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Risveglio islamico e false primavere arabe

di Salvo Ardizzone - 06/03/2023

Risveglio islamico e false primavere arabe

Fonte: Italicum

1) Con la presidenza Obama si verificò un mutamento epocale della politica estera americana. All’intervento diretto americano della “guerra al terrore” di Bush, si sostituì la politica dell’equilibrio conflittuale di Obama. Tale svolta prevedeva che gli USA assumessero il ruolo dominante di arbitri indiscussi nei conflitti, affinché non emergessero altre potenze che ponessero in discussione il primato americano. La politica di Obama tuttavia diede luogo al moltiplicarsi dei conflitti bellici nel mondo (spesso provocati dagli stessi USA – vedi “primavere arabe”), e la politica estera americana registrò solo insuccessi, dato che a nessuna guerra fecero seguito nuovi equilibri stabili. Ogni impero, secondo quanto affermava Danilo Zolo, è per sua natura universalista e pacifista. Questa conflittualità permanente, diffusa nelle aree strategiche del mondo, non induce dunque a ritenere quello americano un impero mancato? La sua vocazione universalista peraltro, non è smentita dalla esportazione su scala globale di un sistema economico e politico neoliberista che è solo cosmopolita e non universale? L’impero americano non può essere definito un falso universalismo? Gli USA non sono dunque un impero atipico, quale sistema unilateralista imposto a livello mondiale?

Risp. Il concetto di impero quale siamo adusi è per essenza tellurocratico, universale quanto a principi e capacità inclusiva nell’area in cui insiste – dunque, seppur anche assai vasta, delimitata – che ordina coerentemente ai valori di cui è portatore. Ma l’impero americano è talassocratico, pretende dominio su acque per definizione prive di confini visibili, di differenze che esso sia in grado di percepire, di culture. Quindi per intenzione e sua prassi globale, con ciò proiettando sé ovunque, senza i limiti naturali imposti agli imperi tellurici, a differenza di questi avulso da culture e spazi di cui non è interprete, né sintesi, né espressione. Facitore di Storia propria non comune. Accomunato alle talassocrazie dell’età moderna: la britannica, da cui ha rilevato lo scettro, e quella olandese del Seicento. Assai distante dall’esercizio della supremazia marittima che la Spagna tenne nel “Siglo de Oro”, perché la sua anima fu forgiata nella lunga epopea della “Reconquista”, dunque tellurocratica.

Di più: quello americano, è impero talassocratico espressamente scolpito nei principi liberali e modellato dal capitalismo liberista; per sua natura - dunque - non riconosce limiti né, al di fuori dei propri, valori altri, di cui nega dignità e diritto di esistere secondo il tipico approccio liberale. A ciò s’aggiunge l’auto-percezione d’essere signore del mondo per diritto divino, per quel “destino manifesto” intriso di fanatismo messianico che pretende gli Stati Uniti “eccezionali”, unici titolati ad assegnare ruoli e a presiedere l’ordine internazionale, il loro. Dunque egemoni per “vocazione”, ma egemoni bizzarri.

Un egemone, tale perché ha instaurato un sistema che gli garantisce l’esercizio del dominio, ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo, guardandosi da azioni che possano alterarlo; è chi intende sottrarsi a quell’egemonia, o mutarne i presupposti, a provocare crisi che sovvertano gli equilibri. Invece, da quando ascesi a potenza globale, gli USA hanno intrapreso una serie di iniziative tali da sconvolgere gli assetti in molteplici quadranti di mondo (Serbia-Kosovo, Somalia, Iraq, Afghanistan, Libia a citarne alcuni) seguendo strategie improvvisate, spesso contraddittorie, dando mostra di una disfunzionalità insita nel loro sistema. Di una manifesta incapacità a “ordinare” il globo secondo i loro impulsi momentanei, un mondo divenuto troppo vasto e complesso, sempre più refrattario all’omologazione. Da qui originando una spinta al multipolarismo, ormai inarrestabile, che sta minando la pretesa egemonica americana.

