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Riflessioni sulla filosofia di Eraclito

di Flores Tovo - 09/03/2021

Riflessioni sulla filosofia di Eraclito

Fonte: Arianna editrice

Il pensiero di Eraclito da Efeso si presenta come la prima rivelazione dell’Essere   nella cultura europea. Lo straordinario fascino dei suoi detti ha influenzato molti filosofi e poeti del passato, ma ancor più della modernità, quali Blake, Hölderlin, Hegel, Nietzsche e Heidegger. Noto nell’antichità come l’Oscuro (ho skoteinòs), per lo stile dalla concisione solenne e profetica, egli fu in realtà un filosofo che esprimeva un pensiero ben preciso e delineato. Certamente la concisione poteva e può indurre alla riflessione e alla lentezza nella lettura (Eraclito usava molti sostantivi e pochissimi aggettivi), ma, come ebbe ad affermare Nietzsche nel suo commento giovanile del pensiero eracliteo “…mai un uomo ha scritto in modo più luminoso…”.  
La tradizione culturale misterico-orfica è, in Eraclito, assai marcata. La solennità, il forte senso del divino e la sua ineffabilità ci presentano un filosofo simile ad un oracolo o ad una Sibilla. L’Apollo e il Dionisio, i due Dei che rappresentano nel profondo l’animo e la cultura greca antica, stretti in una indissolubile unità, si trasformano, nel suo pensiero, “… in contrari appartenenti ad un Lògos-tutto” (1).

Il passaggio dall’estasi misterica al Lògos dialettico è ricostruito proprio da Giorgio Colli, che nel libro “Dopo Nietzsche” affermava, sia pure per via ipotetica, ma in modo suggestivo e convincente, che è l’enigma, il “pròblema” che indica l’origine della ragione. La dialettica, secondo Colli, nasce proprio dall’enigma, definito anche “griphos”, inteso come rete: perciò la ragione era lo strumento di soluzione dell’intrigo, dei nodi tessuti entro la rete.

In Eraclito la potenza della ragione si sprigiona nella sua completezza, ed egli, avvalendosi appunto del procedere dialettico, cerca di rivelare gli intimi e nascosti segreti del comprendere la realtà sia della società umana che della natura.

Ma quale significato egli attribuisce al Lògos? Il frammento 50 è quello che ne indica l’unità e la totalità. Esso così dice :” Prestando ascolto non a me, ma alla ragione, è saggio convenire che tutte le cose sono uno” (2).

Il Lògos ( che è ragione o Discorso) non è semplicemente la ragione umana o la sua parola, ma è la voce intima del mondo che in nessun modo è riducibile alla razionalità soggettiva e quindi opinabile degli uomini (L’opinione è epilessia.. scriveva Eraclito nel fr.46). Esso è il Discorso dell’Essere, ossia della natura vivente (physis) che è onnicomprensiva e che trascende la ragione umana. In Eraclito non c’è quindi la pretesa di conoscere perfettamente l’Essere (che non è Dio, ma il principio della manifestazione degli enti).

Il Discorso soggettivo umano comprende solo in parte il Discorso oggettivo, che potremo anche chiamare divino, in quanto la sua subordinazione ad Esso deve essere chiara: è infatti prestando ascolto ad Esso e non alla ragione umana che si può capire, attraverso una intuizione rivelativa, che tutte le cose sono riconducibili ad una Unità trascendente. Vi è, quindi, nel filosofo, la piena consapevolezza di quella che Heidegger chiamerà la differenza ontologica fra ente (l’uomo, l’Esserci) e l’Essere.

Lo stesso frammento 41 ribadisce tale differenza: “Esiste una sola cosa saggia: conoscere la ragione, la quale tutto governa attraverso tutto”.

