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Razzismo femminista

di Marino Badiale - 11/08/2025

Razzismo femminista

Fonte: Badiale & Tringale

1. Introduzione
Il femminismo è diventato una delle componenti fondamentali del panorama culturale del mondo contemporaneo, ed è largamente sostenuto, nei paesi occidentali, da politica, istituzioni e media. Appare perciò inquietante il fatto che il discorso femminista contemporaneo si configuri in maniera sempre più esplicita come razzismo antimaschile. In Italia ciò è divenuto del tutto manifesto nelle reazioni pubbliche successive all’omicidio di Giulia Cecchettin, quando affermazioni come “tutti gli uomini sono colpevoli”, e simili, sono state diffuse dal sistema mediatico trovando scarsa opposizione. In questo intervento voglio tentare un’analisi di questo razzismo antimaschile, mirata soprattutto a radicare tale formazione ideologica nella realtà della società contemporanea.

2. Razzismo?
Per discutere di “razzismo antimaschile” è ovviamente necessario precisare cosa si intende per “razzismo”, almeno nell’ambito di questo scritto. La definizione che propongo è la seguente. Si ha razzismo quando si compiono due operazioni: in primo luogo si definisce un gruppo umano in termini biologici e, in secondo luogo, ad ogni membro di quel gruppo si attribuiscono caratteristiche negative sul piano culturale in senso lato (cioè sul piano morale, psicologico, comportamentale, relazionale). Con una formula sintetica, razzismo è la trasformazione di determinazioni biologiche in determinazioni culturali negative. Mi sembra che questa definizione sia compatibile con i casi esemplari più noti di razzismo: le persone individuate dal colore della pelle, alle quali vengono attribuite varie caratteristiche culturali negative, oppure gli ebrei nell’ideologia nazista (l’essere ebreo non è di per sé una determinazione biologica, ma il nazismo riteneva lo fosse, e parlava appunto di una “razza ebraica”). Nel senso appena definito, il concetto di “razzismo” include ogni discriminazione su base biologica, quindi anche quello che oggi molti chiamano “sessismo” [1].
Possiamo osservare che chi indaga la realtà umana usando categorie biologiche (il sesso o la razza) prepara il terreno al razzismo, anche se non può ancora essere definito razzista. Il termine razzismo si applica, come si è detto, quando a tale lettura si sovrappone un giudizio di valore. Possiamo allora farci la domanda se il femminismo attuale rientri sotto questa definizione. Mi sembra evidente che la risposta è positiva. In primo luogo, la categoria fondamentale con la quale il femminismo interpreta la realtà umana è una categoria biologica, quella della divisione del genere umano fra maschi e femmine. In secondo luogo, è pure evidente il fatto che il femminismo attuale abbia attuato il secondo passaggio, cioè abbia trasformato la divisione biologica fra maschi e femmine in un giudizio di valore.
Basta infatti ripensare all’affermazione dalla quale siamo partiti, quella cioè che “tutti gli uomini” sono colpevoli dei “delitti relazionali” nei quali un uomo uccide la compagna o l’ex-compagna [2]. Si tratta, come abbiamo scritto all’inizio, di affermazioni che sono divenute sempre più comuni dopo l’omicidio Cecchettin. È molto facile rendersi conto che essa ricade sotto la definizione di “razzismo” sopra indicata. Infatti parlare di “tutti gli uomini” significa appunto definire un gruppo umano attraverso una determinazione biologica (in questo caso, il sesso); affermare poi che tutti i componenti di questo gruppo, individuato su base biologica, sono colpevoli (o affermazione equivalente), significa appunto compiere la seconda delle operazioni che costituiscono il razzismo, come da definizione sopra adottata.
Il punto che qui si intende sottolineare è in realtà piuttosto semplice, ma visto che la tesi che intendo sostenere si scontra con il sentire comune, può essere utile un ulteriore approfondimento. Una tesi come “tutti gli uomini sono responsabili” viene sostenuta in riferimento agli omicidi relazionali ma anche ad altre forme di violenza come lo stupro, con slogan come “sono gli uomini che stuprano”, o cose del genere. Tempo fa mi sono imbattuto in internet in uno slogan, del quale purtroppo non saprei ritrovare la fonte, che replicava a quello appena citato, e diceva “sono gli stupratori che stuprano”. Allo stesso modo, si potrebbe dire “sono gli assassini che uccidono”. Mi sembra questa una buona risposta all’ideologia che stiamo discutendo, e cercherò adesso di spiegare perché. Qual è l’operazione logica operata da chi pronuncia frasi come “tutti gli uomini sono responsabili”, “sono gli uomini che uccidono”, e simili? L’operazione è quella di prendere un insieme di individui, gli uomini che uccidono donne, aggiungere a tale insieme tutti gli altri uomini, e sostenere che questo stabilisca un nesso fra gli uomini che uccidono e quelli che non uccidono. La cosa che vorrei mettere in evidenza, rispetto a questa operazione, è il suo carattere arbitrario. Si può infatti fare la stessa operazione costruendo insiemi diversi di esseri umani. Per esempio, posso aggiungere all’insieme degli uomini che uccidono tutti gli altri esseri umani, e affermare che “sono gli esseri umani che uccidono le donne”, affermazione assolutamente corretta e anzi più precisa di quella che afferma “sono gli uomini che uccidono le donne”, perché vi sono anche donne che uccidono, e che uccidono altre donne. In questo modo posso concludere che “tutti gli esseri umani sono responsabili”, e questa è una conclusione che gode della stessa validità di quella che afferma “tutti gli uomini sono responsabili”. Il punto da sottolineare in questo mio argomento non è però il fatto che anche le donne uccidono. Questo è vero, ma non è la cosa importante, che è piuttosto la necessità di sottolineare il carattere logicamente equivalente, e in ogni caso arbitrario, di entrambe le operazioni. Si può prendere l’insieme degli uomini che uccidono donne e aggiungervi l’insieme degli altri uomini, oppure aggiungervi l’insieme di tutti gli altri esseri umani. Si tratta di due operazioni del tutto analoghe, entrambe arbitrarie: una porta a “sono gli uomini che uccidono”, l’altra a “sono gli esseri umani che uccidono”, e non c’è nessun argomento logico che possa privilegiare l’una sull’altra. Ma lo stesso schema logico può essere applicato in modi molto più bizzarri. Posso prendere l’insieme degli uomini che uccidono donne e aggiungerci gruppi umani a caso, chiamare l’insieme di esseri umani così ottenuto “quelli brutti e cattivi”, e concludere che sono quelli brutti e cattivi, da me arbitrariamente scelti, ad essere responsabili. Così, prendo gli uomini che uccidono donne, vi aggiungo i nazisti uomini e donne (sempre disponibili nella parte dei cattivi), i pisani, i postini, e i tifosi del Milan (uomini e donne per ognuno dei gruppi) . Avendo messo assieme, in modo del tutto arbitrario, gli uomini che uccidono donne con questi altri, posso trionfalmente concludere che nazisti, pisani, postini e tifosi del Milan sono responsabili dell’uccisione di donne. Si tratta di un’affermazione equivalente a quelle esaminate in precedenza, tutte accomunate dall’essere puramente arbitrarie.
