Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Progressismo, transumanesimo e ingegneria sociale

Progressismo, transumanesimo e ingegneria sociale

di Andrea Zhok - 20/08/2022

Progressismo, transumanesimo e ingegneria sociale

Fonte: Andrea Zhok

La ragione liberale è la prospettiva ideologica coniugata con il capitalismo, come sistema di produzione. Ciò che il capitalismo esplicita in termini operativi, la ragione liberale teorizza. L’impianto etico dettato da questa diade è strutturalmente nichilista, non semplicemente in senso privativo, ma in quanto opera attivamente nel produrre disorientamento e sradicamento.
Naturalmente non si tratta di una congiura ai danni dell’umanità né dobbiamo pensare ad una “malvagità connaturata” di questo impianto storico-culturale. Per ragioni storiche che qui non possiamo ripercorrere, la ragione liberale aveva l’esigenza di abbattere il sistema di potere precedente (ancien régime), ed è riuscita a farlo soltanto esautorando idealmente l’autorevolezza di ogni eredità, di ogni natura, di ogni fondamento. Gli aspetti luminosi e quelli oscuri di questo approccio si possono leggere in filigrana nel concetto stesso di “progresso” o “progressismo”, che si impose come nota caratteristica della ragione liberale.
Da un lato, l’idea di un progresso come superamento della barbarie, dell’arretratezza, dell’ottusità conservatrice aveva la sue buone ragioni per emergere tra il XVIII e il XIX secolo. La maturazione di alcune pratiche sociali decisive, in particolare la stampa a caratteri mobili, la metodologia scientifica postgalileiana, e la moderna pratica monetaria (sistema bancario) premevano in modo crescente con le proprie acquisizioni sui saperi e sulle credenze tradizionali. L’emergente borghesia vedeva nell’idea di progresso l’incarnazione immediatamente evidente della giustezza delle nuove idee rispetto alla staticità del vecchio mondo. Molte cose qui sarebbero da dire, ma riducendo ai minimi termini, il punto è che i gruppi sociali che si nutrivano di quelle nuove pratiche sociali diventavano più forti, influenti e ricchi, e tanto bastò a sancire la loro supremazia in quella fase storica. L’intera modernità occidentale è frutto di questo processo e tutti noi ne siamo in qualche misura figli.
Ma accanto a questi elementi, che sancivano una sorta di necessità storica, bisogna osservare come sul piano teorico, come ideologia a supporto di questa visione si venne ad imporre una concezione radicalmente relativistica e nichilistica. La ragione liberale si configurò come ideologia del “progresso”. In prima battuta, nell’immagine che abbiamo del “progredire”, il percorso precedente appare come terreno conquistato una volta per tutte, cui vanno aggiunte nuove conquiste. Questa concezione si attaglia bene all’idea di sviluppo storico di Hegel, dove il superamento CONSERVA IL PASSATO. Ma il “progressismo” divenne gradatamente un’ideologia per cui il mero superamento del dato veniva di per sé concepito come positivo, come garanzia di bontà.
Avendo la ragione liberale rinunciato ad ogni teoria positiva del valore e del senso (delegati all’interiorità privata), il movimento “progrediente” finì per perdere il tratto indispensabile per poter parlare di un “meglio” o di un “più”, cioè la preservazione del percorso precedente e delle sue acquisizioni.
Il “progressismo”, a partire dalla seconda metà dell’800 perde completamente di vista la dimensione della preservazione del passato e inizia a svilupparsi in direzione di un “nuovismo” degenerativo, dove il semplice fatto di essere nuovo rispetto al vecchio diviene accredito di valore. A questo punto il progresso distrugge il pregresso: il “progressismo” diviene un’ideologia di sistematico annullamento delle acquisizioni passate, a favore di un “nuovo” purchessia, l'accelerazione nel mutamento diviene il bene.
È facile vedere come questa prospettiva si attagli bene ai movimenti del capitale, che non conosce nulla di sacro e nulla di stabile, che anzi deve liberarsi da ogni ancoramento, e che ha semplicemente bisogno di volta in volta di una nuova “moda” che alimenti i consumi e la propria crescita.
