Quando e perchè la sinistra è diventata progressista
di Antonio Catalano - 03/06/2025
Fonte: Antonio Catalano
Quella che oggi va sotto il nome di sinistra non è altro che il campo cosiddetto progressista, centro sinistra o campo largo che sia. La parola “progressisti” fece la sua apparizione come simbolo elettorale nel 1994, quando una serie di partiti si misero insieme per formare l’Alleanza dei Progressisti. Alleanza formata da:
- Alleanza Democratica (laici-riformisti), guidata da Willer Bordon
- Cristiano Sociali (ala sinistra cattolica), guidata da Pierre Carniti
- Federazione dei Verdi (ambientalisti), guidati da Carlo Ripa di Meana
- La Rete (partito anti-mafia e legalitario), guidato da Leoluca Orlando.
- Partito della Rifondazione Comunista, guidato da Fausto Bertinotti
- Partito Democratico della Sinistra, guidato da Achille Occhetto
- Partito Socialista Italiano (quel che rimaneva del Psi di Craxi), guidato da Ottaviano del Turco
- Rinascita Socialista, guidata Enzo Mattina
Dopo la batosta della “Gioiosa macchina da guerra” (definizione di Occhetto) alle elezioni del marzo 1994, l’Alleanza si sciolse, quel simbolo sparì, ma da allora quell’arco politico (più o meno rinnovato, ultimi i 5 stelle di Conte) si è sempre definito come area progressista.
Ma qui, più che un ragionamento sulla storia di queste forze, vorrei mettere in evidenza, a vantaggio specialmente dei più giovani, in che senso quest’area è progressista. Sarò sintetico.
La fine dei blocchi (1989) scaturisce dall’erompere di un capitalismo che non può più essere ingabbiato dal sistema di regole proprio dello stato sociale. Secondo Margaret Thatcher, primo ministro britannico nel periodo 1979-1990, “non esiste la società, esistono solo gli individui” e non “non c’è alternativa” allo smantellamento dello Stato sociale in Inghilterra… Sulla stessa linea d’onda si muove, nel medesimo periodo, il presidente Usa Ronald Reagan (1981-1989), padrino della famosa “deregulation”. Insomma, era arrivato il momento, anche nel cuore del mondo occidentale, di applicare la lezione neoliberista della “Scuola di Chicago”, i cui cardini sono: deregolamentazione diffusa, privatizzazione, politiche di libero mercato.
Questa tendenza del “nuovo” capitalismo non poteva quindi tollerare la permanenza di uno stato sociale che accompagnasse il cittadino occidentale dalla “culla alla bara”. Sistema sociale che doveva essere assolutamente smantellato: viva il libero mercato, viva il “gioco” della domanda offerta. E anche il lavoro, perciò, doveva essere considerato una variabile dipendente di questa dinamica. Basta quindi col mito del “posto stabile e garantito”.
Dal lato sindacale ci pensò Luciano Lama (segretario generale Cgil), sin nel lontano 1977, a definire “errore concettuale” la tesi del salario come “variabile indipendente” del sistema economico. Un moderno sindacato, sosteneva Lama, non può considerare il lavoro come qualcosa di “rigido”, deve essere il mercato a decidere. Non a caso poi si passò all’eliminazione della Scala mobile (con un’opposizione senza convinzione di sindacato e Pci), ammortizzatore sociale che permetteva di recuperare (in parte) l’erosione del potere d’acquisto del salario dovuto all’inflazione… fino ai Jobs Act del governo Renzi (Pd).
Da questo breve excursus si evince chiaramente che la parte più sensibile alla necessità del cambiamento fu la sinistra, quella incline al “progresso”. Non che la destra fosse per la “conservazione”, ma indubbiamente fu questa sinistra, che abbandonava il terreno della difesa degli interessi delle classi lavoratrici, a rappresentare la migliore interprete dello “spirito del tempo”, della necessità cioè del capitalismo di attrezzarsi per la nuova fase storica, quella del globalismo, di guardare avanti… in nome del progresso.
Non a caso, poi, nel 1998 (governo D’Alema), il senatore a vita Gianni Agnelli, per motivare la sua fiducia, dirà: «Oggi in Italia un governo di sinistra è l’unico che possa fare politiche di destra».
Non fu dunque la sinistra a cambiare il mondo, ma questo a individuare nella sinistra il migliore interprete di quel cambiamento.