L’uomo, che possiede la ragione, può comportarsi saggiamente solo se comprende che la sua ragione è limitata e subordinata a quella universale: egli è sì un ente privilegiato, perché il suo intelletto lo porta a capire che il mondo è governato dal Discorso o legge unica, ma che è pur sempre secondario ad Esso. Non vi è quindi, in Eraclito, nessun antropocentrismo, che è quel credere di origine socratico-platonica e fatto proprio dal Cristianesimo e dalla metafisica occidentale (con le dovute eccezioni) secondo il quale l’uomo è il centro dell’universo e che la sua mente è in grado di aderire perfettamente alla verità, essendo essa la portatrice della verità.

Fra l’altro solo pochi uomini (i veri filosofi) sono capaci di comprendere che l’Essere è regolato dal Discorso: da qui l’aristocratismo spirituale di Eraclito che viene sancito da due frammenti che confermato il senso elitario del pensare eracliteo, e cioè i frammenti 1 e 72:

“Di questo Discorso, che è vero, mai possiedono gli uomini intelligenza, né prima di udirlo, né subito dopo averlo udito; per quanto ogni cosa infatti accada secondo questo Discorso, sembra che non abbiano avuto esperienza, pur avendo fatto la prova e delle parole e dei fatti esattamente quali io li descrivo, distinguendo ogni cosa secondo la sua natura e dicendo com’è. Ma agli altri uomini rimane nascosto tutto quello che fanno da svegli, così come dimenticano di quello che fanno dormendo” (fr. 1).

“Di quel Discorso col quale più di tutti essi hanno continua dimestichezza, da esso discordano, e quelle cose in cui si imbattono ogni giorno a loro appaiono straniere”  (fr. 72).

Si noti che coloro che non comprendono il Discorso non sono solo gli uomini tardi (L’uomo di tardo intelletto abitualmente rimane attonito di fronte ad ogni discorso) (fr. 87), ma anche coloro che sono considerati dai più gli uomini più eruditi e geniali come Pitagora, Omero, Esiodo, Senofane, o Archiloco. Pitagora è definito un ingannatore, (fr. 129 e 81), Omero un astrologo… degno di essere frustato (fr. 105 e 42), Esiodo un incapace a comprendere l’unità del Lògos (fr. 57 e 106) e così via.

Ma che cosa non comprendono questi grandi uomini che per Eraclito sono invece piccini e ciechi rispetto al profondo Essere? E che cosa intende veramente Eraclito per unità del Lògos?

La risposta che egli dà è presente in tantissimi frammenti della sua opera che si chiama “La natura”. All’interno dell’Uno assoluto, a cui Eraclito fa riferimento nel fr. 10 che poi si commenterà, vi è un Discorso a sua volta unitario che, come si è visto nel fr. 41, governa tutte le cose. Questo Discorso altro non è altro che l’unità dei contrari.

S’è detto che la parola Lògos ha in realtà vari significati, e cioè Discorso, legge, ragione, senso e da ciò emerge che il Logòs non ha una determinazione unica. Esso è :

“…indeterminato e infinitamente determinabile in quanto è totalità onnicomprensiva” (3).

Ma in una così ampia pluralità di significati è comunque sempre accertabile in quasi tutti i frammenti eraclitei che l’essenza onnipresente del Lògos è appunto l’unità dei contrari, come del resto ha riconosciuto lo stesso Heidegger (4).

Ecco allora i frammenti che sono unanimemente considerati i più significativi a tal riguardo, tralasciando altri meno importanti:

“Ciò che è opposto concorda e dai discordi l’armonia più bella “(fr.8), “Non comprendono come, pur differendo, con se stesso concordi. Armonia di entrambe le parti, come quella dell’arco e della lira” (fr. 51), (Contesa è padre di tutte le cose, di tutte è re: alcuni dimostrò dei e altri uomini, alcuni fece schiavi e altri liberi) (fr. 53), “Più potente è l’armonia nascosta di quella che appare” (fr. 54), “La via della vite, curva e diritta, è una e la stessa” (fr. 59), “Il dio è giorno e notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame: muta come il fuoco quando si unisce agli odori, e prende il nome dal sapore di ognuno di essi” (fr. 67).