Molto ci sarebbe da dire sulle caratteristiche strutturali del potere USA che ne modellano l’esercizio, ma ci porterebbe lontano. Diciamo piuttosto che, per quanto detto, la talassocrazia americana è tendenzialmente un impero globale, perché disconoscendo limiti e differenze in base alla cultura liberale, e applicando la prassi liberista, pretende di signoreggiare sul mondo. Ma non è universale, in quanto proiezione di una propria visione particolare, da imporre su scala planetaria per gli interessi del proprio sistema. Imposizione che non prevede accoglienza, inclusione o adesione, ma solo omologazione pura e semplice a un modello egemone. Che poi ciò venga realizzato col soft, hard o smart power (miscela dei primi due sempre più sbilanciata sull’hard) poco importa. 

2) La sconfitta americana in Afghanistan, sancita da una ingloriosa fuga da un conflitto astrategico perpetuatosi per 20 anni, ha avuto l’effetto di far eclissare l’immagine della “America gendarme del mondo”. Ma l’Afghanistan è ben lungi dall’essere stato pacificato. L’Afghanistan è un paese diviso in tante etnie, confessioni religiose, culture diverse ed i talebani non costituiscono davvero un modello di buon governo, né tanto meno sono in grado di costruire un sistema politico unificato. Ma l’Afghanistan è tuttavia un’area strategica di primaria importanza in Asia, storicamente soggetta ad influenze esterne, quali quella turca, iraniana, cinese, pakistana, russa ecc… Non è nemmeno da escludere un revival della influenza americana sotto mentite spoglie, data la ricchezza di materie prime del sottosuolo afgano. Quali prospettive consideri più plausibili per il prossimo futuro dell’Afghanistan?

Risp. Prima di rispondere è opportuno fare una premessa: più e prima che occupare i territori, il potere USA bada a controllarne le risorse ritenute utili e, ove assenti o difficilmente sfruttabili, inibire l’utilizzo di quel territorio ad altri destabilizzandolo o, comunque, rendendolo inidoneo allo sviluppo di progetti altrui. Paradigmatico è quanto ha fatto tra Siria e Iraq creando l’ISIS, per frenare la progressione dell’Asse della Resistenza verso il Mediterraneo, e sta provando a reiterarlo in Afghanistan, sempre con l’ISIS e altre manovre.

Ciò detto, il potere dei Taliban è instabile per l’enorme difficoltà nel gestire una situazione già drammatica, aggravata da sanzioni e vessazioni finanziarie dell’Occidente a guida USA che permangono immutate (di cui il sequestro dei fondi della Banca Centrale Afghana è uno degli esempi). A ciò s’aggiunge la pochezza della loro leadership e dall’essere principalmente espressione di una delle etnie – la pashtun – che, sebbene maggioritaria, non è rappresentativa dell’intera società composta anche da tajiki, uzbeki, hazara e, ancora, turkmeni, baluci, etc. Tutte con tradizioni tribali, culture e, talvolta, appartenenze religiose diverse.

Tuttavia, il movimento Taliban più che essere diviso, come troppe volte rappresentato sui media occidentali, è caratterizzato da differenze: da un canto, con gli anni ha costruito un gruppo di dirigenti capaci di dialogare con le potenze straniere; dall’altro, sul campo, vi è un coacervo di gruppi e capi che hanno come unico orizzonte la vallata da cui provengono. Una differenza di prospettiva che, in assenza di capi carismatici, morti nei lunghi anni di guerra, rende faticoso – a volte contraddittorio – il processo decisionale, su cui grava la continua interazione di potenze straniere.

Degli USA ho già detto, tuttavia non ritengo si possa tornare a una significativa impronta americana, neanche indiretta, non esistendo le condizioni. Semmai, proverà a esacerbare terrorismo e stenti della popolazione. A parte l’influenza indiana, interessata a penetrare nella “profondità strategica” pakistana (o che Islamabad s’ostina a ritenere tale) e aprirsi vie verso l’Asia Centrale, e quella russa, attenta a che il caos afghano non tracimi nel suo cortile di casa centrasiatico, due sono le altre potenze di cui il mainstream tiene conto: Cina e, come detto, Pakistan.

