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Sanguinario Catilina ma un vero eroe

di Massimo Fini - 10/09/2025

Sanguinario Catilina ma un vero eroe

Fonte: Massimo Fini

Il generale che organizza la congiura contro l’oligarchia romana, fu sconfitto proprio dal più imbelle degli avversari: Cicerone. Ma la sua morte ci mostra per intero il coraggio di un vero ribelle

Luciano Canfora ha ripreso in un recente libro la vicenda della congiura di Lucio Sergio Catilina dandogli il titolo: “Catilina. Una rivoluzione mancata”.
Gli storici professionisti l’hanno interpretata nei modi più diversi. Cosicché, per eccesso di materiali fra loro contrastanti, la congiura rimane come sullo sfondo, se ne perde il pathos e si perdono di vista le caratteristiche dei due principali protagonisti, Catilina e Cicerone, mentre sullo sfondo si aggira la figura di Giulio Cesare che sfruttò la sua doppiezza sessuale (“marito di tutte le mogli, moglie di tutti i mariti”) e soprattutto politica per arrivare al potere. Per conoscere in profondità la congiura di Catilina – la prima rivoluzione della storia, almeno in Occidente – basterebbe leggere Storia di Romadi Mommsen che, tra le altre cose, dà il più icastico ritratto dei due personaggi in lotta, Catilina appunto e Cicerone, notando la singolarità che fu il più imbelle dei consoli romani a sconfiggere Lucio Sergio Catilina, che era di ben altra tempra. È lo stesso Cicerone che, morto Catilina, si meraviglia della sua impresa e ammette, quando non c’è più alcun pericolo, di ammirare l’avversario soprattutto per quel coraggio che dimostrò per tutta la vita e che a lui, Cicerone, soprattutto mancava.
Di Catilina, personaggio complesso e insieme lineare, audace e ingenuo, generoso con gli amici e sprezzante con i nemici, è difficile fare un ritratto completo. Mi affido a Sallustio: “Corpo resistente alla fame, al freddo, alla veglia fino all’inverosimile, animo audace, subdolo, incostante, simulatore e dissimulatore in qualsiasi materia, cupido dell’altrui, scialacquatore del suo, sfrenato nelle passioni, nessuna saggezza, la mente vasta correva sempre verso lo smisurato, l’incredibile, l’irraggiungibile” (La congiura di Catilina, V). E ancora: “Fin dall’adolescenza trovò piacere nelle stragi, nelle rapine, nelle discordie civili e fra esse passò i suoi anni giovanili”. Fu soprattutto quella frase “la sua mente vasta correva sempre verso lo smisurato, l’incredibile, l’irraggiungibile” a stuzzicare la mia fantasia di studente.
Di Catilina devo qui ricordare due discorsi, entrambi attualissimi, perché il primo riguarda la guerra, e quindi anche i conflitti in corso; il secondo la democrazia. Prima del combattimento decisivo, in un discorso totalmente privo di retorica, Catilina parla ai soldati in questi termini: “Soldati, so benissimo che le parole non valgono a creare il coraggio e che il discorso di un capo non rende ardimentoso un esercito imbelle, né forte un esercito pavido. Tutta l’audacia che natura o educazione hanno posto nel cuore di ciascuno appare evidente in un combattimento, inutilmente esorteresti colui che non è scosso dal desiderio di gloria e dalla grandezza del pericolo, la paura gli impedisce di sentire. Io invece vi ho radunati per richiamarvi alcune poche cose… Per questo, dunque, vi esorto a star forti e preparati e, quando verrà il momento della battaglia, ricordatevi che ricchezza, onore, gloria, e insieme la libertà e la patria li tenete voi nelle vostre mani. Inoltre, o soldati, essi non si trovano nella necessità di combattere in cui ci troviamo noi: noi si lotta per la patria, per la libertà, per la vita, per essi è completamente indifferente combattere per lo strapotere di pochi. Ma occorre audacia per uscirne: solo chi vince cambia la guerra con la pace. Sperare di salvarsi con la fuga, distogliere dal nemico le armi che ci proteggono, è il colmo della follia. In un combattimento il pericolo maggiore è sempre per chi maggiormente teme”.
