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Se è innocente, basta una didascalia velenosa

di Emanuele Boffi - 01/10/2020

Se è innocente, basta una didascalia velenosa

Fonte: Tempi


Nove anni di processo, tre di carcere, ma Cosentino non era un malavitoso. Dopo lo sputtanamento, come dare la notizia?


Bastava quel nomignolo – Nick o’ Mericano – per squalificarlo e farlo entrare di getto nel gran bestiario degli impresentabili. È una tecnica consueta nei giornali che, soprattutto quando si parla di Sud, soprattutto quando si parla di politica, soprattutto quando si parla di mafia, ‘ndrangheta e malaffare, usa dei soprannomi popolari per restituire un clima, un ambiente e un humus di belluina disonestà. Così Nicola Cosentino era o’ Mericano e tanto bastava per fare il titolo del pezzo di colore accanto a quello di cronaca.

Su personaggi come Cosentino certi giornali ci campano per anni. A Marco Travaglio, ad esempio, bastava citarne il nome per aver detto tutto. Ieri sul Riformista, Piero Sansonetti ha ricordato che il direttore del Fatto lo descriveva così:

«Fino a pochi anni fa Cosentino è stato sottosegretario all’Economia, con delega al Cipe. Mangiava i soldi dei contribuenti al fianco di Tremonti, nonostante si sapesse da tempo che era legato a clan camorristici. Bastava passare da Napoli per sapere chi era Cosentino e su cosa aveva basato la sua carriera politica. Adesso non è più parlamentare, quindi le intercettazioni possono coinvolgere direttamente e si scoprono più cose. La libera stampa su queste cose era arrivata da tempo, ma tutti aspettano sempre che intervengano i giudici… Non si può pensare che questa gente cambi, andrebbe tenuta lontana dalle istituzioni…».


Appunto, notava Sansonetti: «Bastava passare per Napoli» per condannarlo. Mica servono indagini, prove, inchieste. «Bastava passare per Napoli» per sbatterlo in galera, rovinargli la carriera politica e la vita familiare. Bastava un titolo di giornale e un nomignolo.

Assolto. Ma per cosa?
L’altro giorno Cosentino è stato assolto. Lui, il berlusconiano che aveva portato il partito a rinascere in Campania, che aveva la colpa di essere nato a Casal di Principe, che ha forse il record di voti in parlamento per respingere le richieste d’arresto, è stato assolto. Da cosa? Per scoprirlo bisogna leggere la didascalia che ieri il Fatto Quotidiano ha pubblicato a pagina 13 (le pagine precedenti sono piene di “inchieste” sui furbastri delle missioni, Maroni, Covid, Becciu) e che qui riportiamo per intero:

«La Corte d’Appello di Napoli ha assolto l’ex sottosegretario all’Economia del governo Berlusconi, Nicola Cosentino, nove anni dopo l’avvio dell’inchiesta della Dda di Napoli su camorra e colletti bianchi che aveva al centro la costruzione di un centro commerciale a Casal di Principe e brogli elettorali per le comunali. In primo grado gli erano stati inflitti 5 anni e mezzo. Cosentino è stato condannato in primo grado in altro processo per concorso esterno in associazione camorristica e ha una condanna definitiva per aver corrotto un agente penitenziario mentre era detenuto».


La stringata comunicazione non ci racconta però di tutta la merda che è stata riversata su Cosentino per anni. Non ci informa che l’inchiesta del 2011 aveva portato all’arresto di oltre 50 persone e alla condanna in primo grado di una ventina di soggetti tra cui Cosentino, tutti assolti in secondo grado. Non ci dice – ma sarà una semplice dimenticanza – che Cosentino si è fatto tre anni di carcere da innocente. Tre anni, non tre ore. E che gli sono stati sequestrati i beni di famiglia, per dirne un’altra. Però la nostra “didascalia” si premura di ricordarci la condanna di primo grado in un altro processo e la “condanna definitiva” in un altro ancora. Anche qui: di cosa stiamo parlando?

Condannato. Ma per cosa?
Ce lo spiega ancora Sansonetti:

«Le prime accuse risalgono al 2011. In due processi, quelli nei quali gli si contestavano i reati, è stato assolto, dopo che in primo grado era stato condannato, in tutto, a una dozzina abbondante di anni di galera. Nel terzo processo è ancora in ballo. Condannato in primo grado ora va in appello. L’accusa è la famosa accusa che non c’è: “concorso esterno in associazione mafiosa”. Concorso per far che? Niente. L’accusa si basava sul collegamento tra questo reato e quelli per i quali è stato ora assolto, e cioè i reati di avere corrotto e concusso, insieme alla camorra, per far quattrini e per ottenere voti. Ma ora è accertato che non ha corrotto, non ha concusso e non c’entra niente con la camorra. Resta l’accusa di concorso esterno, che assume un aspetto persino un po’ ridicolo in questa occasione. Sarà impossibile non assolverlo, ma magari servirà ancora qualche anno».

E la condanna definitiva per cosa? Per questo:

«Il quarto processo del quale parliamo invece è giunto a condanna definitiva. Condanna pesante: tre anni (già scontati abbondantemente). Perché? È accusato di aver dato un po’ di euro a una guardia carceraria perché gli procurasse delle zeppole a carnevale. Sono quei dolci fritti con la crema e lo zucchero sopra. Lo so: non ci credete. E invece è esattamente così: tre anni per le zeppole. E il reato è stato consumato perché l’imputato era in prigione, cioè in un luogo dove non doveva essere e dove invece stava per colpa di alcuni magistrati pasticcioni e incapaci, i quali – statene certi – non dovranno rispondere a nessuno».

Tenere in piedi il dubbio
Nella didascalia del Fatto non c’era spazio per dire tutto questo. Lo si è trovato, però, per affiancare alla notizia dell’assoluzione quella sulle condanne precedenti e sui processi ancora in ballo. Come notava ieri giustamente Il Foglio, per la mentalità giustizialista «chi viene identificato come nemico viene colpito indipendentemente dalla consistenza o meno degli indizi e anche dopo le assoluzioni viene tenuto in piedi il dubbio: non ci sono innocenti, solo colpevoli che se la sono cavata». E così, se per mettere alla gogna un avversario politico servono pagine e pagine di intercettazioni, titoli e titoli di giornale, colonne e colonne di inchiostro – così che, nel gran calderone, qualche “impressione” rimanga al lettore – per dar conto di un’assoluzione basta molto meno. Basta una didascalia velenosa.