Pechino intrattiene da tempo rapporti con la dirigenza Taliban, per troncare i legami da essa intrattenuti con l’insorgenza uigura nello Xinjiang e accedere alle risorse afghane (è recente l’accordo stipulato con Kabul per sfruttare le risorse petrolifere nel bacino dell’Amu Darya). E spegnere focolai di destabilizzazione sulla rotta della “One Road One Belt Initiative”. Dunque reciproca convergenza d’interesse, viatico per durature intese condizioni locali permettendo. Del quartetto citato resta il Pakistan, dal tempo della guerra coi sovietici auto-convinto che l’Afghanistan rappresenti sua ineludibile profondità strategica nei confronti dell’arci-nemico indiano, o la racconti tale per giustificare peso, ruolo e maneggi di Servizi e militari. Da sempre manovrando per averne il controllo o destabilizzarlo, secondo logica simile agli USA ma in netta concorrenza. Alleato-avversario dell’Egemone secondo convenienza del momento.

Se posso azzardare una previsione, non per il prossimo futuro ma in prospettiva, bisogna guardare ad altro attore, obliterato nelle narrazioni mainstream per incapacità di comprensione e voluta censura: l’Iran. Per unificare e sollevare il paese, al movimento Taliban mancano non solo personalità carismatiche ma – soprattutto – una dottrina capace di parlare a tutti i segmenti della società, del tutto assente in esso ma già presente in Afghanistan: la Dottrina della Resistenza, in crescente radicamento fra gli hazara e in diffusione fra le fasce più diseredate della popolazione. Essa ha già espresso – ufficialmente dal 2014 – una forte milizia di “soldati politici”, la Liwa Fetemyoun, che ha partecipato alle fasi più dure della guerra in Siria e attualmente si è in vasta parte riposizionata a Mashhad, sua sede tradizionale nell’Iran nord-orientale, a ridosso dei confini afghani.

È da sottolineare che la Dottrina della Resistenza sia lenta a radicarsi, in quanto non si basa su un partito o un’appartenenza ma, piuttosto, sull’acquisizione di una visione del mondo, di una consapevolezza, tuttavia risulti poi impossibile da sradicare come la storia del MENA dimostra. È pure da sottolineare come essa sappia essere inter-confessionale, sia acerrima nemica del terrorismo e interpreti efficacemente le istanze degli ultimi attraverso la lingua dell’Islam, universalmente riconosciuta in Afghanistan. Inoltre, l’Iranè in ottimi rapporti con Cina e Russia, in una comune ottica di contrapposizione all’Unipolarismo, più che discreti con l’India. Resta il Pakistan, ma esso è sempre più necessitato ad appoggiarsi a Pechino per strutturale debolezza economica. È dunque in questa direzione che, a mio avviso, si deve guardare per il futuro, magari non prossimo ma nella forza delle cose.

3) Le primavere arabe, inspirate e sostenute militarmente dagli USA e dai suoi alleati (in primis Gran Bretagna e Francia), non hanno sortito gli effetti previsti. Dalle primavere arabe non sono scaturiti nuovi assetti geopolitici favorevoli all’Occidente. La Libia è attualmente divisa in due aree di influenza occupate rispettivamente da Russia e Turchia, la Siria (occupata al nord dalla Turchia), è rimasta nell’orbita russa, nello Yemen si è affermata la Resistenza islamica di ispirazione iraniana, così come nel Bahrein (seppur al momento sconfitta). In Egitto, sconfitta la Fratellanza musulmana filo - turca, si è imposto Al – Sisi, autocrate filoamericano, ma assai prossimo alla Arabia Saudita. A tale evidente insuccesso, ha fatto riscontro il progressivo disimpegno americano nell’area. La successiva stipula del Patto di Abramo, che ha comportato il riconoscimento di Israele da parte di numerosi paesi arabi, non rappresenta quindi una decisiva svolta della strategia geopolitica americana conseguente al fallimento delle primavere arabe? Il Patto di Abramo non si configura come una alleanza tra alcuni paesi del MENA (Medio Oriente e Nord Africa), del tutto simile alla Nato? Il primato americano, non si impone dunque tramite una influenza indiretta, esercitata cioè dagli USA nell’area mediante potenze locali, quali membri di una alleanza strategica funzionale agli Stati Uniti?