Mi sembra che ci sia un’unica obiezione possibile all’argomento fin qui sviluppato. Essa consiste nel sostenere che gli esempi bizzarri sopra indicati rappresentano in effetti operazioni puramente arbitrarie, mentre l’operazione di prendere gli uomini che uccidono donne ed aggiungere ad essi tutti gli altri uomini, e solo loro, non è un’operazione arbitraria ma è basata su un aspetto di realtà obiettiva che manca negli altri esempi. Ma quale mai potrebbe essere questo aspetto di realtà obiettiva? Qualcosa che accomuna tutti gli uomini, e che li differenzia dagli altri esseri umani. Ma che cosa hanno in comune “tutti gli uomini”, se non appunto il dato biologico di essere uomini? Eccoci allora ricondotti al problema di fondo: se l’operazione logica di passare da “gli uomini che uccidono donne” a “tutti gli uomini” non appare arbitraria come negli altri esempi sopra indicati, è perché si sta assumendo che il dato biologico dell’essere uomini (cioè maschi della specie Homo sapiens) sia decisivo e fondamentale nel giudizio sul fenomeno dell’omicidio. Si sta basando un giudizio politico e morale su un dato biologico. Si sta cioè facendo del razzismo. Se in larga parte della popolazione questo passaggio viene percepito come non problematico, è perché larga parte della popolazione ha interiorizzato un razzismo antimaschile che non viene percepito come tale, ma che in ogni caso è il necessario fondamento logico delle tesi femministe che stiamo discutendo.

3. Cultura maschile della violenza?
Il modo principale per controbattere la tesi sul carattere razzista del femminismo contemporaneo mi pare possa consistere nel sostenere che ciò che il femminismo pone in questione negli uomini, il male che esso combatte, non è un dato biologico ma un dato culturale, qualcosa come una “cultura maschile della violenza”, la cui scomparsa migliorerebbe la vita di donne e uomini. Cerchiamo allora di affrontare quest’obiezione. Mi sembra che contro di essa si possano portare varie osservazioni.
In primo luogo, parlare di “cultura maschile” (della violenza, dello stupro o dell’omicidio) non elimina il razzismo, perché resta il riferimento a un dato biologico. Se, di fronte all’omicidio di un bianco ad opera di un nero, qualcuno parlasse di “cultura violenta delle persone di pelle nera”, tutti percepirebbero immediatamente il razzismo di una tale espressione. Con la “cultura maschile della violenza” la situazione è esattamente la stessa.
