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Riscoprire il pensiero originario

di Flores Tovo - 12/05/2020

Riscoprire il pensiero originario

Fonte: Flores Tovo

                

La scienza non pensa” scriveva Heidegger (1). Con questa frase lapidaria il filosofo intendeva dire che la scienza non pensa come pensano i pensatori, che, in quanto tali, si chiedono il perché delle cose e il ciò che è il più considerevole, ossia l’Essere. Heidegger aggiungeva che questa affermazione, che può apparire scandalosa per l’opinione comune, non è un difetto, ma un vantaggio per la scienza stessa, poichè può dedicarsi alla ricerca pratica in ambiti specifici, senza domandarsi sul perché essenziale, ma descrivendo il “come” un fatto  accade. E’ evidente che anche gli scienziati devono avvalersi del pensiero, ma il loro pensiero è un pensiero calcolante che guarda alla misura quantitativa e alle statistiche, per cui la conoscenza delle essenze (il ciò che è delle forme del mondo) come diceva Galilei,  spetta solo a Dio. Va da sé, poi, che il pensiero calcolante, per conseguenza e per reciprocità, si leghi necessariamente alla tecnica. Il successo storico di questo connubio fra scienza e tecnica, che si è posto poi al servizio del profitto capitalistico, ha determinato l’ascesa irresistibile, soprattutto in ambito economico e militare, di una veduta culturale onnicomprensiva che pervade il mondo attuale in modo pressoché totale.  Una veduta che, seppur potente, possiede tuttavia dei limiti intrinseci ben precisi che il genio scientifico e filosofico di Blaise Pascal seppe intravedere già nel 1600, e che sono: 1) l’empirismo, che come tale è sempre contestabile; 2) l’indimostrabilità dei suoi primi principi primi, come ad esempio gli assiomi o i postulati della matematica, e delle intuizioni spazio e tempo (non non sono mai riducibili a semplice misurazione). Inoltre, possiamo aggiungere,  questa veduta  è incapace di spiegare la finalità di ciò che avviene.  Infatti se si chiede ad uno scienziato cos’è un virus, o che cos’è la gravitazione universale o cos’è la luce, egli risponderà con una formuletta matematica, che non dice e non dirà nulla della loro realtà. Del resto  i più grandi epistemologici del Novecento, quali Thomas Khun e Paul Feyeradend,  mettevano in risalto con estrema lucidità la precarietà e  l’opportunismo dei paradigmi scientifici.

Nessuno di questi critici  intendeva svilire l’importanza della scienza e la tecnica moderne: semplicemente volevano sottolinearne i limiti: esse non dicono nulla sulla vita, sulla morte, sulla giustizia, sulla bellezza, sui sentimenti in generale e sullo stesso pensiero umano. Esse si rivolgono, come si diceva, alla pura descrizione degli avvenimenti attraverso il calcolo.

Bisogna allora porsi una domanda. Se il pensiero calcolante fallisce miseramente quando cerca di spiegare la storia umana con le sue traversie e successi, vi è un’altra via del pensiero che almeno ci possa aiutare a comprendere il perché degli avvenimenti con lo scopo di dipanare il velo di Maya che nasconde il senso del nostro destino?

Ecco che ci può venire in soccorso un pensiero abbandonato e che ci ha abbandonato: il pensiero originario. Esso si disvela sin negli  albori aurorali della nascita della filosofia come pensiero dialettico (2) o più precisamente come dialettica dei contrari combacianti e complementari, sebbene discordanti.

Il lògos dialettico o Discorso, come lo definivano i Greci antichi, nasce nel momento della storia umana in cui si palesano ovunque, dall’Oriente all’Occidente, profonde contraddizioni e differenze sociali. Non è un caso che il periodo assiale, in cui si diffonde  la filosofia all’interno del mondo delle civiltà, risalga all’incirca a 2.500 anni fa. La filosofia, intesa come pensiero profondo, nasce quando le rotture e le divergenze all’interno delle società diventano radicali, e cioè quando la vita degli uomini era caratterizzata dal conflitto a tutti i livelli. Eraclito chiamò tale conflitto “pòlemos”, che per lui era il lògos, il Discorso, ossia la legge dei contrari contrastanti. Si è spesso creduto che questo filosofo esaltasse la realtà di tale principio inteso come contesa e lotta: il realtà egli proponeva un giusto equilibrio fra i contrari, affermando, che “bisogna spegnere la dismisura più di un incendio” (fr. 42). La filosofia nasce quando le lacerazioni e le contese sociali diventano socialmente insopportabili. Essa si propone allora di indicare delle vie per ripristinare l’armonia sociale (isorropia). Pure in Estremo Oriente la filosofia morale di Confucio e soprattutto il libro del “Tao-te-ching”  di Lao-zu contengono ed esplicitano questa esigenza.