Risp. Gli anni della Guerra fredda hanno iscritto nelle categorie mentali europee la logica dei blocchi, delle alleanze nette, definite. Ma la logica della NATO è unica al mondo, non v’è altra area sottoposta a simile acritico assoggettamento, a un’esclusiva fonte di potere esterno, neanche nell’Occidente allargato del Pacifico. Per cui, a mio parere, è improprio parlare di somiglianze con la NATO, di rigidi allineamenti, semmai di partnership strategiche. E più che mai in Medio Oriente, dove la fuga dall’Afghanistan è stata avvertita come uno shock, il tradimento di un patto securitario, così incrinando la fiducia che i paesi del Golfo riponevano negli Stati Uniti dal 1945. Sentimento enfatizzato dalla progressione dell’Asse della Resistenza e dal percepito allontanamento degli USA dall’area.

In altre parole, Riyadh, Abu Dhabi e altre Capitali mediorientali non si sentono più garantite da Washington e cercano altre sponde, giudicando conveniente allargare autonomia politica ed economica includendo Israele e Cina nelle proprie equazioni. In tale quadro, la rilevanza degli Accordi di Abramo non va enfatizzata. Tralasciando le adesioni di Marocco e Sudan, letteralmente “comprate” dalla Casa Bianca di Trump, essi hanno fatto emergere rapporti largamente preesistenti con Israele da parte dei paesi del Golfo - peraltro non certo limitati a Emirati e Bahrein -in vista di un reciproco sostegno. Sono stati assai più un mercimonio partorito nel triangolo Jared Kushner, Netanyahu, bin Salman e avallato dal Tycoon newyorkese che un fatto politico.

È evidente che il potere USA sia sempre più restio a interventi diretti in Medio Oriente, non più suo fulcro strategico, e privilegi interventi indiretti per interposti proxi ma, esclusi attori secondari (vedi curdi e milizie varie), le potenze locali tendono sempre più a inserirsi nel risiko dell’area secondo agende e interessi propri piuttosto che quelli di Washington, seguiti per lo più se coincidenti.

4) La guerra ucraina che, come si sa, è una guerra per procura tra USA e Russia, provocherà nel prossimo futuro rilevanti mutamenti nell’ordine geopolitico mondiale. E’ certo imprevedibile del conflitto, ma è tuttavia evidente che si sta affermando un ordine mondiale multilaterale in contrapposizione all’unilateralismo globale americano che sembra destinato ad una irreversibile decadenza. Ma quali effetti prevedibili potrebbe provocare la guerra ucraina nell’area del MENA già condannata ad una permanente instabilità da decenni?

Risp. A mio avviso, è più esaustivo chiedersi quali effetti potrà avere il generale deflagrare dello scontro fra Unipolarismo e Multipolarismo, poiché il MENA è arena di confronto non limitato alle dirette conseguenze di quello fra USA e Russia per interposta Ucraina. Ciò detto, Mosca non allenterà la presenza in quella regione dopo esservi rientrata, né il Libia, né in Algeria, né tantomeno e soprattutto in Siria, e lo sta dimostrando. Inoltre, i processi in atto subiranno un’accelerazione per la crescente coincidenza d’interessi fra le potenze che intendono affrancarsi dall’Unipolarismo; gli inediti avvicinamenti fra sauditi, emiratini e qatarioti alla Cina ne sono esempio, come pure il convergere di Teheran con Mosca, nei campi securitario ed energetico, e con Pechino, in quelli commerciale ed economico. Più distratti sono semmai gli USA, necessitati a concentrarsi su Europa e Indo-Pacifico.

Su questa tendenza generale spicca l’impatto del terremoto del 6 febbraio che, oltre a faglie geologiche, ha smosso quelle geopolitiche: esso frenerà le ambizioni turche (e pone in dubbio la rielezione di Erdogan alle presidenziali di maggio se non saprà dare risposte adeguate, più che arduo compito); nel rinnovato contesto di solidarietà per la catastrofe, favorirà il ritorno della Siria nella Lega Araba, accelerando un processo già in corso. E, al contempo, propizierà l’accordo fra Ankara e Damasco per la Siria settentrionale, viatico per la definitiva chiusura della più grave crisi dell’area.