Il secondo discorso, sulla democrazia, suona così: “Ora che il governo della Repubblica è caduto nel pieno arbitrio di pochi prepotenti, re e tetrarchi sono divenuti vassalli loro, a loro popoli e nazioni pagano tributi: noi altri tutti, valorosi, valenti, nobili e plebei, non fummo che volgo, senza considerazione, senza autorità, schiavi di coloro cui faremmo paura sol che la Repubblica esistesse davvero. Ma chi, chi se è un uomo, può ammettere che essi sprofondino nelle ricchezze e che sperperino nel costruire sul mare e nel livellare i monti, e che a noi manchi il necessario per vivere? Che essi si vadan costruendo case e case l’una appresso all’altra e che noi non si abbia in nessun angolo un tetto per la nostra famiglia? Per quanto comprino dipinti, statue, vasellame cesellato, per quanto abbattano edifici appena costruiti per ricostruirne altri, insomma per quanto dilapidino e maltrattino il denaro pubblico in tutti i modi pure non riescono a esaurire la loro ricchezza con i loro infiniti capricci. Per noi la miseria in casa, i debiti fuori, triste l’oggi, spaventoso il domani. Che abbiamo, insomma, se non l’infelicità del vivere?”. Se a Repubblica sostituite Democrazia il parallelo è perfetto.
Descrivo qui il momento clou di questa vicenda prendendo l’ultimo capitolo del mio libro Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta (Mondadori, 1996) intitolato “Morte a Pistoia” . Il 5 gennaio del 62 a.C., in una livida alba, il cielo basso e uniformemente grigio, ebbe inizio la battaglia. “Fece quindi ritirare i cavalli perché”, scrive Sallustio, “l’uguaglianza nel pericolo desse maggiore fiducia ai soldati”. Lui stesso avrebbe combattuto a piedi. Diede una vigorosa manata al cavallo, sapeva che non gli sarebbe servito più. Allo squillo delle trombe i due eserciti avanzarono l’uno verso l’altro. Quando le prime linee furono a tiro iniziò il lancio dei giavellotti. Ma l’impeto da entrambe le parti è tale che, tra grida altissime, si arriva subito a un furioso corpo a corpo. I ribelli fan muro, resistono. “Catilina, con una squadra volante, è sempre in prima linea. Dà mano a quelli che duran fatica, sostituisce ai feriti gente valida, ha occhio a tutto, combatte egli stesso senza posa, colpisce spesso nel segno, compie insieme il dovere del soldato valoroso e del generale abile” (Sallustio).
Sospinti da Catilina, che a 45 anni offre una performance atletica memorabile, i ribelli contrattaccano. Disperatamente. Furiosamente. L’esercito governativo, che non si aspettava una simile resistenza, è colto di sorpresa, ripiega, potrebbe sbandarsi. Come in un tiro alla fune le forze contrapposte sono in equilibrio alla massima tensione. Ma il nemico ha ampie riserve. Il comandante romano, Petreio, getta nella mischia la coorte pretoria, le truppe scelte. Lo scontro è durissimo. I catilinari, al centro, non mollano, non arretrano di un passo. Sono le ali a cedere di schianto. Manlio e il Fiesolano cadono quasi contemporaneamente combattendo in prima fila. Dai fianchi i soldati di Petreio si rovesciano sul centro dei catilinari tagliando i collegamenti tra i reparti. È il massacro. Tentando un’ultima sortita, Catilina si getta con quelli che sono rimasti nel più folto dei nemici puntando su Petreio. I suoi gli cadono attorno uno a uno. Si vede ancora la sua alta, slanciata, vibrante figura sovrastare per un attimo, spada in pugno, la mischia. Poi viene sommerso.
“Dopo la battaglia si poté constatare quanta audacia e quanta energia regnassero fra gli insorti: ognuno di essi copriva dopo morto con il proprio cadavere il posto che, da vivo, aveva tenuto in battaglia” (Sallustio). Anche i pochi che furono trovati a distanza dal campo, dispersi dalla furia dei nemici, erano caduti a fronte alta, feriti al petto. Nessuno aveva cercato di fuggire. Nessuno aveva voltato le spalle al nemico. Erano in tremila e tanti ne caddero. “Anche l’esercito romano però non aveva riportato una vittoria facile e incruenta: i più valorosi o erano caduti in battaglia o ne erano usciti gravemente feriti”. Come aveva chiesto il loro capo, i ribelli non erano morti invendicati.
Sallustio: “Catilina venne trovato lungi dai suoi, fra i cadaveri dei nemici, respirava ancora un poco ma gli si leggeva sul volto la stessa espressione di indomita fierezza che aveva da vivo”.