La grande filosofia si interroga principalmente, come insegnò Platone, sull’Essere, sulla giustizia, su ciò che è bene e bello, su ciò che è vero e falso: tutti gli altri argomenti sono secondari. Ecco il perché del grande disprezzo odierno verso il pensare dialettico: esso è un pensare che coglie le fratture e le contraddizioni interne di un sistema storico-sociale, e proprio per questo è un pensare sommamente rivoluzionario.

Le incredibili ingiustizie e i mali sociali che ammorbano le società contemporanee vengono ad essere celati o sottaciuti da parte di un potere oligarchico che mai è stato così criminale, se si pensa che circa 1.000 persone controllano o detengono quasi il 90% del PIL mondiale. E’ chiaro che questi individui, che definire satanici è dir poco, hanno la capacità di comprare tutto: mezzi di comunicazione, professori universitari, eserciti, politici.

 Riscoprire perciò la logica del  pensiero originario può essere lo strumento decisivo per mettere in evidenza in modo chiaro e coerente le contraddizioni insanabili del nostro tempo. Sicuramente il filosofo che più di ogni altro ci può indicare delle vie di illuminazione razionale di questa logica è colui che oggi è considerato un cane morto della filosofia, mentre è stato probabilmente il più grande pensatore di tutti i tempi: mi riferisco ad Hegel, che ha saputo più di ogni altro arricchire enormemente il significato e il funzionamento del pensiero originario. Visto però che esiste una permanente critica serrata e talvolta offensiva (spesse volte scritta senza averlo mai studiato in profondità) nei suoi confronti, lo scrivente ha ritenuto opportuno fare alcune delucidazioni attorno al suo pensiero. Di pari passo il suo allievo Marx è oggetto di tale considerazione, nonostante i recenti e rimarchevoli tentativi di riportarlo in auge, quali quello di Costanzo Preve, Gianfranco La Grassa e Diego Fusaro. C’è da chiedersi del perché di tanta acrimonia: si può comprendere tale sentimento nei confronti di Marx, che è stato il fondatore teorico del comunismo, ma non certo verso Hegel. Il realtà la risposta che spiega questa avversione è molto facile da capire: essa è dovuta al fatto che si tratta di pensatori dialettici.

Ma perchè riteniamo che Hegel sia oggi  un pensatore indispensabile per intendere la realtà dell’abisso in cui si è precipitati?  Cerchiamo allora di individuare quelli che sono i punti essenziali del suo pensiero. In primo luogo  egli afferma che la verità deve cogliere l’intiero. Che cosa significa? Significa che se si studia  un’epoca storica, una formazione sociale complessiva bisogna indagare ogni singola componente essenziale, attraverso una “forma di esposizione” (Darstellungsweise) capace di scoprire le contraddizioni dialettiche presenti per poi portarle alla comprensione assoluta del tutto, ossia al Concetto (Begriff). Per Hegel, infatti, “tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale”. E mai frase tanto famosa è stata ed è travisata. Tutti i manuali oggi di moda nei licei o nell’università descrivono questo pensiero come la pretesa di giustificare tutti gli avvenimenti storici, in quanto, secondo costoro, per Hegel, tutto ciò che avviene o è avvenuto è il prodotto di un disegno prestabilito dalla ragione. In verità egli spiega molto bene come avviene il passaggio al “Concetto”. Nel suo libro fondamentale che è “La scienza della logica” la ragione, studiando la realtà e le sue relazioni sostanziali (si veda il capitolo “La logica dell’essenza”) rileva che il rapporto causa ed effetto è basato sulla azione reciproca, che è sia attiva che passiva, un’azione che innesca un processo che sarebbe di per sé andrebbe all’infinito (un cattivo infinito, dice Hegel). Sennoché la catena delle cause e degli effetti ripiega su se stessa proprio per la l’azione reciproca che lega loro dando luogo ad un movimento circolare. Un sistema reale è quindi composto da concause che vengono portate al Concetto concreto col quale si ha l’intelligibilità in generale della realtà, che non è composta più da determinazioni indipendenti una dall’altra,  ma da determinazioni che vengono unite dall’attività del Concetto, che comprende la totalità dell’insieme (La logica del concetto). Il Concetto è quindi una sorta di “Io penso” kantiano che però ha in più la capacità di unificare la realtà storica non solo attraverso categorie o giudizi sintetici a priori che si esprimono attraverso l’opera di un intelletto astratto che serve soprattutto per la comprensione fisico-matematica, ma che coglie le contraddizioni dialettiche del divenire storico. L’Io penso kantiano si occupa di scienza. Il Concetto, invece, grazie al lògos della contraddizione dialettica dei contrari, unifica tutta la realtà. Hegel è infatti il filosofo che riporta l’attività dello spirito allo studio dell’ontologia sociale e questo risulta chiarissimo nel suo altro capolavoro “La fenomenologia dello spirito”.