Nel generale contesto, a rilevare è la scomoda posizione di Israele, strattonato dagli USA per l’Ucraina ma esitante a schierarsi apertamente contro la Russia per antichi rapporti e convenienza nell’indulgenza finora mostrata da Mosca nei suoi confronti in Siria. Rileva pure, che il dilemma interviene nel momento di massima crisi di Israele, mai così frantumato al suo interno, cui si contrappone una Resistenza mai così unita, pronta a un confronto che vede convergere palestinesi e arabi israeliani dentro la Palestina, e l’Asse della Resistenza che bussa dal Libano, dal Golan e da Gaza.

Nel risiko del MENA è da segnalare ancora: il crescente allineamento dell’Algeria con l’Asse e, come accennato, con la Russia, al di là di accordi commerciali di comodo con un Occidente questuante energia; le crescenti difficoltà dell’Egitto, prodromiche a futura crisi. È qui necessario sottolineare le conseguenze drammatiche del rincaro e scarsità di derrate alimentari, effetti diretti e indiretti della guerra, che impattano su molti paesi del MENA, Egitto e Tunisia ne sono esempio. Ciò comporta aumento della fragilità statuale e marcata instabilità, fertile terreno per operazioni di destabilizzazione. In particolare dove ciò non è compensato dalle entrate energetiche, come avviene invece in Algeria.

5) Disordini rilevanti, che potrebbero dar luogo ad una vera e propria guerra civile, stanno sconvolgendo l’Iran. Tali disordini possono essere considerati come una riproposizione della strategia del caos già messa in atto dall’Occidente nelle primavere arabe? Le manifestazioni contro il regime iraniano potrebbero infatti destabilizzare il paese. Ma il sostegno americano ai ribelli questa volta è assai tiepido. Come mai? Agli attentati in Palestina hanno fatto seguito i bombardamenti con i droni compiuti in Iran e Siria. Questi bombardamenti non potrebbero essere azioni provocatorie compiute allo scopo di indurre l’Iran a dotarsi di armamenti nucleari e, in tal modo, legittimare una guerra di aggressione contro l’Iran stesso da parte di USA, Israele e gli altri alleati / servi della Nato?

Risp. Alcune premesse: la portata dei disordini che si sono registrati in Iran negli ultimi mesi è stata fortemente – e strumentalmente - sovradimensionata dal mainstream mediatico; il paese non è mai stato sull’orlo della guerra civile né di destabilizzazione, è stato invece oggetto di un tentativo di sovversione dall’esterno, attraverso l’infiltrazione di terroristi dall’Afghanistan e dal Kurdistan iracheno e l’azione imponente di reti di intelligence straniere. Facendo leva su difficoltà economiche ancora non risolte derivanti dalle sanzioni, sono stati agganciati taluni segmenti di popolazione nelle città; al contempo, è stato attivato un piano terroristico che ha contemplato stragi, omicidi indiscriminati e assassinii mirati di personalità nel tentativo – fallito – di originare una novella “rivoluzione colorata”, sulla falsariga di quanto tentato nel 2009 con la cosiddetta “Rivoluzione Verde”.

In tutto ciò, il sostegno dell’Intelligence USA è stato tutt’altro che secondario, come pure il ruolo del Mossad e di altri Servizi occidentali e del Golfo, ciò è testimoniato dall’enorme quantità di materiale e documenti sequestrati nei tanti covi delle reti terroristiche scoperti. È da riflettere sul fatto che la campagna sovversiva sia stata avviata: a) dopo che l’Iran ha rifiutato di rivedere radicalmente le condizioni del JCPOA (l’accordo sul nucleare) senza in cambio alcuna garanzia; b) si sia avvicinato alla Cina; c) abbia stretto viepiù i rapporti con la Russia; d) si sia aggravata la crisi interna ad Israele e aumentata la pressione della Resistenza su di esso.

È altresì un fatto che, con la presidenza Raeisi, Teheran abbia archiviato la prospettiva occidentale per riorientare strategicamente la propria politica verso l’Est e il Sud del mondo; è in questa ottica che vanno letti l’ingresso nella Shanghai Cooperation Organization (SCO), la prossima entrata nei BRICS e le partnerships strategiche allacciate con Mosca e Pechino.

Ciò detto, è vero che da sempre, e più che mai adesso, sia in atto una guerra segreta fra Israele e Iran, tuttavia, ritengo improbabile una seria aggressione contro Teheran: un raid, o anche un’ondata di attacchi, non potrebbe cancellare il programma nucleare iraniano (troppi gli obiettivi da colpire e troppe le difese) ed esporrebbe Israele a catastrofiche ritorsioni nel momento di sua massima debolezza interna; né è da pensare a una guerra d’aggressione contro l’Iran dopo l’esperienza della “Guerra Imposta”.

