Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Servilismo patetico

Servilismo patetico

di Daniele Perra - 23/12/2023

Servilismo patetico

Fonte: Daniele Perra

Di fronte alla notizia che l'Italia invierà una fregata nel Mar Rosso nel quadro dell'Operazione “Prosperity Guardian” – che si vuole rivolta a “garantire la sicurezza delle rotte marittime al fine di prevenire ripercussioni sull'economia internazionale” (in realtà, sull'economia di guerra di Israele) – si possono fare due ordini di ragionamenti. Il primo è di natura squisitamente geopolitica: o meglio, di “opportunità geopolitica”. Ormai da decenni, la ridicola partecipazione italiana (anche in termini di impatto numerico) alle tristi avventure dell'atlantismo (dall'Afghanistan alla Libia, fino all'Ucraina) si risolve in un totale fallimento: danni di immagine, interesse nazionale al macero (da non tralasciare la “molto lungimirante” rinuncia a partecipare al progetto di interconnessione eurasiatica della Nuova Via della Seta), flussi migratori incontrollati. Dunque, un governo che abbia realmente a cuore il benessere (anche mentale) del Paese dovrebbe porsi un quesito: quali vantaggi posso trarre dal pedissequo allineamento ai voleri d'oltreoceano? A questo punto, il caso libico e ucraino dovrebbero averci insegnato che i vantaggi sono uguali a zero. Il fatto stesso che sul territorio nazionale si trovino innumerevoli testate nucleari statunitensi ci garantisce solo la sicurezza di essere obiettivo primario in caso di attacco preventivo o rappresaglia a seguito di un potenziale conflitto nucleare contro la Russia (ad esempio). Allo stesso tempo, è altrettanto vero che qualora si voglia contare realmente qualcosa all'interno di una coalizione non si invia una sola nave (giusto per dire morettianamente “vengo, ma sto in disparte”) ma dieci o più. Ne consegue che l'atteggiamento del governo italiano potrebbe tranquillamente rientrare nel campo del “servilismo patetico”.
Il secondo ragionamento è di ordine storico. Nel 1926 venne firmato un trattato di amicizia tra l'Italia e l'Imamato zaydita dello Yemen (di cui gli Houthi odierni sono in qualche modo eredi). E per tutti gli anni Trenta, l'Italia continuò a vendere munizioni ed armamenti che l'Imamato adoperò sia per contrastare l'espansionismo del neonato Regno saudita (appoggiato da Londra) sia come deterrente contro la stessa presenza britannica sulla fascia costiera del Mar Rosso e ad Aden. Una vicenda oltremodo emblematica dell'infausto destino italiano se si considera che una buona parte delle bombe utilizzate dai sauditi nel corso della loro pluriennale fallimentare aggressione sono state fabbricate proprio in Italia. Oggi, inoltre, non è da escludere che dopo la riapertura dei canali diplomatici tra Teheran (sostenitrice degli Houthi) e Riad ed un sostanziale compromesso sul congelamento del conflitto nello Yemen, gli stessi Houthi stiano operando con il tacito assenso saudita (magari per pompare ulteriormente il prezzo del greggio). Ma qui siamo nel campo della geopolitica speculativa.
In conclusione, credo sia importante ribadire anche il fatto che un'aggressione occidentale allo Yemen non sarebbe affatto una novità. In realtà, Washington ha dato per anni sostegno logistico all'aggressione della coalizione a guida saudita (soprattutto, con buona pace dei trumpisti, durante il mandato presidenziale del magnate newyorkese). Dunque, ancora una volta, non sarebbe una “nuova guerra” ma semplicemente l'ulteriore recrudescenza di un conflitto già parte di quella “guerra mondiale a pezzi” alla quale stiamo assistendo da tempo e che non è ancora arrivata al suo culmine (prevedibilmente, si concentrerà attorno alle coste cinesi).
Ancora, se è vero che le azioni degli Houthi violano le convenzioni internazionali sul diritto di navigazione negli Stretti, è altrettanto vero che: 1) il diritto internazionale (già di suo “americanocentrico”) viene violato e/o interpretato a proprio piacimento un po da tutti (ed in particolar modo da chi si presenta come suo difensore); 2) l'avvicinarsi minaccioso di navi da combattimento alle proprie coste da diritto allo Yemen di rispondere con la forza.

P.S. Per chi fosse interessato, pubblico un estratto da un articolo apparso su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” (vol. XLIX, n. 1/2018) in cui presento le caratteristiche ideologiche e religiose del vecchio Imamato yemenita e le sue similitudini con il movimento Ansarullah.

