ci si veste o ci si sveste allo stesso modo, ci si taglia i capelli e li si tinge alla stessa maniera, ci si fanno persino gli stessi tatuaggi sul corpo, con la stessa farfallina o lo stesso personaggio del cinema, magari sulle stesse parti anatomiche, lasciate negligentemente scoperte secondo un’identica moda, risulterebbe, si diceva, abbastanza complicato distinguere le persone una dall’altra e stabilire cosa sia farina del loro sacco e cosa invece sia pedissequa adozione di stili e modelli di comportamento uniformi e standardizzati.

Questo per ciò che riguarda il modo di porsi verso l’altro, che poi è tutt’uno col bisogno di sentirsi: di sentirsi, si badi, e non di essere, perché per essere bisogna essere qualcosa, il che è un fatto oggettivo, mentre per sentirsi basta immaginare di essere qualcosa, il che attiene alla sfera della pura soggettività. Per quanto riguarda, poi, il modo di comportarsi nei confronti del prossimo, ciò che si nota è una costante, irreversibile perdita della delicatezza, della cortesia, della sensibilità e dell’attenzione verso l’altro, della capacità di ascoltarlo, o anche soltanto della disponibilità a farlo: i rapporti interpersonali sono sempre più caratterizzati da maleducazione, rozzezza, opportunismo, superficialità, e soprattutto da un fondo invincibile di egoismo, per cui si direbbe che la gente trovi cosa naturalissima calpestare gli altri pur di realizzare i propri scopi, o pretendere da essi l’impossibile, salvo essere quanto mai avari del proprio tempo e della propria disponibilità, centellinare il proprio contributo e il proprio impegno, sgattaiolare via quando si tratta di assumersi responsabilità o pagare il conto di errori, facilonerie e astuzie da quattro soldi. Ciò significa che l’amicizia vera, cioè disinteressata, è divenuta una merce rarissima e quasi introvabile; e che i rapporti affettivi e sentimentali sono giunti assai vicino al punto di rottura, sotto la pressione degli opposti egoismi scatenati, alimentati, fin da bambini, dalla compiacenza e dalla debolezza colpevole degli adulti che avrebbero dovuto svolgere una funzione educante. Nella famiglia, i genitori sono sempre più divisi e contrapposti da una logica di difesa del proprio interesse e sempre meno uniti da un senso di condivisione del dovere e del sacrificio, mentre i figli sono sempre più abbandonati a se stessi, al computer e alla televisione, e sempre meno abituati ad assumersi impegni e responsabilità. Nel lavoro, la professionalità è in caduta libera, insieme alla precisione, alla puntualità, allo scrupolo deontologico. Nei condomini, nei quartieri, il civismo e le norme di buon vicinato sono pressoché scomparsi e ciascuno si regola come crede, anche calpestando le norme più elementari della convivenza e della buona educazione. Nella scuola, gli insegnanti hanno smesso di pretendere rispetto e disciplina e i giovanissimi hanno smesso di averne nei loro riguardi; quanto a contribuire alla formazione del pensiero critico dei bambini e dei ragazzi, si direbbe che ormai la scuola operi semmai nel senso diametralmente opposto. Nella chiesa, un numero crescente di sacerdoti e di vescovi ha smesso di confortare e sostenere i credenti nella fede, per trasformarsi in sociologi, sindacalisti, ecologisti, ambientalisti, e naturalmente fautori a oltranza dell’immigrazione selvaggia spacciata per dovere cristiano. Giudici e magistrati non sembrano più capaci di interpretare il codice a tutela dei cittadini onesti, laboriosi e rispettosi della legge, bensì impegnati a cercare cavilli per mezzo dei quali alleggerire le sanzioni contro i delinquenti. Negli ospedali e presso gli ambulatori della pubblica sanità il rapporto fra medico e paziente si appiattisce sempre di più su una mera somministrazione di farmaci e prescrizione di terapie, senza andare alla radice dei fenomeni degenerativi della salute, cercando di prevenirli con stili di vita adeguati; e, soprattutto, dando sovente l’impressione, come è stato nel caso delle vaccinazioni obbligatorie, che l’interesse prevalente dell’azione sanitaria non sia quello di tutelare il benessere dei cittadini, ma