La parola chiave presente in questi frammenti è la parola armonia (armonìa), che si trova nei frammenti 8, 51 e 54. L’armonia implica un legame convergente tra le parti, le quali, pur scontrandosi fra loro, si compenetrano in una complementarietà necessaria. Gli opposti sono ad un tempo concordanti e discordanti, ma inseparabili nella loro unità. Il frammento 67 rivela chiaramente tale unità dei contrari (contrari in quanto appartenenti alla stessa specie): infatti guerra pace, sazietà fame, inverno estate e tutto ciò che comporta contrarietà reale non sono separati fra loro da un trattino scritto che renderebbe evidente la loro distinzione ed irriducibilità. La mancanza del trattino separativo sta ad indicare invece la loro profonda unità armonica: non può esistere pace senza guerra, sazietà senza fame e così via. Nella lotta fra contrari, che Eraclito chiama conflitto o contesa (pòlemos), si può addirittura intravedere una dottrina della conoscenza, in quanto noi non possiamo conoscere un qualcosa se non c’è il suo opposto.

Ma a parte tali considerazioni, è la lettura dei frammenti citati che fa comprendere il motivo del disprezzo intellettuale che Eraclito ebbe verso Omero, Pitagora ed Esiodo in particolare.

Di Omero egli criticava soprattutto l’invocazione per una pace eterna fra gli uomini a conclusione della guerra di Troia narrata nell’Iliade. Una pace eterna che sarebbe stata la calamità peggiore, perchè popoli senza capacità aggressiva sarebbero stati distrutti da altri popoli aggressivi. In ogni caso, si aggiunga, la mancanza del pòlemos avrebbe causato l’aumento di un numero insopportabile di umani che avrebbe annientato la vita stessa della terra. Di Pitagora egli criticava invece il dualismo radicale fra i contrari. Infatti anche Pitagora riteneva che la realtà del mondo fosse caratterizzata da dieci opposizioni fondamentali (pari-dispari, limite-illimitato, maschio-femmina, bene-male, luce-tenebra e così via), che erano tuttavia nettamente, ossia dualisticamente, separate fra loro senza quindi essere in un rapporto armonico ed unitario. Ed infine di Esiodo dirà che questi distingueva nettamente il giorno dalla notte non comprendendo che essi sono “una cosa sola”.

Eraclito insomma considerava costoro incapaci di comprendere che le opposizioni reali della vita non sono scisse fra loro, in quanto non esiste un negativo assoluto o un positivo assoluto come per esempio in Omero (solo la pace è buona), e che, invero, nel cosiddetto negativo vi è il positivo e viceversa, oppure, meglio ancora, che i contrari proprio perché reali ed esistenti e imprescindibilmente legati fra loro sono entrambi positivi. Questo significa che gli opposti per Eraclito sono anche complementari. Infatti se le opposizioni vengono intese irriducibili fra loro come in Pitagora o, più tardi come presso i Manichei e i loro seguaci o i calvinisti anglo-americani, si ottiene un dualismo che di fatto impedisce una qualsiasi forma di unità. Per cui, come ebbe a dire Guènon, “…l’opposizione tra due termini non può fare a meno di esistere, e possiede una realtà relativa a un determinato livello di esistenza, non meno vero è che tale opposizione deve scomparire in quanto tale e risolversi armonicamente, per sintesi o integrazione, col passaggio ad un livello superiore” (5).

Ciò che il filosofo ora citato intende dire è che ogni dualità deve alla fine scomparire, per equilibrarsi nell’unità. Deve cioè tornare ad essere complementare, perché altrimenti, in una realtà duale senza integrazione, trionferebbe necessariamente il caos e lo squilibrio perenne. In Eraclito la dottrina dei contrari è assolutamente monistica, come s’è visto nei frammenti 50 e 41. E tale monismo risulta ancora più evidente nel fr. 10, detto il frammento della syllàpsis, che così dice:

“Rapporti. Intero non intero, concordante discordante, consonante dissonante, da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose”.

