Sarà l’intelligenza artificiale a insegnarci l’umanità?
di Marcello Veneziani - 11/10/2025
Fonte: Marcello Veneziani
Da decenni non si parla più di scientismo e di materialismo. Erano stati i tutori ideologici del secolo scorso e avevano dominato l’orizzonte culturale del secondo Novecento. Lo scientismo aveva imposto il suo primato sulla cultura umanistica e spiritualistica, sia di matrice religiosa che filosofica e idealistica: sanciva il predominio dell’evoluzionismo e della scienza su ogni altro sapere, fede, cultura, rapporto con la natura. Poche erano state le critiche radicali alla sua egemonia: tra le rare confutazioni, agli inizi degli anni settanta, ci fu “Il crepuscolo dello scientismo” di Giuseppe Sermonti, un genetista che fondava il suo sapere su una visione organica e spirituale. Il materialismo, invece, si legava soprattutto all’egemonia marxista, non solo nei paesi comunisti; si definiva materialismo storico o scientifico, incontrandosi con lo scientismo, ma con un impegno politico e sociale comunista. Poi di scientismo e materialismo se ne parlò sempre meno, ma non perché fossero scomparsi, semmai il contrario, perché diventarono lo sfondo della nostra società. Lo scientismo era passato da teoria ad applicazione tecnica, si era eclissato nel dominio planetario della tecnologia, di cui era diventato solo il preambolo. E il materialismo si era separato dal marxismo, non si esprimeva più coi tratti di un’ideologia e di una teoria storico-scientifica ma era diventato pratico, si era trasfuso nella società occidentale e nel primato dei beni materiali, nella liberazione sessuale e permissiva. Diventando sinonimo di edonismo e consumismo, primato dell’hic et nunc, rigetto di ogni ideale, ogni teodicea, ogni spiritualismo. Non ideali, al più desideri. Non più noi, ma io.
L’avvenire dell’uomo oltre lo scientismo e il materialismo è il tema di un incontro a Feltre. Ho dialogato con Federico Faggin, di cui ci siamo già occupati su queste pagine: fisico e inventore del microprocessore e di altre importanti scoperte tecnologiche; negli ultimi anni ha scritto saggi dedicati alla riscoperta della coscienza, dell’invisibile e della dimensione spirituale della vita. Faggin ripropone il legame tra scienza e coscienza e restituisce la scienza alla dimensione della ricerca e non della fede (“credo nella scienza” è la superstizione dei nostri anni).
Il tema del nostro tempo è la sostituzione dell’umano con il transumano, l’intelligenza artificiale, la mutazione genetica.
La sostituzione dell’umano segue alla sostituzione del divino, che ne è la premessa, e precede la sostituzione del mondo reale con un mondo parallelo, virtuale, tecnologico. La sostituzione dell’umano si accompagna al rigetto della civiltà e della tradizione, del senso religioso e del pensiero, nel nome di un universo tecno-pratico in cui i soggetti sono ridotti a macchine desideranti.
Alle origini dello scientismo e indirettamente del materialismo è la convinzione che la scienza sia potenza e pretesa di onnipotenza. L’affermazione risale a Francesco Bacone, ma fu esplicitata da un filosofo politico che in gioventù era stato segretario di Bacone: in De Homine Thomas Hobbes sostenne che “il sapere è potere”, ma aggiunge che “è potere piccolo perché il sapere che conta è raro”. La scienza intesa come coscienza conosce i suoi limiti: so di non sapere, diceva Socrate, e so di non potere tutto quel che avrei potere di fare. Ossia c’è un limite gnoseologico – non conosco tutto – c’è un soglia che sposta in avanti ma che è insuperabile in via definitiva; resta sempre il mistero. E c’è un limite etico quando la potenza si fa distruttiva e nociva. Occorre un pensiero critico per cogliere questi due limiti. Viviamo invece nell’epoca della scienza senza limiti, al servizio della volontà di potenza. Non è un caso, del resto, che proprio in questi giorni duecento scienziati, esponenti di governi, premi nobel, hanno invocato di fermare la corsa scellerata verso l’Intelligenza Artificiale. Fermare nel senso di frenare, non di abolire. Il tema di porre confini alla scienza non ha un significato solo teorico, di pensiero: è un tema che investe la nostra vita e l’umanità e più inciderà nel tempo. A vantaggio della sua dilagante onnipotenza gioca la rapidità dei processi innovativi, che ha superato la capacità umana di comprenderli e metabolizzarli. La tecnica va più veloce dell’umano. E nell’accelerazione tecnologica i regimi autocratici dispongono di poteri decisionali più rapidi e diretti mentre i regimi pluralisti e liberali arrancano, e seguono procedure più complesse, mediazioni e contrappesi di poteri, sono inevitabilmente più lenti e frenati. Questo rende ancora più preoccupante l’escalation dell’AI.
Ma il problema pratico si affronta partendo dal piano dei principi e del pensiero critico. La scienza non può ridursi solo ad applicazione tecnica: è conoscenza, ricerca, paragone, commisurazione di cause ed effetti, mezzi e scopi. S’inscrive in una visione olistica dell’uomo, del mondo e della vita, e distingue ciò che giova e ciò che nuoce all’umanità, ciò che espande le possibilità umane e ciò che invece sostituisce l’umano.
Oggi viviamo quel che Gunther Anders denunciava già nei primi anni cinquanta: il dislivello prometeico, ovvero la nostra cultura è incapace di capire i processi tecnici e di governarli, ormai superata dall’espansione illimitata della tecnologia. Sicché, concludeva, “l’uomo è antiquato”, è superato dai mezzi che egli stesso ha messo al mondo.
Al primato scientista concorre in modo determinante l’avvento del materialismo pratico che non si pone più la distinzione tra mezzi e fini dell’esistenza, non ha preoccupazioni di tipo spirituale e vanifica l’intelligenza critica, la cultura e la memoria storica, ossia i necessari contrappesi all’avanzata della scienza e della tecnica. È in corso un processo che rende obsoleto l’uomo, atrofizza le facoltà mentali collegate al sapere umanistico, al senso della realtà e della natura; e ci neutralizza, fino a non opporre alcuna resistenza al processo in corso. Il pericolo maggiore è il diffuso fatalismo tecnologico che pervade la nostra epoca: non c’è rimedio, non ci sono argini, non si può arrestare.
Agli inizi di questo millennio, un grande regista come Steven Spielberg realizzò un film intitolato Intelligenza Artificiale. È la storia di un bambino robot che dopo un’esperienza in una famiglia umana vuole diventare bambino vero, umano, e riabbracciare sua madre adottiva; un’aspirazione e una sensibilità misteriosamente in contrasto coi suoi input tecnici di bambino mec (ossia meccanico, opposto ai bambini org, cioè organici, naturali). E va alla ricerca, come Pinocchio, della Fata turchina per esaudire il suo sogno. È un viaggio affascinante ai confini tra l’umanità e la macchina, il naturale e l’artificiale, che sfiora anche il soprannaturale e il magico-onirico. L’originalità del film è la prospettiva capovolta; non è l’AI vista con gli occhi dell’uomo ma il contrario, l’aspirazione a diventare umano di un robot-bambino. Sarà l’Intelligenza Artificiale, alla fine, a insegnarci la nostalgia dell’uomo, della madre, della fiaba e del divino?