Cosicchè la realtà storica, portata al Concetto, viene compresa nella sua interezza. Detto così sembrerebbe perciò che ci sia una equazione perfetta fra razionalità e realtà, fra essere e dover essere, per cui che basta applicare la logica hegeliana per comprendere e giustificare tutto. In verità, come ha ben rilevato Costanzo Preve la realtà dei fatti storici non è concepita da Hegel come una realtà permanente e compiuta e perciò statica, ma viene pensata come una modalità di un essente-in-possibilità (dynamei on). La realtà del mondo storico è sempre in divenire ed Hegel ammette anche la casualità di esso. La filosofia, che è scienza del sapere storico, è simboleggiata da Hegel come la nottola (la civetta) di Minerva che si alza sul far del crepuscolo quando la realtà è bell’e fatta. Essa non è quindi in grado di prevedere il futuro, ma solo di comprendere il passato grazie alla forma di esposizione dialettica, e grazie, aggiungiamo noi, al principio leibniziano di ragion sufficiente, un principio col quale comprendiamo che se un fatto è avvenuto così, vuol dire che c’era una ragion sufficiente (non necessaria) che avvenisse così e non diversamente. E’ chiaro tuttavia che per Hegel il lògos della contraddizione dialettica è superiore ad ogni altro principio logico quando si tratta di intendere i percorsi della storia umana. Capire il passato, portarlo al Concetto, è certamente fondamentale per interpretare e prevedere il futuro, il quale, comunque, può sempre presentare eventi imprevedibili. In questo senso la filosofia di Hegel è filosofia della libertà, perché in essa non si trova mai nessun programma escatologico, né alcun storicismo provvidenzialistico. Tanti suoi detrattori, spesso volte millantatori, tra cui Popper, Colletti, Severino, Loewith, Habermans, Abbagnano ecc., hanno creduto che il giustificazionismo provvidenzialistico fosse la caratteristica principale del suo pensare. L’allegoria della nottola di Minerva è lì che dimostra il contrario. La filosofia (la nottola) può spiegare il passato, non predire il futuro. Questa  frase  di Hegel fa piazza pulita di ogni dubbio:

La filosofia è il proprio tempo colto nei pensieri. Credere che una qualsiasi filosofia vada oltre il suo mondo presente, è tanto assurdo quanto credere che un individuo possa saltare al di là del suo tempo, che salti Rodi.” (3).

 In secondo luogo, un altro aspetto fondamentale per capire il filosofo di Stoccarda è quello di chiarire che cosa egli intende quando afferma che il “finito è ideale”. Si è creduto, anche in questo caso, che il finito, inteso come natura, o anche come vita degli enti che nascono e muoiono, non avesse alcuna dignità, in quanto la sua essenza era nell’infinito, cioè fuori di sé (aus sich). Anche su questa questione  c’è stato un fraintendimento totale. Il finito per Hegel esiste come natura non è parvenza illusoria, così come la storia umana soggetta al divenire. Quando egli afferma che il finito è il prodotto di una alienazione o autoestranazione dell’Idea, egli intendeva dire che l’Infinito produce al proprio interno il finito: una produzione peraltro necessaria. Che cosa sarebbe infatti un Infinito senza il finito al suo interno? Vuoto assoluto. L’Infinito deve produrre il finito se vuole essere davvero infinito. E’ evidente allora che il finito ha il suo fondamento nell’Infinito poiché è da lì che proviene. La sua essenza è nell’Infinito. Dire perciò che il finito è ideale significa nobilitarlo.