La parola greca syllàpsis viene tradotta qui come rapporti, ma altri la traducono come congiungimenti o connessioni. Comunque sia, la parola indica chiaramente che tutti i termini vanno a coppie, e che ogni coppia, come scrive Diano (noto studioso e traduttore di Eraclito) nel commentare tale frammento, costituisce una particolare connessione che è appunto la coincidenza dei contrari.

E questo risulta chiaro nella frase successiva del frammento dove si comprende che il dualismo, pur restando presente, converge in una unità superiore che è appunto l’Uno. Il “concetto” dell’ Uno si collega certamente con il “ concetto” di Infinito di Anassimandro, in quanto l’Uno, inteso come l’Infinito (che in quanto tali si identificano), è il contenitore dei contrari. L’Uno però, proprio perché è infinito ed indeterminato, non è la somma dei contrari, cioè il loro insieme. In quanto contenitore, Esso è al di là dei contrari stessi, poiché sarebbe determinato, in quanto i contrari sono determinazioni: l’Uno non può che essere la negazione di ogni determinazione, poiché è al di là di ogni parte. Esso è assolutamente trascendente, e come dirà giustamente Plotino (che fu detto il filosofo dell’Uno), esso è àmorphos (privo di forma) e aneìdos (privo di figura) e quindi al di là dell’Essere e del Non-essere ( che sono, per la loro somma estensione concettuale, i contrari primi), e cioè del principio di manifestazione e del principio di non- manifestazione. Essi sono comunque principi sempre collegabili a ciò che è finito, ossia ad ogni forma vivente, mentre l’Uno è infinito. Tuttavia l’Uno, in quanto contenitore dei contrari, e ne è l’Unità, pur nella sua trascendenza non è estraneo rispetto al mondo, in quanto Esso è soprattutto capacità unificante”. La veduta della coincidentia oppositorum troverà in epoca rinascimentale due grandissimi interpreti, Cusano e Bruno, che proprio approfondendo questo fondamentale frammento eracliteo, concorderanno nel ritenere che nell’Infinito Uno tutte le determinazioni contrarie coesistono e quindi si annullano. Cusano, in particolare, nel suo libro “La dotta ignoranza” si avvarrà di una nuova logica, che egli chiamerà logica dell’intelletto, basata proprio sul principio della coincidenza degli opposti con la quale, sia pure in forma ipotetica o congetturata, cercherà di spiegare attraverso i concetti di complicazione e di implicazione il modo con il quale dall’Uno si dipartono tutte le cose e come tutte le cose poi ritornino ad Esso.

Heidegger sottolineerà questa capacità unificante dell’Uno: “L’uno non è un uno (eins) per sé , che non avrebbe a che fare con tutte le cose, ma è l’Unificante” (6).

Anche Cusano afferma che è impossibile spiegare alcunché dell’Infinito in quanto tale, tant’è che egli lo chiamerà il Dio nascosto, un dio che può rivelarsi a noi solo nella nostra finita soggettività e che quindi sarà sempre al di là di noi. Bruno dirà chiaramente che vi è un dio nel mondo (Deus insitus omnibus) che è il dio che si manifesta nella natura, cioè il dio finito o Essere (che non è il vero dio) e il Dio che è sopra le cose (Deus super omnia) che è il vero Dio, sul quale non possiamo dire nulla, se non, appunto, che è coincidenza degli opposti.

La dottrina dei contrari ha allora il fondamento nell’Uno stesso che la “assorbe” e la annulla in sé. I contrari sono nell’Uno pur non essendo l’Uno. Essi in realtà, con la loro intima connessione regolano la vita dell’Essere (l’Uno trascendente attraverso i contrari diventa uno immanente), cioè di tutta la natura che si manifesta. Nulla, secondo Eraclito, sfugge a tale “Legge”. La vita, a partire da quelle delle galassie per giungere a quella dei microbi, è soggetta alla lotta e al conflitto: tutto ciò che diviene si trova e troverà al di dentro di questo destino.