Lo zaydismo prende il nome da Zayd ibn Ali, un fratellastro del quinto Imam dello sciismo Muhammad al-Baqir (il “ricercatore che giunge all'essenza delle cose” e l'uomo più istruito della sua epoca) che studiò presso il fondatore della scuola teologica neoplatonica mutazilita Wasil ibn 'Ata. Zayd diede vita ad una rivolta a Cufa nel 740 che dopo diversi giorni di lotta si concluse in un bagno di sangue nel quale quasi tutti gli insorti, compreso lo stesso Zayd, trovarono la morte. “Secondo la tradizione Zayd si sarebbe separato dagli sciiti cufani che vennero da allora definiti rawafid – ovvero coloro che rifiutano (rafada) di riconoscere la legittimità dei primi due califfi Abu Bakr e Omar […] Con Zayd ibn Ali fece la comparsa un nuovo genere di dottrina sciita: quella che afferma che il potere spetta di diritto ad ogni discendente di Fatima che se ne impossessi con le armi”. Nel corso della storia islamica sono esistiti due Stati zayditi: uno nel Tabaristan fondato dopo ripetuti infruttuosi tentativi da Hasan ibn Zayd nell'anno 873; l'altro nello Yemen fondato da Yahya ibn al-Husayn, un teologo discendente del Profeta che sul finire del IX secolo si recò all'estremità sud-occidentale della Penisola arabica per dirimere una disputa tribale. Conquistato il potere ed adottato il titolo di al-Hadi ila al-Haqq (guida della verità), al-Hadi creò un Imamato, con sede a Sada'a (non a caso la città di origine del clan famigliare degli Houthi), negli altopiani e nelle aree settentrionali dello Yemen. Questo Imamato con alterne fortune e sotto diverse dinastie (i Rassidi, i Qasimi e gli Hamid al-Din in primo luogo) è riuscito a reggersi fino al XX secolo. Al-Hadi è stato anche il principale teorico dello zaydismo. Il suo sistema teologico, noto come al-Hadawiya, si fonda sul principio cardine che la guida spirituale e politica della comunità dei credenti debba essere un diretto discendente del Profeta (sayyid) attraverso il lignaggio di Ali e Fatima. Il suo profondo rispetto dell'urf (le consuetudini tribali) ha prodotto un sistema religioso e sociale, rimasto inalterato per secoli, nel quale la Legge islamica (Sharia) e la sua interpretazione si fondono con le tradizioni ed i costumi ancestrali delle popolazioni indigene. La dottrina dell'Imamato di al-Hadi si fonda sull'idea che “ogni discendente di Hasan e Husayn che si ribella, che dia inizio ad un moto di rivolta (Khuruj), con la spada in mano contro uno Stato tirannico possa rivendicare il diritto di essere riconosciuto come Imam, a patto che sia egli stesso istruito in materia religiosa, distaccato da ogni ambizione terrena e dotato di coraggio per guidare il gihad”. Un sayyid con le qualifiche necessarie attraverso una chiamata pubblica (da'wa) deve in primo luogo ottenere il supporto degli altri sayyid e dei fuqaha (giuristi): ovvero l'aristocrazia religiosa islamica ahl al-hall wa al-aqd (coloro che slegano e legano). Una volta ottenuto il potere tale carica non è necessariamente ereditaria. Più che sulla discendenza padre-figlio, l'eleggibilità alla carica si fondava su quei suddetti prerequisiti che saranno anche alla base della dottrina post-califfale di Ibn Khaldun con l'ovvia differenza dell'appartenenza al più ampio gruppo clanico dei Quraysh e non alla sola discendenza da Ali e Fatima.
Gli zayditi, con l'eccezione della corrente della garudiyya, hanno sempre avuto una percezione meno netta delle differenze teologiche in seno all'Islam e si sono spesso dimostrati tolleranti verso il sunnismo a differenza di molti teologi sciiti classici come Nasir al-Din al-Tusi o Allama al-Hilli che rigettavano apertamente la prospettiva sunnita.
Secondo la prospettiva di al-Hadi, infatti, la Sunna stessa aveva un'origine divina e sulla base della dottrina mutazilita del peccato i primi due califfi Abu Bakr ed Omar non potevano essere considerati degli infedeli o  degli usurpatori.
Di fatto, i mutaziliti, che in arabo sta per “secessionisti”, al di là della divisione classica del mondo nei campi dei credenti e dei miscredenti, affermarono che i musulmani colpevoli di peccati anche gravi potessero essere considerati non come miscredenti ma come membri di una terza categoria situata proprio tra la fede e la miscredenza. I mutaziliti, dalla loro concezione di Dio come unità priva di attributi, derivavano l'idea che bene e male, giusto e sbagliato, erano aspetti della realtà immutabile di Dio. Da questa prospettiva deriva il concetto zaydita di Imamat al-Mafdul: ovvero la possibilità che l'Imamato venga affidato anche ad una persona meno qualificata (Abu Bakr e Omar) nel caso in cui un individuo migliore (Ali) non possa svolgere al momento tale funzione.