Certo, Israele, quantomeno il suo attuale governo, può provare un colpo di testa per stornare da sé le critiche che lo bersagliano, ma dubito anche questo: anni fa, lo stesso Netanyahu provò a ordinare un’aggressione contro l’Iran ricevendo un rifiuto netto dai militari, consapevoli delle conseguenze. Da allora, per ammissione degli stessi comandi di Tsahal, Tel Aviv è molto più debole e Teheran più forte. Determinante è la strategia messa a punto da Soleimani, che ha sottoposto Israele a una deterrenza concentrica dal Libano, dal Golan e da Gaza, con una minaccia che monta in Cisgiordania.

6) Nel contesto di una situazione di permanente instabilità conflittuale nell’area del MENA, è ormai scomparsa l’idea, assurta a mito unificante, della nazione araba. Il panarabismo fu infatti l’idea – forza che animò le guerre anticoloniali e la lotta del popolo palestinese, quale sintesi identitaria di valori etico – religiosi e dottrine politiche che ebbero una forza propulsiva per il riscatto di popoli oppressi che rivendicavano un ruolo da protagonisti nella geopolitica mondiale del tempo. Dopo il tradimento dell’Egitto di Sadat (già paese guida), e la progressiva dissoluzione del “fronte del rifiuto”, l’idea panarabista tramontò. Oggi il mondo arabo appare frantumato in innumerevoli eresie islamiste, poteri tribali e stati totalitari di stampo neocoloniale. Fu forse il predominio di fatto assunto dalla Arabia Saudita a determinare il disfacimento del mondo arabo? Certo è che l’identità araba non si identifica tout court con l’Islam e l’area del MENA nella sua totalità, ma non è oggi del tutto evidente l’assenza di valori unificanti ad impedire la formazione di un unico fronte unitario che possa contrastare l’imperialismo occidentale?

Risp. Il panarabismo fu il prodotto di una stagione politico-culturale che ebbe vasto successo perché intercettò la voglia di riscatto delle popolazioni dal colonialismo, tuttavia aveva radici ed élite formate nelle università e nelle accademie militari occidentali. Alla lunga, si separò dai popoli che lo riconobbero “altro”, virando su regimi assolutisti, e fallendo; ha affascinato l’Europa proprio per la sua assonanza culturale di fondo, la stessa che l’ha fatto divorziare dal MENA.

Per quanto attiene l’attuale mondo arabo, non si devono sopravvalutare le eresie takfire, strumento di centri di potere non causa di frantumazione, né il fattore religioso in generale. Come già detto in precedenza, la ragione è piuttosto da vedere nel coagularsi di sistemi di potere a vario titolo gravitanti per convenienza nella sfera USA come Arabia, Emirati, Qatar; dal conseguente abbandono delle loro leadeship di cause unificanti, come quella palestinese e la lotta all’imperialismo occidentale, da esse in verità mai intrapresa. Ma un abbandono da parte dei gruppi dirigenti, non delle masse, fra cui sono largamente vive.

Svanito dall’orizzonte politico-culturale il panarabismo, per evidente inadeguatezza al contesto (e rigetto della popolazione) serve altro per innervare le masse arabe; per delinearlo è necessario identificare un elemento comune alle società mediorientali e, piaccia o no, questo essere nel mondo (dasein come diceva Heidegger) è l’Islam, religione sì, ma eminentemente politica. Se inteso per ciò che è, e non per come troppo spesso dipinto, esso fa un obbligo della lotta all’oppressione e alle ingiustizie, facendone una via per il percorso spirituale dei credenti. Inoltre, per sua costituzione, ha permeato la struttura sociale e valoriale delle società con ciò incidendo anche sull’identità e il sentire di quelle comunità.

In realtà tale dottrina c’è già e si è dimostrata vincente: la Dottrina della Resistenza, affermatasi nel 1979 e da allora irradiatasi nel Medio Oriente, coinvolgendo gli appartenenti a quelle società a prescindere dal credo religioso o etnia (sciiti, sunniti, curdi, cristiani, yazidi, etc.). Vi è essa alla base dell’Asse della Resistenza, fronte unitario per affermare una visione e contrastare imperialismo occidentale, liberalismo e capitalismo predatorio liberista.