Tuttavia egli non ha una veduta pessimistica come quella del suo predecessore Anassimandro. La contesa era considerata da questi come un’ingiustizia dovuta alla rottura originaria (la nascita dei contrari) avvenuta all’interno dell’Infinito, che doveva essere scontata espiandone la colpa. La precarietà del mondo dovuta all’incessante conflittualità non rappresenta per Eraclito un’immagine terribile e disperante che fa della vita un episodio temporale sofferente, ma al contrario, pur comprendendo la tragicità dell’esistenza, la accetta con un fatalismo consapevole, perché, come ebbe a dire Nietzsche, esso ci insegna ad amare il destino.

Il frammento che rivela questa tragica, ma anche realistica adesione all’esistenza, è il numero 52, che qui riportiamo:

“Il tempo è un bambino che gioca coi dadi: di un bimbo è il regno”.

Il tempo è il divenire che trascina con sé gli esseri viventi e che arreca il giudizio sulla loro vita. Come tale però egli non giudica, perché è come un bambino. E come si sa, il bambino simboleggia l’innocenza spontanea, in quanto il bimbo vive perché vive e non si chiede nulla. Egli aderisce all’attimo presente con tutta la sua pienezza, e in tale adesione egli mette tutto se stesso, in quanto egli gioca coi dadi (si può ritenere che vivere l’attimo temporale come se fosse perpetuo è un’anticipazione della dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale di Nietzsche) e nel gioco si dà con tutto se stesso. Ecco che qui il gioco coi dadi, che comporta fortuna, ma anche abilità, è davvero il simbolo del pòlemos , che in altri frammenti è rappresentato invece col il simbolo del fuoco. Il bambino (il tempo) è l’innocente che gioca e in questa attività dimostra tutta la sua gioia ed impegno, ma nel contempo egli è anche crudele poiché nel gioco (nel conflitto) ci sono i vincitori e i vinti. Del resto il frammento 53 conferma che è il pòlemos a fare alcuni dei ed altri uomini, alcuni schiavi ed altri liberi.

Forse per questo motivo Nietzsche lo definirà addirittura il filosofo della “hybris” (dismisura, tracotanza o insaziabilità vitalistica), poiché riteneva che il filosofo greco sapesse sì che la vita fosse intrisa di dolore, ingiustizia, colpa, ma che “… non l’empietà, bensì il sempre risorgente impulso del gioco chiama altri mondi alla vita. Talora il fanciullo getta via il suo trastullo: ma ecco che subito ricomincia con estro innocente” (7).

Tuttavia l’opinione di Nietzsche non è del tutto corretta. Se è vero che la vita degli enti è una continua, incessante e sempre riproducentesi lotta, è anche vero che Eraclito non può essere considerato il filosofo della hybris.

Il fr. 43 è assai importante e significativo a tal riguardo: “Bisogna spegnere la dismisura più di un incendio”.

La dismisura, che è appunto la hybris, non può essere alimentata che con la superbia o la prepotenza. Essa appiccherebbe un fuoco, quel fuoco che per davvero …governa tutte le cose…(fr. 64), ma che se lasciato divampare con tutta la sua violenza distruggerebbe tutte le norme che garantiscono l’ordine sociale che quindi sarebbe la mala pianta di ogni tirannide. La testimonianza di Diogene Laerzio riporta nella sua “Vite e dottrine dei filosofi” (libro IX, 15) che il grammatico alessandrino Diodoto, che aveva a disposizione tutta l’opera di Eraclito e non solo i frammenti, aveva attestato che il poema del filosofo non si occupava solo della natura (physis) ma soprattutto dello stato (politèia) che veniva concepito conforme alla natura stessa.

Per cui il Lògos dei contrari è, in senso politico, il nòmos, la legge, ed esso va tenuto in equilibrio, cercando di evitare che si formino degli eccessi, poiché questi scatenerebbero una reazione contraria che darebbe il via al disordine e all’ingiustizia.