Ed è proprio sulla dottrina dell'Imamato che sono sorte delle differenze anche all'interno dello zaydismo. “I batriyya, la setta più moderata agli occhi dell'eresiografia sunnita, riconoscevano la legittimità di Abu Bakr e Omar, basandosi sull'adesione di Ali alla scelta della comunità o su una delega conferita da Ali a entrambi i califfi […] I sulaymaniyya, ammettevano la legittimità del califfato di Abu Bakr ed Omar ed attenuarono in maniera sensibile le tendenze insurrezionali dello zaydismo […] I garudiyya, per alcuni aspetti erano molto prossimi all'imamismo e riconoscevano l'esistenza di un Mahdi che, prima dell'eschaton, ritornerà sulla terra dopo un'assenza più o meno prolungata. Anche se sull'identità di questo Mahdi sono stati espressi pareri divergenti”.
A questo proposito è necessario sottolineare che al-Hadi pur adottando principi legali propri del sunnismo rimase legato ai principi radicali della garudiyya per ciò che concerne la dottrina dell'Imamato. È altresì opportuno ricordare che lo zaydismo, nel corso della storia, rifiutando il dogma sciita dell'occultamento (ghayba) dell'Imam (cosa che renderebbe anche inapplicabile allo Yemen il principio khomeinista del velayat e-faqih –  il governo del giureconsulto in attesa del ritorno del Mahdi), ha spesso preferito presentarsi come quinta madhhab del sunnismo che come ramo dello sciismo.
Non sorprende dunque il fatto che i sauditi abbiano spesso cercato di identificare gli Houthi, in particolare il teologo Badr al-Din e suo figlio Husayn (assassinato dalle forze governative nel 2004), come esponenti della garudiyya anche se questo ramo dello zaydismo è quasi estinto, pur di dare una spiegazione al presunto legame ideologico tra questi e l'Iran.
Di fatto, l'unico punto di contatto tra gli ideali khomeinisti e la ribellione Houthi, oltre al rifiuto della deriva a-islamica wahhabita, sembra essere un'idea di Rivoluzione che si esprime attraverso il reale significato di questo termine: ovvero come re-evolvere, come ritorno heideggeriano (ruckker) ad un punto di partenza dal quale si possa ristabilire quel perduto rapporto diretto tra l'ordine fisico e quello metafisico riappropriandosi della dimensione del sacro. Non è un caso se il movimento degli Houthi si chiama Ansar Allah (soccorritori o aiutanti di Dio): un nome che rimanda all'idea di restituire al Divino quella sovranità che Gli è stata negata dalla modernità occidentale penetrata e diffusasi come un cancro nella società yemenita.
L'Imam Yahya, uomo virtuoso dalla vita straordinariamente sobria e votata unicamente al suo ruolo di guida sia spirituale che politica, fino al suo assassinio nel 1948 cercò di limitare in tutti i modi ogni forma di penetrazione culturale del degenerato Occidente nello Yemen. Un'impresa votata comunque al fallimento vista la profonda influenza che la presenza britannica aveva esercitato sugli abitanti della fascia costiera del paese, in larga parte sunniti shafi'iti. A questo proposito, non bisogna dimenticare che la popolazione sunnita dello Yemen (a maggioranza shafi'ita) ha sempre riconosciuto l'autorità temporale dell'Imamato.
Di fatto, alla pari di al-Hadi, il fondatore della scuola giuridica shafi'ita Muhammad ibn Idris al-Shafi'i (767-820) attribuiva alla Sunna un valore supremo nell'ambito della giurisprudenza islamica. Secondo al-Shafi'i, il Corano, parola letterale di Dio, poteva essere interpretato alla luce della Sunna mentre l'operazione inversa era impossibile. La Sunna del Profeta era dunque considerata come una chiara manifestazione della volontà di Dio e di conseguenza Essa ed il Corano erano in pari modo infallibili.
Le differenze nelle pratiche religiose tra gli zayditi ed i sunniti nello Yemen, prima della devastante influenza del salafismo e del wahhabismo, erano minime. Gli zayditi potevano infatti pregare con i sunniti seguendo una Guida della preghiera sunnita. Le stesse celebrazione e festività religiose erano le stesse: compresa la celebrazione della nascita del Profeta tanto vituperata dal wahhabismo. Una delle celebrazione più prettamente zaydite è invece l'Id al-Ghadir: ovvero il giorno che commemora la designazione di Ali come suo successore da parte del Profeta. Una festività proibita dal governo centrale tra il 2004 ed il 2008 nel momento di maggiore intensità e brutalità delle repressione contro la ribellione Houthi. 
La penetrazione nello Yemen sia della modernità occidentale che del wahhabismo, non a torto definito dall'Imam Khomeini come “l'Islam americano”, ha prodotto una frattura interna ad una comunità che tra dinamiche tribali e religiose è riuscita a sopravvivere intatta per oltre un millennio.