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Qual è la strada maestra?

di Francesco Lamendola - 23/09/2018

Qual è la strada maestra?

Fonte: Accademia nuova Italia




È importante trovare la strada maestra, perché è quella che ci porta a destinazione, senza fallo; o, quanto meno, è quella che ci pone nella direzione giusta per arrivarci. Vi sono molte persone che, nell’intero arco della loro esistenza, hanno battuto sempre e solo strade traverse, strade secondarie: hanno zigzagato per tutta la vita, sbandando di qua e di là, senza mai porre il piede sulla strada maestra; e hanno scambiato quei viottoli di campagna, incerti, inconcludenti, polverosi d’estate e fangosi e sdrucciolevoli d’inverno, per le sole strade che esistono. Non hanno mai fatto l’esperienza di camminare lungo la strada maestra, di muovere i loro passi sul terreno solido della strada principale, lunga, diritta, sicura, fiancheggiata da due file di alberi imponenti e fronzuti, come fra due quinte di archi trionfali. Non hanno neanche mai visto la strada maestra, e forse non immaginano neppure che esista; oppure ne hanno sentito parlare, qualche volta, ma non credono che esista davvero: pensano che siano solo storie per vecchiette credulone. Conoscono solo le strade secondarie, i sentieri e i viottoli campestri, malagevoli e pieni di buche, che diventano ampie pozzanghere dopo ogni piovasco; non conoscono altro, se non i boschi impenetrabili e le paludi insidiose, popolati gli uni e le altre di animali pericolosi, che costeggiano le strade, e che è meglio evitare.
Ora, non solo molte persone sono pressoché prive della nozione di strada maestra, ma anche di quella di orientamento; e ne sono prive perché ignorano il senso del viaggio della nostra esistenza. Conoscono, sì, i viaggi e il viaggiare, ma non il viaggio; non pensano, né mai hanno sospettato, che la vita sia, in se stessa, un viaggio: e che pertanto sia necessario possedere l’orientamento, senza il quale non si giungerà mai alla meta. Questo dis-orientamento è uno degli aspetti più tipici di quella anti-civiltà che è la modernità. L’uomo moderno, in quanto moderno, cioè in quanto si riconosce e si identifica nella modernità (e non in quanto si trova, suo malgrado, scaraventato in essa e costretto a viverci, ma impegnato a lottare per conservare la propria umanità), non pensa che la vita sia un viaggio, ma che sia fatta di viaggi: per andare dove, non lo sa, non se lo chiede, oppure pensa che sia per piacere: per cercare ciò che gli piace e per allontanarsi da ciò che non gli piace. I suoi viaggi, pertanto, si riducono a inseguimenti dei propri desideri – ricordate l’uomo come essere desiderante nell’Orlando furioso di Ariosto? – o come fughe dalle proprie paure e dalle proprie responsabilità. Il divorzio, l’aborto l’eutanasia, per esempio, sono fughe dalle responsabilità: della vita coniugale, della maternità (e della paternità), da malattie dolorose e incurabili. Ma anche le relazioni brevi, i lavori interrotti, la rottura frequente delle amicizie, sono indici di una mentalità orientata verso la fuga, e quindi verso il viaggio come allontanamento dai doveri e dalle cose impegnative, che fanno paura, perché richiedono coraggio e perseveranza. A volte la fuga è una fuga in avanti: si va incontro, compulsivamente, ossessivamente, a ciò che spaventa, ma per esorcizzare la paura, non per affrontarla razionalmente: gli sport estremi ne sono un buon esempio. Gettarsi dall’aereo a tremila metri d’altezza e aspettare ad aprire il paracadute il più a lungo possibile, fino all’ultimo istante, fino al limite estremo del pericolo mortale, per assaporare la sensazione del precipitare e immaginare il proprio sfracellarsi al suolo: non è questa una fuga dalla paura della morte, della morte che attende ogni essere umano, giocando con il rischio sulla soglia estrema di esso, quasi per sentirsi liberi, totalmente liberi di vivere o morire, infrangendo il tabù di una morte che appartiene non a noi, ma al caso, o al destino, o forse a Dio, per riprendercela, e ricordare a noi stessi che possiamo spezzarne l’esile filo in qualsiasi momento, oltretutto strappando al nostro istinto di conservazione, per contrasto, delle sensazioni fortissime, delle emozioni irripetibili, e così farci beffa di quella arcana paura?
Inseguire i propri desideri, fuggire dai propri terrori: la somma di questi opposti movimenti è zero; e il risultato è un movimento convulso, a strappi, fatto di corse in avanti e all’indietro, o di corse in circolo, di ritorni al punto di partenza: senza un arricchimento, senza un approfondimento, senza un salto di qualità che renda utile l’esperienza del viaggio e che accresca o perfezioni il bagaglio della saggezza di vita individuale. Ci si muove, ma senza crescere; ci si sposta, ma senza imparare; ci si agita, ci si dibatte, e si resta identici a se stessi. La vita, invece, è doveroso cambiamento, nel senso di approfondimento e perfezionamento: per questo ci è data, e non per altro: per crescere e imparare. Non c’è nulla di più triste che assistere allo spettacolo di vite che ripetono sempre gli stessi movimenti scomposti, che reiterano gli stessi errori, che non capiscono e non imparano mai nulla: cioè che ai desideri si deve comandare, e non esserne schiavi, e che le paure vanno affrontate, ma non in contesti ridicolmente artificiali, bensì nel vivo delle situazioni esistenziali, mano a mano che si presentano. Sono vite sprecate, che ignorano ogni occasione di crescita, che rifiutano ogni possibilità di approfondimento; vite che si sprecano in percorsi sterili, tortuosi, contraddittori, assurdi, sostanzialmente perché ignorano la propria ragion d’essere. Quando si ignora la ragione del proprio esistere, la vita si riduce a una serie di movimenti disordinati e tutti esteriori, senza mai fermarsi a gettare uno sguardo sulla dimensione interiore: la sola che ha qualcosa da insegnare, la sola da cui si può imparare qualcosa. Una vita bene spesa è una vita consapevole di se stessa: con gli occhi e gli orecchi aperti e tutti i sensi desti, per capire chi l’ha chiamata e verso dove deve dirigere i suoi passi.
In fondo, tutto si ridice alla parabola del Paradiso terrestre. Il segreto è capire che la vita ci è data per ritrovare la strada del Paradiso, del quale conserviamo la nostalgia; ma non del Paradiso terrestre, che non ritroveremo mai più, bensì del Paradiso celeste, del quale esso è solo la bellissima, e pur sbiadita e sfuocata immagine. Il Paradiso è Dio. Noi torniamo a Dio, e la vita ci è data per questo. Possiamo  capirlo, e dirigere verso di Lui i nostri passi, accogliendo la luce che ci mostrerà la strada maestra; oppure possiamo ignorarlo, voltargli le spalle: torneremo a Lui ugualmente, ma controvoglia, recalcitrando, perché bramosi di vivere per sempre, ma vivere questa vita materiale che pur deve finire, e senza capire la quale, le cose diventano un inferno. Di fatto, per tornare a Dio bisogna attraversare il deserto, che è il vuoto desolante della storia che rifiuta la grazia di Dio. Nessuno può trovare Dio senza la sua grazia: non è impresa umana, non bastano le forze umane; è impresa divina, e richiede l’aiuto sopranaturale. Questo, a sua volta, viene concesso al ricercatore umile, non al viandante superbo. Il viandante superbo non troverà che sassi e sterpaglia, o sprofonderà nel fango della palude, con tutta la sua superbia, o si perderà nei boschi e verrà divorato dai lupi: i demoni della sua lussuria, della sua superbia e della sua cupidigia. Solo l’anima umile riceverà la grazia, e, con essa, l’orientamento per individuare la strada maestra: da sola, con le sue sole forze, non la troverà mai, perché nessuno l’ha mai trovata da se stesso. La strada maestra viene indicata a quanti se sono degni, ma ciò è un dono divino. Homo viator, dunque, uomo pellegrinante, uomo eternamente pellegrino, in quella valle di lacrime che è la traversata del deserto: la sapienza cristiana lo ha sempre saputo. L’uomo cristiano è un Ulisse che vuole ritornare a casa, ma non portandosi dietro tutto il fardello del proprio uomo vecchio, impastato d’ignoranza e di violenza. La prima cosa che fa Ulisse, tornato a casa, è uccidere i Proci a tradimento: azione non bella, non leale, e forse neppure necessaria; azione che per poco non scatena una guerra civile nell’isola della quale egli è pur sempre il re. L’uomo nuovo cristiano è un Ulisse purificato dagli errori e mondato dalle brame e dagli appetiti disordinati dell’uomo vecchio: il suo primo gesto è il perdono, come il mago Prospero nel La tempesta di Shakespeare; e infatti alcuni critici pensano che Shakespeare, in quell’ultima grande opera che è il suo testamento spirituale, abbia voluto affidare agli uomini il messaggio più intimo del Vangelo: la capacità di perdonare gli altri, per poter perdonare anche se stessi.
Questi concetti, della vita come progresso morale e spirituale, come cammino e come traversata del deserto, e della necessità dell’umiltà per ricevere la grazia divina, senza la quale traversare il deserto è un’impresa impossibile, sono stati bene espressi e sintetizzati dal filosofo Pier Paolo Ottonello nel volume, a lui dedicato nel 20° anniversario di cattedra universitaria, Strade maestre (L’Aquila, Japari Editore, 1995, pp. 145-146):