E’ presumibile che egli ritenesse che il pòlemos vissuto nella comunità non dovesse essere vera e propria guerra, bensì competizione, concorrenza, lotta, evitando per quanto possibile che queste eccedessero nel sopruso. In tal senso egli propugnava il governo dei migliori, degli aristocratici (Uno per me vale diecimila, purchè sia il migliore” (fr. 49), perché i più non erano in grado di comprendere il Lògos (… la maggioranza pensa invece a saziarsi come bestie) (fr. 29), mentre le persone più abili e consapevoli, proprio perché lo conoscono, impedirebbero l’accendersi della conflittualità. E in effetti, nel fr. 121, egli augura agli Efesii che vadano tutti ad impiccarsi, poichè “…essi che hanno mandato in esilio Ermodoro, l’uomo fra loro più abile…” il quale eccelleva non negli eccessi, ma nella compostezza e nella conoscenza delle leggi (era un monoteta) e che propugnava la morigeratezza dei costumi. Egli rifiutò la sottomissione ai Persiani del re Dario e restaurò l’uguaglianza dei cittadini di fronte alle legge (l’isonomia). Ma gli Efesii non volevano che ci fosse fra loro uno più abile di tutti e che governasse secondo equità: e per questo lo esiliarono.

Pertanto, sebbene il Discorso sia simboleggiato dal fuoco, si deve ritenere che l’ideale politico proposto da Eraclito fosse quello basato sul concetto di isorropia, ossia di equilibrio armonico.

Il fuoco è infatti sempre vivente e coincide con l’ordine universale (fr. 30). Ma l’ordine è dato dalla dottrina dei contrari, quindi il fuoco è ciò che mette ordine. E’ evidente che ciò che mette ordine non è un elemento fisico (come hanno affermato Burnet o Reale sulla scia del tutto errata di Aristotele) ma un principio razionale che appunto ordina il mondo secondo la sua maggiore o minore intensità. Il fuoco sempre vivente è un perpetuo temporale, in quanto sempre era (passato), sempre è (presente), e sempre sarà (futuro), che penetra ed attraversa la natura e la società stessa (si ricordi che il perpetuo è temporale, mentre l’eterno è senza tempo). Esso è il pòlemos perché è il simbolo dell’energia e della trasformazione che tutto cambia, pur rimanendo perpetuo (Mutando sta fermo) (fr. 84a).

Proprio perché il fuoco è anche il simbolo della trasformazione, molti hanno ritenuto che Eraclito fosse il filosofo che esaltava il divenire (Hegel e Nietzsche soprattutto). In realtà oggi, grazie agli studi sempre più accurati, si è del parere che Eraclito sia il filosofo che impernia tutto il suo pensare sulla contrarietà del reale (in particolare da parte di studiosi come Giannantoni, Snell e lo stesso Colli).

E’ evidente che dare una interpretazione condivisa dei contenuti della filosofia eraclitea è impossibile, anche perché i pochi frammenti che possediamo non possono chiarire in modo esaustivo il suo pensiero. Ci sono frammenti, tra cui si può citare i due più famosi, come il 49a “Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo” e il 91a “Non è possibile entrare due volte nello stesso fiume” (gli altri che parlano del divenire sono il 36, il 62, il 76, l’88 e il 90) coi quali si evince chiaramente che Eraclito concepiva la realtà della natura come diveniente, una realtà che fu sintetizzata più tardi con la formula del pànta rei, del tutto scorre.

Eraclito è, invero, il filosofo della dottrina dei contrari che implica, proprio per la sua essenza, la possibilità del divenire. Per cui l’aspetto dialettico dei contrari è predominante, soprattutto nell’ambito sociale. Il processo del divenire si può spiegare benissimo in verità anche senza avvalersi della logica dialettica: Platone nel “Sofista” e Aristotele nella “Fisica” lo dimostrano ampiamente. Anzi, quest’ultimo è stato il vero inventore, per così dire, del linguaggio che spiega il movimento servendosi dei concetti di potenza ed atto.

Pur tuttavia c’è una strettissima correlazione fra dialettica dei contrari e il divenire: infatti se il mondo è dominato dalla contesa, come sarebbe possibile la lotta senza il movimento temporale? Il conflitto è fuoco che si muove e che stabilisce l’ordine divino, che secondo Eraclito avviene all’interno di una circolarità che mai ha inizio e mai una fine, poiché “Comune nel cerchio è il principio e la fine “ (fr. 103).