In secondo luogo, non è chiaro cosa intenda con la parola “cultura” chi sostiene la tesi che stiamo esaminando. Se la si usa nel senso dell’antropologia culturale, allora “cultura” è un termine molto generico che denota l’intera gamma delle elaborazioni simboliche degli esseri umani: miti, storie, tradizioni, leggende, istituzioni, teorie, arti, filosofie e via di questo passo. In sostanza, in questa accezione la parola “cultura” si contrappone a “natura” e designa lo specifico dell’essere umano, che appunto è anche cultura e non solo natura. Ma se si usa il termine in questo senso, affermare il carattere culturale di qualsiasi cosa riguardi l’essere umano o le azioni umane rappresenta una vuota tautologia. Qualsiasi problema abbiano o abbiano avuto gli esseri umani, in quanto è un problema umano, è anche un problema “culturale”. Dire che gli omicidi, o un particolare tipo di omicidi, sono effetto di una “cultura della violenza”, è come dire che le invasioni barbariche che portano alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente sono un effetto della “cultura migratoria” dei popoli germanici, o che il colonialismo europeo dell’età moderna è un prodotto della “cultura coloniale” dei popoli europei dell’età moderna: si tratta di affermazioni che non sono false ma sono vuote, nel senso che non dicono in realtà nulla sul fenomeno in esame. Per uscire da questa vacuità bisognerebbe allora dire qualcosa di determinato sulla “cultura maschile della violenza”. Ma per fare questo occorre uscire dalla nozione astratta e indeterminata di “cultura” fin qui esaminata e parlare di “cultura” nel senso di precise e determinate elaborazioni culturali riscontrabili nella realtà sociale. Se si intende “cultura” in questo senso, si può osservare che una tradizione culturale ha sempre bisogno di una base materiale per trasmettersi fra le generazioni. Di conseguenza, ci sono alcune ovvie domande a cui dovrebbe rispondere chi sostiene la tesi della “cultura maschile della violenza”: dov’è mai concretamente, materialmente rintracciabile la “cultura maschile della violenza”? Dove sono i libri che la teorizzano? Le istituzioni che la sostengono? In quale Università di questo pianeta si tengono corsi su “come picchiare le donne, teoria ed esercitazioni”? E non si tratta solo di libri o di corsi universitari. Anche le culture minoritarie, magari orali, devono materialmente concretizzarsi in qualche ambito sociale. Per millenni nonni e nonne hanno raccontato fiabe ai propri nipoti che a loro volta le raccontavano ai propri, e solo alla fine di questo percorso millenario sono arrivati i Grimm e gli Afanasev. Non c’erano libri o corsi universitari, ma appunto c’erano delle persone, i nonni e le nonne, che trasmettevano questo patrimonio culturale. Come può oggi perpetuarsi una “cultura maschile della violenza” se l’intero apparato culturale è impegnato a estirparla? L’educazione di bambini e bambine oggi, nei paesi occidentali, è largamente in mano alle donne, cioè alle madri in primo luogo, e poi al personale della scuola che è maggioritariamente femminile, almeno in Italia. Dove sono i luoghi nei quali si potrebbe tramandare la “cultura maschile della violenza”? Si potrebbe pensare a internet, e sicuramente in internet vi sono nicchie di misoginia e maschilismo, come vi sono nicchie di qualsiasi cosa. Ma proprio il fatto che in internet c’è qualsiasi cosa mostra che “trovare qualcosa in internet” non significa nulla rispetto alla rilevanza sociale di quello che vi si trova. Per riprendere l’esempio fatto sopra, le fiabe raccontate ai bambini sono state a lungo una produzione culturale marginale e trascurata dalla cultura ufficiale, ma erano comunque un fenomeno socialmente rilevante, per il banale motivo che praticamente tutti i bambini erano esposti ad esse. Per poter parlare di “cultura maschile della violenza” bisognerebbe indicare nella realtà attuale un fenomeno simile: cioè una sfera sociale, una pratica diffusa, nella quale una larga maggioranza di uomini, bambini, ragazzi sono esposti a una cultura di esplicita violenza antifemminile. Esiste oggi qualcosa del genere? Mi sembra di poter tranquillamente affermare di no. E dunque non esiste nessuna “cultura maschile della violenza”, e chi ne afferma l’esistenza dice o una vuota tautologia (vedi sopra) oppure, semplicemente, dice il falso. Il complesso delle nostre argomentazioni ci permette allora di concludere che parlare di “cultura maschile della violenza” è solo un modo di coprire il proprio razzismo antimaschile con la foglia di fico della parola “cultura”. È solo un modo di essere razzisti evitandone la coscienza.

4. Un altro esempio
Facciamo un ulteriore esempio di razzismo femminista. Prendiamo in esame un altro noto slogan, quello che recita “bisogna credere alle donne”. Si intende qui che bisogna credere ad una donna che accusa un uomo di reati legati alla sfera sessuale (molestia, stupro). Ora, visto che nella stragrande maggioranza dei casi un uomo accusato di un reato di questo tipo nel processo cerca di difendersi, è evidente che dire “bisogna credere alla donna che accusa” equivale a dire “non bisogna credere all’uomo che si difende”. Lo slogan femminista equivale dunque alla richiesta che in alcuni tipi di processi (non tutti, pare, almeno per ora) la ragione e il torto siano decisi su basi biologiche: se si appartiene ad una determinata categoria biologica si ha ragione, altrimenti si ha torto. Il carattere razzista di questo slogan è insomma del tutto ovvio ed evidente. La cosa strana è che questo carattere sarebbe chiaro a tutti se qualcuno dicesse “quando un bianco accusa un nero, il bianco ha ragione e il nero è colpevole”, e sarebbe pure chiaro scambiando bianco e nero nella fase precedente. Insomma, se si parla del colore della pelle, tutti comprendono che una frase di quel tipo è ovviamente razzista. Ma misteriosamente questa comprensione scompare se invece di pelle bianca o nera si parla di cromosomi XX e XY e dei connessi caratteri sessuali.
Essendo razzista, lo slogan in questione è ovviamente in contraddizione con l’articolo 3 della nostra Costituzione, che stabilisce l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge “senza distinzione di sesso”. Cosa significa “eguali davanti alla legge”? Quali sono gli eventi della vita nei quali il cittadino si trova “davanti alla legge”? Mi sembra evidente che un processo penale è uno di questi eventi, e uno di quelli piuttosto importanti, direi. Se siamo eguali davanti alla legge, significa che in un processo nel quale una persona ne accusa un’altra, nessuna delle due ha un diritto a priori ad essere creduta. Tantomeno se questo diritto a priori viene stabilito su base biologica. Per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia penale, la parola d’ordine coerente con l’art.3 della Costituzione non è “bisogna credere alle donne” ma “non bisogna credere a nessuno”. In un processo nessuno è a priori più credibile di un altro, e la verità giudiziaria si stabilisce nel confronto e nel dibattimento. Questo fondamentale principio giuridico è indissolubilmente legato ad un altro concetto fondamentale della civiltà giuridica moderna, quello della presunzione di innocenza. È evidente che lo slogan femminista in questione distrugge alla radice l’idea stessa di presunzione di innocenza: se venisse istituzionalizzato il principio che una donna che accusa un uomo deve essere creduta apriori, l’uomo accusato sarebbe automaticamente colpevole prima di qualsiasi processo, e quest’ultimo si ridurrebbe ad una rappresentazione teatrale utile solo a fingere l’esistenza di uno Stato di diritto.