La genialità di Hegel, che per davvero ha spiegato nei minimi dettagli cos’è la contraddizione dialettica, consiste nell’aver concepito il finito come il momento dialettico per eccellenza. Il finito, che è principalmente, come si scriveva, non solo la natura, ma la storia umana, è la sede delle lotte e delle contraddizioni. L’aspirazione dell’uomo sarebbe quella di tornare nell’Infinito. L’esserci umano infatti è l’unico ente che “sente” l’Infinito, che le religioni definiscono Dio. L’esserci umano, che sa di dover morire, sa anche di appartenere a ciò che lo trascende, cioè all’Infinito. L’Aufhebung (il superamento-mantenimento) rappresenta la tensione verso l’Infinito, ossia la negazione della negazione, che  potrebbe essere letto romanticamente anche come il desiderio struggente (Sehnsucht) di tornare all’Infinito. Finchè ci sarà l’uomo sulla terra, la storia non cesserà mai, poiché la fine dei conflitti comporterebbe la fine di tutto. Quando, con la ragione, si comprende che il vero Infinito contiene sia l’Infinito astratto che il finito, si ha lo Spirito, che è la visione eterna della verità.  La triadicità hegeliana di Idea-Natura-Spirito rappresenta la spiegazione razionale che corrisponde all’allegoria religiosa della Trinità cristiana Padre-Figlio-Spirito Santo (4). In questo senso Hegel è sia immanentista che trascendentalista, poichè l’Infinito, in quanto tale, trascende sempre il finito, altrimenti si determinerebbe, e tuttavia nella stessa triadicità dinamica il finito è da sempre nell’Infinito.

Ecco che il ragionamento dialettico triadico, non ha nulla di misterioso o di contorto. La storia è fatta di conflitti e guerre.  Alcuni grandi storici del Novecento, come Toynbee, Nolte, Spengler hanno scritto dei libri-capolavoro spiegando gli eventi seguendo il metodo della contraddizione dialettica: amico-nemico, bene-male, utile-dannoso, azione-reazione, sfida-risposta sono le categorie dialettiche storiche di questa logica da essi usate per illuminarci sul passato.

Rinunciare al pensiero originario per affidarsi solamente al pensiero astratto fisico-matematico, significa quindi tagliare il legame col nostro passato e cadere nella dimensione dell’oblio dell’essere e del deliquio che è per ora la cifra del nostro presente. Solo il pensare degli antichi ci può permettere la comprensione del nostro tempo: per questo tutti i “potenti” lo temono e lo demonizzano. Ed Hegel ha insegnato il metodo per metterlo in opera.

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Note:

1)    M. HEIDEGGER, Saggi e discorsi. Che cosa significa pensare, Ed. Mursia, Milano 1976, p.88.

2)    La dialettica originaria considera i contrari o opposti come termini o realtà viventi che appartengono alle stesse categorie. Ad esempio il contrario di giusto è ingiusto, che fanno parte della categoria della giustizia, il contrario di bene è male che appartengono alla categoria dell’etica, e così via. Tutti i contrari cono inscindibilmente connessi uno con l’altro e perciò sono complementari. Ciò che li congiunge è una Unità unificante. Il simbolo del Tao è perfetto nell’indicare l’Unità e i contrari combacianti Yin e Yang (il Tao stesso è appunto l’Uno che li trascende unificandoli). La dialettica degli opposti non è assolutamente dualistica, ma unitaria pur con le opposizioni interne. Il lògos eracliteo è questo.

Successivamente la parola dialettica ha assunto il significato di arte del ragionare, a partire da Zenone di Elea che se ne serviva per confutare gli argomenti altrui. In tal giusa è stata usata soprattutto dai Sofisti contro i loro avversari. Anche in Platone ed Aristotele è presente, ma in modo del tutto diverso dal significato originario.

 

3)    G.W.F. HEGEL, Lineamenti della filosofia del diritto, Ed. Rusconi, Milano 1966, pp. 62-63.

4)    Vedasi: T.J.J. ALTIZER, Il vangelo dell’ateismo cristiano, ed. Ubaldini, Roma 1969.

 

 

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