Perciò si può affermare che la dialettica degli opposti e il principio dell’isorropia abbiano rappresentato l’essenza culturale e vitale del popolo greco antico, almeno fino ad Aristotele (compreso). Una essenza che mai andava disgiunta dal comune sentire dei Greci di allora. Gli Dei più interrogati, più ascoltati e vissuti in quel mondo lontano erano Dionisio e Apollo e sicuramente tutta la filosofia di Eraclito, che, come s’è visto, ha un carattere oracolare, era cioè pervasa da un sentimento rivelativo che il fr. 51, già citato, ma che riportiamo ancora, mette in piena luce:

Non comprendono come, pur differendo, con se stesso concordi. Armonia di entrambe le parti, come quella dell’arco e della lira” .

L’arco e la lira sono gli oggetti prediletti da Apollo, che spesso viene rappresentato quando li porta con sé. Essi sono in armonia contrastante fra loro (l’arco dà la morte, la lira allieta, con la musica, la vita): tuttavia essi sono i simboli del dio che è, ricordiamolo, il dio della razionalità serena.

Colli comprese in profondità tale apparente contraddizione:

Nella visione cosmica essi si identificano (l’arco e la lira) in quanto archetipo, unico geroglifico apollineo, strumento di leggiadria e di morte. Un disegno ricurvo, secondo cui in età arcaica si costruivano l’arco e la lira, congiungendo per entrambi, in diverse inclinazioni, le corna di un capro, -animale di Dionisio! – ci offre l’intuizione unificante. Bellezza e crudeltà vengono da uno stesso dio, da una stessa immagine primordiale” (8).

E’ un frammento, il 51, decisivo per afferrare sino in fondo il senso profetico della dialettica eraclitea. Gli strumenti di Apollo sono anche quelli appartenenti nel proprio corpo da Dionisio.

Per Eraclito il dionisiaco comportava un vivere così intenso che traboccava e si liberava ad un più di vita, grazie ad una rottura ontologica di livello. Questo sbocco attuava il risveglio di sé che portava all’apollineo; quindi Dionisio ed Apollo si fondono in una unità superiore: non può esistere il Kàos senza Kòsmos , l’irrazionalità senza razionalità (9).

Questo significa che Eraclito non era il filosofo, come pensava Nietzsche, che esaltava la hybris, ma il filosofo che anticiperà il concetto protagoreo e platonico-aristotelico di mètron, cioè il concetto di misura e di equilibrio.

Egli già a quel tempo si rendeva conto dei pericoli di un mondo dove l’indifferenza dei costumi, delle razze e delle culture ci poteva portare. In suo frammento consolatorio, ma anche profetico, egli capiva che il Discorso vuole le differenze e la varietà del vivere.

Questo frammento, il 7, così dice:

Se tutte le cose diventassero fumo, le narici potrebbero riconoscerle”.

Il fumo è l’omologazione, la cancellazione delle differenze, è la pretesa della ragione calcolatrice, che oggi è quella del denaro e della quantità che uniforma, perché l’indistinto è più semplice e facile da guidare e da gestire. E in effetti molte volte nella storia delle culture umane abbiamo osservato che ci sono stati, in particolare nella cultura occidentale che è stata la più tecnico-razionale di tutte, tentativi di livellare la società di cui il mercatismo economico-tecnico attuale è l’espressione più potente (il Gestell heideggeriano).

Ogni volta, soprattutto quando tutto sembra venire avvolto dalla coperta nebbiosa della omologazione generale e cioè quando tutto diventa fumo, il Lògos dialettico (le narici) che governa il mondo non solo apparentemente, ma soprattutto di nascosto (La natura (il Discorso) ama nascondersi) ( fr. 123), (Più potente è l’armonia nascosta di quella che appare) (fr. 54), fa rinascere le sue gioiose differenze, che però solo in una comunità basata sull’ “unicuique suum”  possono attuarsi.