In definitiva, il razzismo femminista è del tutto evidente anche dall’esame di questo slogan, ed evidente è pure il suo carattere eversivo: agitando slogan come questo, il femminismo chiede la diretta negazione di alcuni dei fondamentali principi di giustizia su cui si basa la nostra società, principi che, per noi italiani, sono depositati nella nostra Costituzione.

5. La base storica e sociale del razzismo femminista
Il fatto che il femminismo attuale si configuri come razzismo antimaschile è una cosa in realtà di chiara evidenza. La vera questione da indagare è quella relativa alle cause di questo fenomeno. Come mai negli ultimi decenni questa forma di razzismo si sviluppa e acquista carattere di massa? La mia risposta a questa domanda si basa sull’analisi della situazione storica attuale che ho svolto in precedenti interventi [3]. In sostanza, ritengo che l’attuale capitalismo mondializzato sia avviato su un percorso di autodistruzione che porterà a un collasso sociale generalizzato paragonabile ai grandi collassi storici del passato, come la fine del mondo antico. Tale crisi generalizzata deriverà in ultima analisi dal crollo degli ecosistemi del pianeta, causato dall’invadenza distruttiva e senza limiti dell’organizzazione sociale capitalistica. Naturalmente, gli scontri geopolitici cui stiamo assistendo in questi ultimi tempi non potranno che avvicinare il collasso. Non saprei dire quanto gli attuali ceti dirigenti siano coscienti di questo, ma direi che, in un modo o nell’altro, una qualche forma di coscienza vi sia: per citare un caso estremo, i vaneggiamenti di un Musk sul fondare colonie umane su Marte mi sembra manifestino una qualche forma di coscienza sull’irrisolvibilità delle contraddizioni dell’attuale sistema socioeconomico. Comunque sia, il punto decisivo, a mio parere, è che in questa situazione le oligarchie al potere non sono più in grado di offrire ai ceti subalterni un compromesso accettabile. Un compromesso di questo tipo ha rappresentato la base dello sviluppo della “società del benessere” nel secondo dopoguerra, ma anche la fase “neoliberista” che a essa è succeduta, a partire dagli anni ‘80, presentava elementi di compromesso nella promessa di possibilità di arricchimento per tutti (non importa qui discutere quanto questa promessa fosse realistica). Oggi, per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, i ceti dirigenti sanno di non poter offrire più nulla, o almeno ne sono vagamente coscienti. Questo significa che essi continueranno a erodere le conquiste ottenute dai ceti subalterni nella fase del “compromesso socialdemocratico” (scuola, sanità, pensioni, in generale welfare state), perché questo richiede la forma neoliberista del capitalismo attuale, ma in cambio di questa perdita di diritti e redditi i ceti subalterni non otterranno la possibilità di una valorizzazione della propria creatività e delle proprie capacità di lavoro, e la conseguente ascesa nella scala sociale, come hanno promesso per decenni gli ideologi neoliberisti. In cambio della perdita di diritti e redditi, i ceti subalterni otterranno un catastrofico collasso sociale.
Questo inquadramento generale ci offre una prima interpretazione dell’attuale diffusione generalizzata del razzismo femminista. Diffondere il razzismo femminista, come fa da anni e decenni l’apparato ideologico dei media, al servizio del potere, appare infatti come una efficace “arma di distrazione di massa”. Si tratta cioè di distrarre le masse popolari dal continuo peggioramento della propria vita, e dalle incombenti minacce di collasso del sistema, creando contrapposizioni fittizie e scontri artificiali. Da questo punto di vista, vi è una forte analogia fra il razzismo femminista e il razzismo nazista. In primo luogo, c’è una situazione di crisi di sistema, che peggiora la vita di tutti. La mossa del potere è allora quella di selezionare un capro espiatorio al quale addossare la colpa. In entrambi i casi il “colpevole” viene individuato su base biologica: il maschio in un caso, la cosiddetta “razza ebraica” nell’altro (come già detto, non ha qui importanza il fatto che non esista nessuna “razza ebraica”, il punto è che il nazismo crede alla sua esistenza). In questo modo vengono messi sotto accusa fantasmi come “il complotto giudaico internazionale” o “il patriarcato”, invece che il capitalismo e i suoi ceti dirigenti. I ceti subalterni si dividono per combattersi fra loro (donne contro uomini, ariani contro ebrei/comunisti) invece di unirsi per combattere i ceti dominanti.
Facciamo una piccola digressione per mettere in evidenza un ulteriore elemento di analogia fra razzismo femminista e razzismo nazista: si tratta del loro carattere eversivo. Il razzismo non è necessariamente eversivo, anzi ha spesso una carattere conservatore nei confronti di una struttura sociale data: l’esempio ovvio è il razzismo contro i neri negli Stati del Sud degli USA dopo la guerra civile. Si trattava in quel caso, appunto, di conservare un’organizzazione della società che prevedeva l’inferiorità dei neri, nonostante la sconfitta nella guerra civile. Il razzismo nazista invece voleva abbattere le fondamenta giuridiche della società tedesca, che garantivano pari diritti e uguaglianza di fronte alla legge, per instaurare uno Stato razziale, e aveva quindi un chiaro carattere eversivo. È evidente che il razzismo femminista, che vuole scardinare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e abolire la presunzione di innocenza (per gli uomini), è, da questo punto di vista, molto più vicino al razzismo nazista che al razzismo degli USA dopo la guerra civile.