Il capitale (denaro) per definizione non ha un passato storico, perché il proprio potere non dipende dal riconoscimento personale: chi esercita il potere sulla base delle proprie virtù o facoltà deve appellarsi al RICONOSCIMENTO di quanto ha fatto, ma chi esercita il potere sulla base del proprio danaro ha semplicemente bisogno di avere abbastanza denaro, del tutto a prescindere da come se lo sia procurato. Il denaro (capitale) conferisce potere a prescindere dal passato e a prescindere dalle qualità riconosciute di chi lo detenga.
Questa variante – oggi dominante – del progressismo, che potremmo chiamare progressismo nuovista o eliminazionista, divenne prevalente nel positivismo di fine ‘800, e di nuovo a partire dagli anni ’50 del XX secolo, prima negli USA e poi in Europa. Qui il “bene” viene identificato automaticamente con il superamento del vecchio, del dato. Chi si oppone a questo movimento viene immediatamente stigmatizzato come arretrato, nostalgico, reazionario. Essere “aggiornati” (up to date), che si tratti di gadget tecnologici o capi d’abbigliamento o mode politicamente corrette, è ciò che si richiede per essere dalla parte del bene. Mettere ciò in discussione viene letto automaticamente come segno di sanzionabile ottusità.
Questo atteggiamento potrebbe far sorridere per la sua superficialità, se non fosse che tale superficialità è coniugata con la più potente forza della contemporaneità ovvero il capitale. Così come il capitale, per svilupparsi liberamente, esige la rottura di ogni radicamento e di ogni vincolo non negoziabile, così l’impianto del progressismo nuovista (o eliminazionista) edifica un’etica della cancellazione del passato in ogni sua forma.
Di ciò fa parte naturalmente ciò che è venuto agli onori della cronaca come “cultura della cancellazione” (CANCEL CULTURE), con le sue performance di spettacolare imbecillità, ma più gravemente ancora ne fa parte una cultura che assume il medesimo atteggiamento di cancellazione e superamento nei confronti di qualunque ordinamento naturale, percepito istintivamente come un vincolo insopportabile. La cultura “transumanista” occupa un ruolo importante in questa cornice, in quanto esprime la nevrosi costitutiva di un’epoca che non è più affatto in grado di percepire il valore nel dato, nel reale, nel naturale, ma soltanto nell’idea fantasticata del loro superamento. Anche la natura umana, in cui si radicano necessariamente tutte le nostre inclinazioni morali e tutte le nostre posizioni di valore, viene concepita come qualcosa di infinitamente manipolabile, adattabile, superabile. Che ciò tolga da sotto i piedi ogni criterio di bene e male non viene percepito come un problema, visto che la ragione liberale ha dall’inizio tolto il bene e il male dal piano dei contenuti obiettivi.
Sul piano culturale e teorico è abbastanza semplice mostrare l’insostenibilità strutturale del progressismo eliminazionista in tutte le sue varianti, tuttavia tale concezione è e resta il terreno ideologico prediletto dei ceti che cavalcano le spinte del capitale, e questo vi conferisce una sorta di egemonia epocale. Il movimento del capitale è la tendenza di un potere di principio di accrescersi indefinitamente. Chi progetta la propria esistenza sulla scorta dell’idea “pre- (o post-) umana” di accrescimento indefinito non può che nuotare come un pesce nell’acqua in tutte le concezioni che vagheggiano il perenne superamento, il perenne al di là, l’oltre, il di più, in quanto tali.
Questi soggetti abbracciano con pari entusiasmo progetti di ingegneria sociale o di ingegneria genetica, ed essendo organicamente privi di ogni riferimento valoriale diverso dal “nuovo” e dall’“oltre” non sono neppure in grado di percepire gli aspetti distruttivi e degenerativi di ciò che propongono.
Su questo piano la nostra epoca sta assistendo ad una vera e propria contrapposizione antropologica, irriducibile. Questa contrapposizione oggi è diventata politica.
Da un lato troviamo chi sostiene una spinta strutturalmente eliminativa delle eredità storiche e naturali, percepite come fardelli di cui liberarsi, e dall’altro chi resiste a tale spinta in quanto percepisce storia e natura come fonti primarie di valore.
Dagli esiti di questo confronto culturale e politico, che ha anche un fondamentale aspetto geopolitico, dipenderà la direzione dell'umanità futura.