7) Dalle primavere arabe sono scaturiti due fronti contrapposti, così da te definiti: L’Asse della Resistenza e il Fronte dell’Oppressione. Tali schieramenti riflettono le contrapposizioni attualmente esistenti nella geopolitica mondiale. L’Asse della Resistenza è il risultato di alleanze tattiche tra Iran, Yemen, Cina e Russia, uniti nella resistenza al comune nemico americano. Il Fronte dell’Oppressione, costituito da USA, Israele, Arabia Saudita, Emirati arabi, è un blocco politico – militare – finanziario a guida statunitense. Tuttavia lo schieramento filoamericano (Turchia compresa), è formato da potenze dell’area del MENA che, come è emerso in sede ONU in tema di sanzioni alla Russia e nei rapporti con la Cina, perseguono ormai politiche autonome anche non compatibili con gli interessi americani. E’ dunque prevedibile una graduale disgregazione interna dello stesso Fronte dell’Oppressione, che comporterebbe, di conseguenza, la fine della egemonia americana nell’area del MENA?           

Risp. Prima di procedere alcune precisazioni: l’Asse della Resistenza è costituito da un insieme di organismi statuali e non statuali accomunati dalla medesima visione, seppur declinata in modo diverso in funzione delle rispettive realtà culturali e sociali: Iran, le Hashd al-Shaabi irachene, Hezbollah libanese, Ansarullah yemenita, Resistenza Islamica Palestinese (Hamas, Jihad Islamico in Palestina, etc.), Fatemyoun afghano ed altri ancora. Anche la Siria ne fa parte in quanto partecipe di una battaglia cruciale, sebbene non vi siano al momento grandi entità politiche che aderiscano alla Dottrina della Resistenza. Non è un’alleanza tattica ma unione strutturale. Cina e Russia non ne fanno parte in alcun modo, la vicinanza – varia - è dettata dalla coincidenza d’interessi nell’opporsi all’Unipolarismo egemonico americano, comune avversario.

Il Fronte dell’Oppressione non è un’alleanza né un blocco, è piuttosto un insieme di soggetti mossi dalla convergenza d’interessi nel mantenere lo status quo, ovvero regimi, talvolta apertamente imperialisti come Israele, che gravitano per reciproca convenienza nell’orbita americana, al fine di mantenere interessi e privilegi dei loro gruppi dominanti. Discorso parzialmente diverso va fatto per la Turchia: spinta da Erdogan su una parabola neo-imperiale, ha approfittato con spregiudicatezza delle occasioni improvvisando un gioco proprio in funzione delle convenienze.

Per quanto detto, il Fronte dell’Oppressione è a geometria variabile, dettata dal delinearsi degli interessi sul campo assai più che dall’obbedienza politica. Dunque non è alleanza strutturata, sebbene vi siano legami formali fra taluni soggetti, ma comunque in assonanza con gli interessi USA nella regione, ovvero: continuare a sostenere Israele (sebbene ultimamente considerato sempre più “problematico”), mantenere un’influenza su un’area ritenuta importante sì, ma assai meno che in passato, arginare l’affermazione dell’Asse della Resistenza, missione doppiamente ineludibile per chi si auto-percepisce egemone, unico legittimato a esercitare il dominio, e l’attore opposto è irriducibile avversario.

Ciò detto, più che la fine brusca, è l’affievolirsi costante dell’influenza USA nel MENA a essere nelle cose. Per disaffezione degli antichi sodali sempre più autonomi, attratti da altri interessi (vedi emiratini e sauditi, questi ultimi addirittura interessati a entrare nei BRICS); perché Washington è sempre meno disposta (e capace) a “ordinare” l’area destinandovi risorse (che ora le difettano) secondo una strategia (che le manca), e – soprattutto - perché non vi ha interesse cogente primario, ora altrove.

 Intervista a Salvo Ardizzone, autore del libro “Medio Oriente,  Risveglio islamico e false primavere arabe”, Arianna Editrice 2022,

a cura di Luigi Tedeschi