Difficile orientarsi, difficile progredire: necessario. Necessario intelligere e scegliere il più necessario: distinguendo gradi modi tempi dell’intelligere e dello scegliere, dunque dell’intelligere parziale rispetto al più ampio intelligere e dello scegliere  parziale rispetto al più pieno scegliere. Non ci sono imprese ciclopiche – con le quali si è soliti simbolizzare le civiltà – paragonabili per difficoltà, ossia per necessità, all’attraversamento della storia come attraversamento della propria storia. È il percorso dell’interiorità, che racchiude nel suo dinamismo l’interezza dell’altro dalla mia interiorità: la distanza fra la mia interiorità e l’interezza significante del tutto è la condizione dell’attraversamento, la cui attuazione o dissoluzione è il compito che mi costituisce. Solo attraverso il maestro che ho assunto, in interiorità intera, come perenne discepolo, sono maestro, di me stesso e di chiunque, in quanto percorro interamente il mio tratto della strada maestra quale intelligo e scelgo, in modo sempre nuovo, se progredisco, cioè se obbedisco alla suprema legge del più necessario. La strada maestra è l’attraversamento del deserto. Deserto stipato: di megalopoli, folle, orde, combriccole, indifferenze, miraggi. Si chiamino storia, o civiltà, o nazione, o moda, o funzione, o famiglia, o interesse: uniche oasi il disseminato arcipelago dell’amicizia, raro quanto universale, la cui verzura ha le radici nella fonte dell’amore, alimentate dalle vicende del cielo e del sole. Ma sono oasi che non si incontrano se non entro il viaggio dell’interiorità. Al di fuori, labirinti e paludi, omologati nell’eufemismo infero del “mondo della complessità”, troppo partecipe dei processi di dissoluzione di una carogna e forse non altrettanto fecondo. La discesa infera non irreversibile è solo divina: necessaria per l’interezza del progredire – in altezza latitudine profondità -; al quale niente è dunque tanto necessario quanto la grazia divina. Il deserto è il rifiuto della grazia divina. L’attraversamento è rendere perfetta la nostalgia: il periplo ha intero significato, e insieme è compiuto, come ritorno entro il Paradiso, l’orizzonte del deserto. Ritorno che è avvicinamento che deve identificarsi con l’intero dinamismo e l’intero tempo del percorso stesso: fino alla prima eterna entrata. Se la cultura come tale, quale che ne sia l’ambito storico, non è essenzialmente la peripezia del ritorno come dispiegamento intero del nuovo, del farsi nuovi nel nuovo cielo e nella nuova terra, si riduce ad erramento più o meno sofferente e tortuoso di individui che si muovono entro una essenziale rinunzia a divenire ciò che sono: creature, e dunque niente di meno che templi del Creatore, la cui società deve edificarsi in unità con le schiere angeliche. Dunque la forma più frequente di deserto, “normale” in quanto quotidiana rifrazione della miriade di dissoluzioni della norma costitutiva di ogni essere, che costellano come firmamento di oscurità ogni atto del suo farsi l’essere che è, è l’irrisione della sacertà dell’uomo e del mondo tutto come creature: irrisione e corrosione tanto più monotone e sterili quanto più illuse di variazioni infinite e di intensificazioni progressive. E in questo deserto ci si trova al centro quanto più si procede nel percorso del ritorno; nel quale quanto più si progredisce tanto più ci si ritrova come inizianti, assolutamente bisognosi dell’alimento essenziale: del pane dell’umiltà e del vino della semplicità, non senza l’olio e il sale della saporosa “astuzia”.