Dopo questa digressione, riprendiamo il filo del ragionamento. Abbiamo fin qui delineato una spiegazione del razzismo femminista come manipolazione ideologica dei ceti subalterni da parte dei ceti dominanti. Ritengo questa spiegazione corretta ma incompleta, e mi sembra necessario un approfondimento. Come abbiamo detto sopra, oggi i ceti dominanti non hanno una prospettiva realistica che possa evitare il collasso dell’attuale struttura sociale, e non sono quindi in grado di offrire ai ceti subalterni un ragionevole compromesso sociale. In questa situazione, mi sembra che il femminismo offra un ulteriore importante vantaggio per i ceti dominanti, oltre a quello già indicato di “arma di distrazione di massa”: esso funziona come strategia di legittimazione. Grazie al femminismo, i ceti dominanti che lo sostengono possono rappresentarsi, di fronte alla propria coscienza e di fronte ai ceti subordinati, come difensori di nobili principi, riparatori di torti millenari nei confronti delle donne, combattenti di cause giustissime. Si tratta di un servizio fondamentale che il femminismo rende a un potere che sempre più perde credibilità e legittimazione agli occhi dei ceti subalterni. Ma questa non è ancora la fine della storia. Quello che a me sembra il punto fondamentale è che il femminismo ha una funzione di saldatura fra i ceti dominanti e una parte significativa dei ceti subalterni. Mi riferisco qui essenzialmente al “popolo di sinistra”, cioè a quella parte della popolazione che eredita gli ideali progressisti che furono della sinistra storica. Il popolo di sinistra costruisce la propria immagine come quella della parte migliore della società, la parte delle persone istruite e aderenti a nobili valori, che hanno quindi un atteggiamento critico verso i molti mali prodotti dall’attuale organizzazione economica e sociale. Questa immagine di sé rispecchia alcuni caratteri di realtà: è probabile che il “popolo di sinistra” sia in effetti più istruito della media della popolazione, e che, a livello individuale, percepisca con maggiore coscienza le molte ingiustizie del mondo attuale. Ma d’altra parte questa immagine di sé si scontra contro alcuni dati di fatto: in primo luogo la sostanziale adesione del popolo di sinistra a quella organizzazione economica e sociale che chiamiamo “capitalismo”, e che è responsabile dei molti mali virtuosamente denunciati dallo stesso popolo di sinistra, e in secondo luogo la totale incapacità, da parte di tale strato sociale, di fare alcunché per fermare la deriva autodistruttiva del capitalismo stesso [4]. Gli ideali della sinistra storica erano legati a una prospettiva di superamento dell’organizzazione sociale capitalistica (da raggiungere con le riforme o con la rivoluzione) mentre la sinistra attuale ha completamente rinunciato a tale prospettiva ed è quindi totalmente interna alla logica capitalistica. Ma tale logica porta a evidenti ingiustizie, e in prospettiva al collasso dell’attuale società: tutte cose in evidente contrasto con gli ideali progressisti del popolo di sinistra. Tale gruppo sociale si trova quindi nella condizione di avere nella realtà pratica accettato una struttura sociale che nega compiutamente gli ideali da esso affermati, e di non avere nessuna prospettiva politica di superamento di questo stato di cose e nessuna base culturale e teorica per pensare in modo realistico tale superamento. Il popolo di sinistra non può rinunciare alla percezione di sé come difensore di nobili valori, che è costitutiva della sua identità, ma non può nemmeno mettere in questione l’organizzazione sociale capitalistica perché da una parte ciò significherebbe mettere in questione il tipo di vita benestante che tale ceto riesce ancora a condurre, e d’altra parte esso ha abbandonato da tempo ogni riferimento intellettuale di tipo anticapitalistico.
Si tratta di una situazione di stallo ideologico, politico e psicologico, uno stallo tanto più angoscioso quanto più evidenti si fanno i segnali dell’incipiente collasso. Esattamente come nel caso dei ceti dominanti, qui interviene il femminismo, fornendo al popolo di sinistra una narrazione ideologica che gli permette di continuare a percepirsi come difensore di nobili principi, come combattente di una battaglia in difesa di valori superiori. Aderendo al femminismo e alla sua lotta contro il fantasmatico “patriarcato” il popolo di sinistra ha l’illusione di “star facendo qualcosa”, mentre non sta facendo assolutamente nulla per incidere sui meccanismi fondamentali del capitalismo. Il femminismo rappresenta cioè per il popolo di sinistra una via d’uscita ideologica dalla situazione di stallo sopra delineata.
Si tratta di un meccanismo molto simile a quello che agisce nei ceti dominanti, e questa identità di reazioni psicologiche, come dicevamo sopra, produce una saldatura fra ceti dominanti e ceti subalterni che è, a mio avviso, il fondamentale vantaggio che l’ideologia femminista offre ai ceti dominanti. Il femminismo cioè rappresenta una delle componenti ideologiche fondamentali (non l’unica, naturalmente) di una particolare realtà sociale e culturale, che è stata a mio parere la principale base storica delle società occidentali negli ultimi decenni: mi riferisco all’alleanza fra una parte dei ceti dominanti, quella più legata ai flussi transnazionali di denaro, merci, conoscenze, e una parte dei ceti dominati, quella che abbiamo indicato come “popolo di sinistra”. Oggi, nella situazione di collasso incipiente che abbiamo descritto, il popolo di sinistra da questa alleanza ricava soprattutto una compensazione illusoria della propria impotenza pratica e un sostegno alla propria vacillante identità.

