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Se perfino Paolo Mieli è preoccupato...

di Luciano Fuschini - 12/05/2020

Se perfino Paolo Mieli è preoccupato...

Fonte: Il giornale del Ribelle

Se perfino Paolo Mieli, uno dei più servili portavoce della conservazione, esprime preoccupazione per un possibile approdo dittatoriale del delirio da presunta pandemia che stiamo vivendo, vuol dire che qualcosa di profondamente inquietante è in corso di attuazione. Vediamo di ragionarci sopra.
Uno dei luoghi comuni più consolidati dell’ideologia liberale è che nelle società moderne la libera iniziativa privata in economia alla lunga impone anche la libertà nelle istituzioni politiche. In realtà l’affermazione è già stata ampiamente smentita dall’esperienza fascista, da Mussolini a Pinochet. Il fascismo italiano negli anni Trenta risentì della grande crisi economica successiva al crollo del ’29 molto meno di tante altre nazioni industrializzate. La mezza verità della mezza cultura dei manuali scolastici ne ha sempre attribuito la causa al fatto che l’economia italiana era meno inserita nei mercati mondiali, ma in realtà si dimostrò efficiente il sistema misto che vedeva un libero mercato in cui prosperavano i capitalisti coesistente con uno Stato regolatore, con una dittatura politica che pur proibendo gli scioperi godeva di sostegno popolare. Intanto una Germania nazional-socialista viveva un autentico boom economico, che i soliti manuali giustificano col riarmo e i lavori pubblici, mentre anche in quel caso si dimostrava molto efficiente un capitalismo regolato da piani quadriennali sotto la mano ferrea di uno Stato dittatoriale che godeva di sostegno popolare. Quella formula, che smentisce il dogma del rapporto stretto fra libertà economica e libertà politica, trova conferma nel successo straordinario della Cina odierna. Il sistema cinese, dove il libero mercato e la libera iniziativa di un ceto di imprenditori miliardari si concilia con uno Stato forte che con metodi dittatoriali crea le condizioni per il successo dell’imprenditoria nella competizione mondiale, è il modello vincente negli ultimi decenni. Ciò non significa che la Cina abbia imitato i fascismi degli anni Trenta. La civiltà cinese ha una storia troppo lunga e grandiosa per non avere le proprie peculiarità: nel miracolo economico cinese c’è più confucianesimo che fascismo, ma ciò non toglie che sia un’altra prova di come iniziativa privata e dittatura possano coesistere e talvolta rivelarsi più efficienti delle lungaggini parlamentari dei sistemi occidentali.
Di questo fatto sono evidentemente consapevoli le élite vere dell’Occidente, quelle che studiano le linee di tendenza, sanno dove portano e agiscono per orientarle a proprio favore. Queste élite sono i magnati della finanza, i manager delle grandi imprese multinazionali e i vertici dei servizi segreti.  Persone che operano spesso nell’ombra e la cui selezione è garantita dal loro sapersi muovere nei meandri e nelle trappole del potere vero, non dalle competizioni elettorali che lasciano ai mediocri. Costoro sanno che il modello cinese è quello vincente e sanno che il mondo delle fonti di energia inquinanti, dell’estrema mobilità, del turismo di massa, della crescita demografica senza freni, della finanza spregiudicata, è giunto al capolinea. Sanno che occorre investire nel nuovo grande affare della green economy, come dimostra il capolavoro mediatico della creazione del personaggio Greta; sanno che il futuro immediato è del tele-lavoro, oltretutto meno costoso; sanno che vince chi può vantare la migliore produttività del lavoro, cioè chi è più avanti nella robotizzazione di tutti i processi produttivi e degli stessi servizi; sanno che questi fenomeni causeranno una disoccupazione permanente di massa che esigerà un reddito universale di cittadinanza, preparato anche concettualmente dalle elargizioni di miliardi creati dal nulla per far fronte ai disastri della pandemia e dalle teorie esemplificate con l’immagine dell’ helicopter money; sanno che la tecnologia oggi permette il controllo di ogni cittadino, col pretesto della protezione sanitaria dagli assalti dei virus, dei quali Covid-19 è solo una manifestazione e non delle peggiori; sanno che occorre fermare l’incremento demografico, eliminando gli individui improduttivi: un virus che uccide i vecchi se non ci fosse bisognerebbe inventarlo e il tema ricorrente dell’eutanasia tende allo stesso fine. Il passaggio a questo nuovo modo di vivere e produrre presentava strettoie pericolose, crisi finanziarie e occupazionali che avrebbero potuto provocare rivolte e mettere in discussione i poteri consolidati. Il virus, la cui ricorrenza è naturale e frequente, come dimostra la “profezia” di Bill Gates con qualche anno di anticipo, ha offerto l’occasione per accelerare la transizione senza correre il rischio di rivoluzioni. Anche in questo passaggio la Cina si è offerta come modello. Drammatizzando il virus ha dato al mondo uno spettacolo di dura efficienza; ha fatto una grandiosa esercitazione che potrà servire per il futuro; ha spento la tenace protesta compatta dei cittadini di Hong Kong, che minacciava di estendersi alla Cina continentale; ha permesso di completare il controllo totalitario sulla popolazione: ogni cinese possiede uno smart e ogni smart contiene una App che permette di seguirlo come la sua ombra.
Questi processi sono in atto e sono fondati su un’analisi corretta dello stato del mondo. Il problema è creare un’opposizione che si muova su questo terreno obbligato cambiandone il segno: dall’interesse privato a quello pubblico. La green economy è una necessità: si tratta di utilizzarla per fare dell’agricoltura e del massimo possibile di autarchia una priorità; lo smart working e l’automazione sono realtà già operanti: si tratta di pianificare il reddito universale di cittadinanza e il tempo libero in modo che le masse di disoccupati siano liberate dal lavoro dipendente retribuito, non da un lavoro che sia autogratificante; l’eutanasia, ovviamente volontaria e rigidamente regolamentata, dovrà essere accettata come una conquista di civiltà. La grande battaglia di libertà dovrà essere combattuta contro la pretesa di controllo totalitario attraverso gli strumenti dell’informatica. L’appartenenza di Paolo Mieli a una mentalità ancora radicata negli schemi del Novecento è provata dal suo timore che il grande inganno del virus finisca nella dittatura di un Capo a cui la massa si affidi per la propria salvezza. Il dittatore che si profila non è un mascelluto, un baffetto o un baffone: è un cervello elettronico cui pervengono miliardi di dati da tutti noi. Un totalitarismo tecnologico da cui non ci si libera appendendo il dittatore per i piedi o assediandolo in un bunker.