La civiltà moderna, purtroppo, o forse dovremmo dire l’anti-civiltà moderna, è la più lontana di tutte dal riconoscere la natura del viaggio, di quel viaggio sacro che è la vita umana, del ritorno della creatura al suo Creatore: viaggio nel quale essa si realizza, si nobilita, si purifica, perché senza purificazione nessuno è degno di tornare a Dio; nessuno può presentarsi al cospetto di Dio carico dei vizi e delle brame dell’uomo vecchio. Ma se non è un viaggio per tornare a Dio, che razza di viaggio sarà mai la vita umana? Non sarà altro che un incubo, un vagare a casaccio in un inferno popolato di spettri e di demoni, di rimpianti e di rimorsi, lastricato di passioni brucianti, di cocenti illusioni e delusioni, d’irrefrenabili impulsi che non generano mai la serenità e la pace, ma il montare di sempre nuove brame e sempre nuovi impulsi. L’inferno sulla terra è il dramma della storia chiusa in se stessa, che rifiuta orgogliosamente la grazia di Dio, per affidarsi ai falsi miti del progresso, della ragione, di una libertà male intesa. La liberazione da questo inferno è, tuttavia, sempre possibile, perché noi non siamo schiavi della storia, se non lo vogliamo. C’è Qualcuno che ci ha aperto la via e ci ha indicato la Strada Maestra; c’è Uno che ci ha invitato a prendere la nostra croce e a seguirlo, assicurandoci che il suo giogo è soave e il suo carico è leggero (cfr. Mt 11, 30)…