6. Manipolazioni
Ricapitoliamo quanto fin qui argomentato. Il successo del razzismo femminista si basa sul fatto che riesce a mobilitare vasti settori della società. In primo luogo, come abbiamo indicato sopra, i ceti dirigenti, che vedono in esso una fonte di legittimazione morale, e ottengono il gradito effetto collaterale di deviare l’attenzione delle masse dai problemi reali. In secondo luogo, il “popolo di sinistra” trova nel femminismo (e, più in generale, nel “politicamente corretto”) un sostegno al proprio “complesso di superiorità morale”. A questi punti sopra trattati possiamo aggiungere, in terzo luogo, il fatto che decenni di propaganda femminista hanno creato un ceto politico-intellettuale (politici, giornalisti, docenti universitari) che ha costruito la propria carriera su questi temi.
Tutto questo è importante, e crea di per sé una base sociale significativa per il razzismo femminista, ma credo non sia tutto. Manca ancora un elemento per completare il quadro. Possiamo infatti osservare che le forme fin qui note di razzismo mobilitano aspetti psicologici elementari e profondi, che vengono usati a supporto della narrazione razzista. Si tratta della paura del diverso o dello straniero, che è un dato psicologico che non possiamo pensare di abolire, ma col quale dobbiamo cercare di fare i conti per evitare la sua strumentalizzazione da parte del razzismo. Nel caso del razzismo femminista ritengo ci sia un analogo uso di dati psicologici elementari e profondi, con i quali è necessari confrontarsi. Poiché si deve qui parlare di pulsioni inconsce, ovviamente difficili da catturare in termini oggettivi, devo limitarmi a fare delle ipotesi. Mi sembra ragionevole supporre in primo luogo che tali meccanismi psicologici siano diversi fra uomini e donne. Nel caso degli uomini mi sembra che quello che viene mobilitato sia il senso di protezione nei confronti delle donne, che è un dato costante delle società umane. Nel caso delle donne, mi pare si tratti di una fondamentale paura dell’uomo in quanto stupratore o assassino dal quale non ci si può difendere a causa della maggiore forza fisica maschile. Se queste ipotesi fossero almeno parzialmente verificate, potrebbero spiegarci perché il razzismo femminista abbia coinvolto larghe masse, soprattutto femminili, al di là dell’adesione cosciente a questa o quella teoria femminista. Inoltre, ammettendo queste ipotesi, il ceto politico-intellettuale che diffonde il razzismo femminista si configurerebbe in sostanza come un ceto che manipola pulsioni inconsce di larga parte della popolazione, soprattutto femminile, per guadagnare spazi di potere nella politica, nei media e nel mondo accademico. In questo senso sarebbe molto forte l’analogia con i vari movimenti anti-immigrati, che manipolano paure profonde nei confronti del diverso per guadagnare posizioni di potere.

7. Conclusioni e previsioni.
Di fronte alla situazione descritta, è naturale porsi la domanda “che fare?”. È pensabile un superamento del razzismo femminista oggi dominante, con gli strumenti usuali con i quali si sono in passato combattute battaglie di questo tipo, cioè il dibattito democratico, l’analisi culturale, la mobilitazione politica? Mi sembra inevitabile manifestare del pessimismo. Da una parte, il blocco sociale che sostiene il razzismo femminista appare in questo momento ampio e solido. Dall’altra, gli strumenti tipici della lotta politica dei decenni passati sembrano sempre meno efficaci. Esaminiamo prima questo secondo punto. Il dibattito democratico è reso sempre più difficile dal controllo ferreo dei ceti dominanti sui mezzi di comunicazione di massa. L’analisi culturale è inefficace a causa della diffusione di un analfabetismo funzionale di massa, che ha come aspetti evidenti la crisi generale della scuola pubblica e il ricorso massiccio delle giovani generazioni (ma non solo) a quella sentina di ogni iniquità che sono i “social”. Infine, la mobilitazione politica appare sempre più un rituale noioso e inutile. Questa erosione degli strumenti di lotta democratica avvenuta negli ultimi decenni è uno dei motivi della evidente passività delle masse popolari, che non si mobilitano di fronte al continuo lento peggioramento delle proprie condizioni di vita (perdita di potere d’acquisto, distruzione del welfare state, ritorno di propositi bellici nei paesi europei). Ovviamente questa “passivizzazione delle masse” è effetto ma anche causa dell’attuale crisi delle nostre società.
Per quanto riguarda poi il primo punto sopra indicato, se ricordiamo l’ampio arco di forze che sostiene il razzismo femminista, esaminato nei punti precedenti, appare evidente che i rapporti di forza fra chi sostiene il razzismo femminista e chi lo critica sono completamente sbilanciati a sfavore di questi ultimi, e questo rende credibile l’affermazione che non ci sia speranza di cambiare la realtà fin qui descritta, almeno nel tempo di una vita umana.