Cambiamento che doveva necessariamente passare per la distruzione dello Stato sociale, prima di tutto per le privatizzazioni (smantellamento IRI Prodi…).
Il Sistema Sanitario Nazionale fu aziendalizzato (legge 502/92), la Sanità messa sul mercato, le vecchie Usl (Unità sanitaria locale) diventarono Asl (Azienda sanitaria locale) dotate di personalità giuridica. E oggi possiamo ben dire che il Mercato ha “sistemato” le cose… rendendo profitti immensi agli interessi privati, in particolare ai grandi gruppi finanziari, con un sistema sanitario pubblico ridotto allo stremo e milioni di persone che non riescono più a curarsi.
Ma per questi grandi cambiamenti serviva modificare la legislazione del lavoro, mettere in pratica ciò che tempo prima aveva sostenuto Luciano Lama: il lavoro dipendente non deve, non può essere “rigido”. Deve invece subordinarsi alle necessità di un capitale entrato in una feroce competizione internazionale.
Per smantellare la rigidità del lavoro bisognava flessibilizzare al massimo il rapporto di lavoro, introdurre una miriade di tipologie contrattuali, con una precarietà che diventa la normalità… perché fissarsi sempre sullo stesso lavoro… perché non considerare il bello di essere oggi qui domani chissà… Fanno capolino contratti dai nomi bizzarri: interinale, part time orizzontale verticale misto, job sharing, a chiamata… con il contratto di lavoro a tempo indeterminato sempre più mal visto e comunque sempre più privato delle sue “rigidità” (art. 18…).
E chi meglio di altri poteva “convincere” i lavoratori, la popolazione in generale, che fosse necessario adeguarsi ai nuovi tempi, acquisire una nuova mentalità, assumere un punto di vista moderno e dinamico, aperto ai grandi cambiamenti, insomma farla finità con le idee partorite dal “vecchio mondo” chiuso e statico? La destra politica? Ricordiamoci di Agnelli…
La Sinistra nel suo complesso era il soggetto ideale per compiere questa operazione: sia perché deteneva il controllo (attraverso la cinghia di trasmissione sindacale) delle masse lavoratrici sia perché (da non sottovalutare) educata al mito del progresso, cosa sempre buona e giusta (“noi guardiamo avanti, la destra reazionaria indietro”).
Solo questa sinistra, dunque, emendata ed epurata della “vecchia” mentalità di difesa degli interessi delle classi lavoratrici, poteva convincere che la “rigidità” è il nemico principale da abbattere.
Potrei riportare alla memoria tante situazioni concrete in cui la sinistra progressista si fece interprete di questi grandi cambiamenti in tutti i luoghi di lavoro, nonché nella società. Nella scuola, per esempio, ricordo la feroce aggressività praticata negli anni ’90 dai rappresentanti politici e sindacali progressisti per smantellare la scuola pubblica per costruirne una basata sul “merito” aziendale. Autonomia scolastica, istituti in concorrenza, presidi che diventano dirigenti… fino all’annullamento di qualsiasi percorso formativo a vantaggio delle competenze, e un martellamento pneumatico alla “superata” idea che la scuola deve sapersi misurare con il territorio… il mercato. Per arrivare, negli anni successivi, a un’ideologia che sostituisce del tutto i programmi scolastici, e quelle iniezioni a dosi crescenti di progressismo (caro al globalismo) basato sulla retorica di accoglienza, inclusione, anti razzismo, diritti di genere, ambiente, Agenda 2030…
La conoscenza di questo percorso storico è fondamentale per inquadrare i protagonisti dell’odierno teatro politico. Ecco perché non ha più alcun senso continuare a parlare di sinistra come la si intendeva fino agli anni ’70 del Novecento. E se non ha senso parlare di sinistra non ne ha anche parlare di destra, anche se per quest’ultima il discorso è più semplice, perché, per quanto abbia vissuto anch’essa grandi cambiamenti, il suo percorso è stato meno contradditorio, diciamo pure più lineare.
Per concludere. Questa sinistra è l’espressione di una “modernità” legata alle più spietate leggi del capitale: libertà assoluta, naturalmente dai vecchi pregiudizi, quelli che impediscono di abbracciare il “nuovo che avanza”. Motivo per cui questa sinistra, il progressismo cioè, odia con tutto se stessa chiunque si azzardi a confutare le sue tesi (globaliste) in tema di politica, cultura, morale, antropologia. Ci si può opporre al progresso? Chi lo fa è fascista.