piuttosto di agire in maniera conforme agli interessi delle multinazionali farmaceutiche. Nelle banche, ove i nostri nonni entravano fiduciosi, forti della conoscenza personale con il direttore e certi di mettere in luogo assolutamente sicuro i loro risparmi, ora si entra con un certo qual senso di disagio: si affida il proprio denaro a degli sconosciuti che non si sa bene cosa ne faranno, e non si è del tutto certi che esso non possa andare perduto a causa di meccanismi finanziari colossali e incomprensibili che oltrepassano la capacità di previsione e perfino quella di comprensione del comune mortale. I giornalisti sempre più sono disposti a prostituire la loro penna e la loro intelligenza per condurre una sistematica azione mirante a disinformare e manipolare le menti e le coscienze, invece di fornire al pubblico dei lettori e dei telespettatori un’informazione onesta e spassionata. Gli uomini e le donne delle forze dell’ordine sono presi nella morsa fra una criminalità sempre più aggressiva e una magistratura sempre più politicizzata in senso favorevole a chi viola le norme e calpesta le leggi, secondo la pessima lezione di don Milani, l’obbedienza non è più una virtù, e dei signorini del ’68, è proibito proibire. Infine gli uomini in divisa delle Forze Armate sono sempre più isolati dalla società civile, alla quale una cultura pacifista velleitaria e a senso unico ha dato l’illusione che, per difendere la sicurezza e gli interessi vitali della Patria siano sufficienti le chiacchiere dei diplomatici di professione e le manifestazioni di buona volontà internazionale; mentre vicende come quella dei due marò, catturati in India come malfattori e di fatto imprigionati per un periodo lunghissimo, hanno dato a tutti quei servitori dello Stato l’impressione che, se le cose si mettono male, lo Stato è pronto a scaricarli, lasciandoli in balia di qualunque prepotenza e di qualsiasi arbitrio da parte di nazioni straniere.

A questo punto, non ci si può esimere dal porsi la scomoda domanda: come abbiamo fatto a diventare così? Quando, come e perché abbiamo smesso di seguire le orme dei nostri genitori e dei nostri nonni: persone che avevano una parola sola, e quella era sacra; che avevano un altissimo senso del dovere; che erano capaci di sacrificarsi, sia in famiglia che sul lavoro, con passione e abnegazione formidabili; che per nulla al mondo si sarebbero abbassati a prostituire la loro dignità, accettando compromessi vergognosi, anche se vantaggiosi sul piano personale; che si facevano un vanto di non aver mai messo in tasca un centesimo che non fosse guadagnato onestamente, e che per difendere il loro buon nome erano pronti e disposti ad affrontare qualunque fatica e avversità? Quando e come abbiamo barattato la sostanza delle cose per la mera apparenza e ci siamo fatti seguaci e adoratori del sembrare, dell’abbronzatura, del vestito firmato, del tatuaggio, dell’auto appariscente? Quando e come siamo scivolati nella superficialità, nell’infantilismo, nel capriccio, nel vizio, fino a esser capaci di sfasciare la famiglia, dopo anni di matrimonio e coi figli ancora piccoli, per correr dietro alla prima bellona e al primo fusto che ci ha regalato un sorriso, che ci ha strizzato l’occhio? In breve, che cosa ci è successo? Per rispondere a queste domande, sarebbe necessaria non solo una lunga e approfondita analisi sociologica, psicologica, culturale, morale, ma anche, e prima di tutto, un impietoso esame di coscienza, cosa alla quale non siamo più abituati, o non lo siamo mai stati. I nostri nonni e i nostri genitori sì, erano capaci di farsi l‘esame di coscienza: di porsi davanti al silenzio della propria anima e interrogarsi sulle ragioni dei loro sbagli, delle loro infedeltà, dei loro fallimenti. Ma noi, no. O non ce l’hanno insegnato, o l’abbiamo scordato. E il risultato è questo: siamo alla deriva. Tutte le manifestazioni esterne della crisi, compreso il crollo della natalità e l’invasione straniera contrabbandata da immigrazione, sono conseguenze e non cause. La causa vera è il cancro che ci divora dall’interno: il disamore per noi stessi e in fondo per la vita...