Questa analisi mi sembra confermata dall’esame delle forze politiche nei paesi occidentali. Parlando per semplicità di sinistra e destra, possiamo in primo luogo osservare che per la sinistra attuale il femminismo è un dato identitario, che ha sostituito quello che in passato erano la classe operaia o il proletariato. Mi sembra del tutto evidente che non c’è alcuna possibilità che la sinistra nei paesi occidentali possa prendere una posizione ostile al razzismo femminista. Chi intenda lottare contro di esso deve abbandonare l’idea di poterlo fare all’interno della sinistra, e anzi deve considerare la sinistra, rispetto a questo tema, come il nemico principale. A una considerazione astratta sembrerebbe allora necessario, per combattere il razzismo femminista, rivolgersi alla destra, per l’ovvio motivo che il femminismo non è costitutivo dell’identità della destra, e questo le permette almeno di ascoltare le istanze dei critici del femminismo. Può darsi che questo porti ad azioni legislative positive, da parte di un governo di destra, su alcuni temi specifici, per esempio riguardo alle iniquità antimaschili che dominano nella prassi giuridica italiana su separazioni e divorzi. Ovviamente simili iniziative legislative sarebbero senz’altro da appoggiare. Ritengo però un errore pensare che la critica al femminismo debba cercare un legame organico con le forze politiche di destra, per i motivi che provo adesso ad spiegare. In primo luogo, tutte le forze politiche attuali sono essenzialmente opportuniste e conformiste, e questo le spinge ad evitare di mettersi in contrasto con le idee più diffuse e con le forze dominanti che sostengono tali idee. Si può osservare per esempio che l’amministrazione Trump ha preso posizioni molto decise contro certi aspetti delle politiche culturali “woke”, ma questo soprattutto in relazione alle problematiche “gender”, molto meno in relazione al complesso ideologico femminista. In secondo luogo, sarebbe assai pericoloso permettere l’identificazione delle posizioni di critica al femminismo con le destra politica, perché quest’ultima ha una sua agenda economica e sociale indipendente da quelle tematiche, e identificare la critica al femminismo con una tale agenda implica che le eventuali reazioni negative alle politiche delle destre, per esempio su temi economici o geopolitici, finirebbero per rivolgersi anche contro le istanze di critica al femminismo.
Il vero obiettivo dovrebbe essere quello di far diventare la critica al razzismo femminista non una tematica dei partiti di destra, ma un patrimonio culturale diffuso, indipendente da destra e sinistra, esattamente come nella sostanza è diventato oggi il femminismo. Ma mi sembra evidente che non c’è nessuna possibilità concreta in questo senso, per il carattere sfavorevole dei rapporti di forza di cui sopra s’è detto.
Si può quindi ribadire che non c’è speranza di contrastare efficacemente il razzismo femminista in un paese come l’Italia, nel medio periodo (diciamo, nei prossimi vicini decenni). Probabilmente questo vale per il complesso dei paesi occidentali. Questi ragionamenti ci portano quindi a individuare un cambiamento profondo nei fondamenti di ciò che chiamiamo “società occidentali”: esse sono passate dal sostenere principi di uguaglianza degli esseri umani all’essere permeate da quella particolare forma di razzismo che abbiamo fin qui analizzato, il razzismo femminista. Si tratta di un cambiamento profondo, che a mio parere avrà conseguenze culturali e politiche, e forse perfino antropologiche.
È difficile fare previsioni precise su quali potrebbero essere tali conseguenze, ma, in via del tutto ipotetica, provo a suggerire qualche possibilità. In primo luogo, mi sembra ragionevole pensare che la penetrazione sempre più spinta del razzismo femminista nella società e nelle istituzioni possa portare a un forte indebolimento delle società occidentali, e di quella italiana fra esse. Ci sono vari elementi che rendono plausibile una previsione di questo tipo. In primo luogo, c’è da aspettarsi che il razzismo femminista generi per reazione una situazione di distacco e contrapposizione fra uomini e donne. Vi sono già alcuni segnali in questo senso, per esempio il fatto che si comincia a notare una polarizzazione politica legata alla differenza sessuale, con gli uomini che sembrano indirizzarsi verso partiti conservatori e le donne verso partiti progressisti [6]. A parte questa polarizzazione politica, una situazione di contrapposizione e diffidenza nei rapporti fra uomini e donne porterà sicuramente a un maggior numero di persone sole e aggraverà ulteriormente la crisi della famiglia. La famiglia è un’istituzione che molti considerano obsoleta, ma essa assolve ad un compito sociale fondamentale, quello di far stare assieme uomini e donne per provvedere alla nascita e alla cura dei nuovi membri della società. Non sembra che finora, nelle nostre società, siamo riusciti a trovare un’altra istituzione che svolga lo stesso compito, e di conseguenza la crisi della famiglia implica la crisi di un meccanismo fondamentale per le durata nel tempo di una società. A questi temi si collega il problema della denatalità, che sembra toccare, in un modo o nell’altro, tutte le società avanzate. Sia la crisi della famiglia sia la denatalità hanno probabilmente cause molteplici, e sarebbe azzardato affermare che esse dipendano prioritariamente dal diffondersi delle ideologie femministe. È però chiaro che il distacco e la diffidenza fra uomini e donne, che mi sembrano conseguenze inevitabili del diffondersi del razzismo femminista, rappresentano fattori che aggravano la situazione e rendono più difficile pensare una soluzione di tali problemi. Si può osservare che già oggi separazione e diffidenza degli uomini nei confronti delle donne vengono apertamente teorizzate, per esempio dal movimento di opinione noto con la sigla MGTOW, che sta per “Men Going Their Own Way”, cioè uomini che se ne vanno per la propria strada, e si sottintende: senza preoccuparsi delle donne. Ma anche senza incrociare le realtà che, essenzialmente in internet, si rifanno a tale sigla, è possibile che in futuro una certa percentuale della popolazione maschile arrivi alla conclusione che nelle relazioni con le donne i rischi siano troppo superiori ai benefici. Per capire questo punto, immaginiamo che in un paese come l’Italia arrivino a pieno compimento le tendenze implicite in uno slogan come “bisogna credere alle donne”, che abbiamo sopra analizzato: immaginiamo cioè che diventi pienamente operante l’abolizione della presunzione di innocenza quando una donna accusa un uomo di reati legati alla sfera sessuale. Ciò significherebbe dare ad ogni donna il potere di decretare la colpevolezza di qualsiasi uomo con il quale ci sia stata una qualsiasi forma di interazione. Se a questo aggiungiamo il fatto, già oggi del tutto normale, che una causa di separazione o divorzio comporta per l’uomo un’alta probabilità di perdere figli, casa, e una quota significativa del reddito, appare ragionevole l’ipotesi che in futuro una parte significativa della popolazione maschile possa pensare che sia più prudente “andarsene per la propria strada”.