Il “pòlemos” vuole sempre che tutte le cose possano essere riconosciute nelle loro diversità, pur se nell’equilibrio: questa è la legge, non umana, bensì divina, che Eraclito ci ha rivelato: per cui l’aristocratismo eracliteo si può apertamente predisporre solo all’interno di una comunità vivente. Aristocratico è perciò colui che sta nel giusto mezzo, partecipando a quello che è il destino della propria gente: “E’ necessario che il popolo combatta per la legge allo stesso modo che per le mura” (fr. 44).

Il dramma del nostro mondo attuale sta in queste parole: infatti non si è palesata ancora una vera aristocrazia spirituale, mentre le comunità si decompongono e le invasioni indifferenziate sempre più si accrescono.

 

NOTE:

1.   G.COLLI, La sapienza greca, vol.I, ed. Adelphi, Milano 1977.

2.   La traduzione del frammento riportato e di quelli successivi è quella di F.TRABATTONI, I frammenti, ed. Marcos y Marcos, Milano 1989. Si sono altresì consultate, per un confronto, altre importanti traduzioni come quella di M.MARCOWICH, Frammenti, ed. La Nuova Italia, Firenze 1978, e di C.DIANO-G.SERRA, I frammenti e le testimonianze, ed. Mondatori, Milano 1993.

3.  K.JASPERS, I grandi filosofi, Eraclito, ed. Longanesi, Milano 1973, p.721.

4.  M.HEIDEGGER ha scritto vari saggi e libri su Eraclito: i suoi lavori più importanti a riguardo sono: “Seminari”, ed. Adelphi, Milano, “Eraclito”, ed. Mursia, Milano 1993, e in collaborazione con E.FINK, Dialogo intorno a Eraclito, ed. Garzanti, Milano 1992.

5.  R.GUENON, Il simbolismo della croce, ed. Luni Editrice, Milano 2003, p.55.

6.  E.FINK-M.HEIDEGGER, Dialogo,cit., p.60.

7.  F.NIETZSCHE, La filosofia nell’età tragica dei Greci, ed. Newton, Roma 1991, p.242.

8.  G.COLLI, Dopo Nietzsche, ed. Adelphi, Milano, p.45.

9.  Il primo a comprendere con chiarezza la profonda unità fra le due divinità fu J.EVOLA in: “Cavalcare la tigre”, ed. Scheiwiller, Milano 1971, pp.66-67.  

 

BIBLIOGRAFIA

Testi usati e consultati.

G.COLLI, Dopo Nietzsche, ed. Adelphi, Milano 1974.

G.COLLI, La nascita della filosofia, Vol.I, ed. Adelphi, Milano 1975.

G.COLLI, La sapienza greca, Vol.I, ed. Adelphi, Milano 1977.

J.EVOLA, Cavalcare la tigre, ed. Scheiwiller, Milano 1961.

 E.FINK-M.HEIDEGGER, Dialogo intorno ad Eraclito, ed. Garzanti, Milano 1992

G.FRACCARI, Eraclito e la civiltà mediterranea, ed. Bresci, Torino 1981.

R.GUENON, Il simbolismo della croce, ed. Luni Editrice, Milano 2003.

R.GUENON, Gli stati molteplici dell’essere, ed. Adelphi, Milano 1996.

M.HEIDEGGER, Eraclito, ed. Mursia, Milano 1993.

M.HEIDEGGER, Seminari, ed. Adelphi, Milano 1992.

R.LAURENTI, Eraclito, ed. Laterza, Bari 1972.

G.PASQUALOTTO, Il tao della filosofia, Pratiche Editrice, Parma 1989.

G.REALE, La filosofia antica, Pubbl. Università Cattolica, Milano 1989.

B.SNELL, Il linguaggio di Eraclito, ed. Corbo, Ferrara 1989.

E.SEVERINO, Il parricidio mancato, ed. Adelphi, Milano 1985.

E.SEVERINO, La filosofia antica, Vol.I, ed. Rizzoli, Milano 1984.