Un’altra forma che può assumere tale distacco è quella dell’emigrazione vera e propria, soprattutto da parte dei giovani che devono prendere le decisioni fondamentali riguardo al proprio futuro. Già oggi molti giovani, uomini e donne, scelgono di andarsene dall’Italia. Come nel caso della denatalità, anche per quanto riguarda l’emigrazione giovanile si tratta di un fenomeno che dipende da molte cause diverse (e sicuramente quelle legate al declino economico italiano sono le più importanti), ma mi sembra evidente che il razzismo femminista oggi dominante in Italia non sia di grande aiuto nel trattenere i giovani italiani dall’emigrazione. Mi sembra non irragionevole pensare che nel prossimo futuro i giovani uomini, nel momento in cui dovranno fare le scelte che indirizzano una vita, tengano in considerazione paesi esteri nei quali le ideologie femministe non siano così dominanti e istituzionalizzate come nei paesi occidentali.
Tutti questi fenomeni (diffidenza e distacco fra uomini e donne, denatalità, emigrazione dei giovani) rappresentano ovviamente dei problemi per la tenuta delle nostre società.
Un’ulteriore conseguenza dei fenomeni esaminati è di carattere geopolitico. Siamo infatti entrati da qualche anno in una fase storica di forte contrapposizione fra le società occidentali e le potenze esterne all’Occidente, come la Russia e la Cina. In tali scontri, che già oggi sono molto aspri (si pensi alla guerra in Ucraina), e che promettono di peggiorare in futuro, le armi dell’ideologia sono quasi altrettanto importanti di missili e bombe. Il collante ideologico fondamentale delle nostre società è la teorizzazione della democrazia occidentale contrapposta all’autoritarismo di paesi come appunto Russia e Cina. Ci sono però molti aspetti discutibili rispetto alla pretesa delle nostre società di rappresentare la “squadra democratica” contrapposta all’avversa “squadra autoritaria”, e il punto fondamentale, per quanto riguarda quanto stiamo qui discutendo, è che ai tanti problemi di tenuta democratica dei nostri paesi il razzismo femminista ne aggiunge un altro: può infatti definirsi democratica una società nella quale l’ideologia dominante è una forma di razzismo rivolto contro metà della popolazione? Non mi sembra si possano avere dubbi sulla risposta, e di conseguenza la dominanza del razzismo femminista priva i paesi occidentali di uno degli argomenti fondamentali a sostegno della propria narrazione. È vero che questo tema non sembra rilevante negli scontri geopolitici cui assistiamo oggi, ma non si può escludere che lo diventi in futuro, specie se abbinato ad una emigrazione di giovani uomini occidentali in fuga da un Occidente in crisi economica, preda di furori bellicisti ed egemonizzato dal razzismo femminista.
Non mi sembra possibile andare oltre queste indicazioni, generali ed ipotetiche, sugli sviluppi futuri della situazione che abbiamo descritto in questo articolo. Il futuro ci illuminerà.

Note
[1] Se si accetta questa definizione, non rientra nella nozione di “razzismo” un fenomeno come l’islamofobia, perché l’essere islamici non è una determinazione biologica. In questo caso si potrà eventualmente usare un termine più generico come “intolleranza”.
[2] Uso l’espressione “delitto relazionale”, invece di “femminicidio”, perché quest’ultimo termine non ha una definizione chiara. Per “delitto relazionale” intendo un delitto avvenuto nell’ambito di una relazione affettiva per motivi legati alla relazione stessa (rottura, tradimento).
[3]
https://www.badiale-tringali.it/2021/03/fine-partita.html
https://www.badiale-tringali.it/2021/07/verso-il-collasso-lettere-al-futuro-5.html
https://www.badiale-tringali.it/2024/03/un-senso-precipite-dabisso.html
[4] È chiaro che questa descrizione del “popolo di sinistra” si riferisce a quella che, in maniera un po’ sbrigativa, possiamo chiamare “sinistra moderata”, cioè la sinistra che ha rinunciato a ogni istanza anticapitalistisca. Si dovrebbe fare un’analisi leggermente diversa per la cosiddetta “sinistra radicale”, che a livello di enunciazioni verbali mantiene finalità anticapitalistiche. Ma si tratta appunto di enunciazioni verbali prive di effetti pratici, anche perché la sinistra radicale rappresenta minoranze ininfluenti. Nell’analisi generale che sto svolgendo in questa sede, possiamo quindi trascurare l’esame della “sinistra radicale”. Ne ho parlato più diffusamente in https://www.badiale-tringali.it/2020/06/riflessioni-su-sinistra-radicale-e.html
e, in relazione al femminismo, in https://www.badiale-tringali.it/2020/08/femminismo-anticapitalista.html , sezione VIII.
[5] Quanto fin qui detto potrebbe essere ripetuto per l’analisi del complesso ideologico che si indica come “politicamente corretto”, ma non possiamo discuterne nei limiti di questo articolo.
[6] Si veda per esempio:
https://www.ilcignobianco.com/2024/04/politica-e-giovani-uomini-a-destra-donne-a-sinistra/