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Spiritualità e consumismo

di Maurizio Pallante - 14/11/2023

Spiritualità e consumismo

Fonte: Sostenibilità equità solidarietà

Il Consumismo: vizio privato o pubblica virtù?
     Il 19 marzo 2014, nell’omelia pronunciata durante la messa celebrata nella Cattedrale di Genova per la festività di San Giuseppe patrono dei lavoratori, il Cardinal Bagnasco, allora presidente della Conferenza episcopale italiana, ha detto: «Per rilanciare l’economia e uscire dalla crisi è necessario incentivare i consumi, senza ritornare alla logica perversa del consumismo che divora il consumatore».
     Si potrebbe pensare che siano parole pronunciate in un momento di stanchezza e scarsa lucidità, ma nel loro noncurante spregio del principio di non contraddizione sintetizzano l’ambiguità con cui le gerarchie ecclesiastiche hanno valutato la crescita economica che ha modificato radicalmente le società industriali nei decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, considerando la crescita dei consumi una cosa buona e giusta, addirittura da incentivare per consentire all’economia di tornare a crescere quando si blocca, ma considerando il consumismo una cosa non buona e non giusta, perché nella sua logica perversa riduce gli esseri umani a consumatori incapaci di resistere alla tentazione di acquistare compulsivamente anche ciò di cui non hanno bisogno.
     In effetti, se nelle società che finalizzano l’economia alla crescita della produzione di merci la domanda non crescesse di pari passo con l’offerta, non si riuscirebbe a vendere una parte delle quantità sempre maggiori di merci che vengono prodotte, per cui si dovrebbe ridurre la produzione; se la produzione diminuisce bisogna ridurre il numero degli occupati; se si riduce il numero degli occupati diminuisce il numero di coloro che hanno un reddito monetario e la domanda diminuisce  ulteriormente, per cui occorre ridurre ulteriormente la produzione e il numero degli occupati. Se in queste società la domanda non cresce, o cresce meno dell’offerta, come è successo più d’una volta con esiti disastrosi nella storia del modo di produzione industriale, si innesca una spirale recessiva che si avvita su se stessa, ampliando progressivamente il numero delle persone che non sono in grado di acquistare neanche il necessario per vivere e rendendo sempre più difficile far ripartire l’economia.
     Per prevenire questo rischio non bastano le misure di politica economica finalizzate a incentivare i consumi riducendo il costo del denaro, e/o aumentando la spesa pubblica in deficit secondo le indicazioni di Keynes, ma è necessario che nell’immaginario collettivo l’atto di acquistare travalichi la sua funzione utilitaristica e assuma un valore in sé. Per consentire alla domanda di continuare a crescere in misura non inferiore alla crescita dell’offerta, le persone non possono limitarsi a comprare ciò di cui hanno, o sono indotte a credere di aver bisogno, ma devono sentire il bisogno di comprare qualcosa, non importa cosa, per accedere a quel surrogato di felicità che pensano di ricavarne, per dimostrare agli altri cosa possono permettersi di comprare, per compensare le loro frustrazioni e dare un senso alla loro vita. Si devono sentire infelici se non possono comprare quello che comprano gli altri e devono invidiare chi può farlo. In queste società il consumismo è una cosa buona e giusta proprio perché nella sua logica, che il Cardinal Bagnasco considera perversa, riduce gli esseri umani a consumatori e li divora. Non è un vizio privato, ma una pubblica virtù. È il valore condiviso su cui si fonda la stabilità sociale.
     Di tanto in tanto affiora allo scoperto che nelle società in cui l’economia è stata finalizzata alla crescita della produzione di merci, l’atto di acquistare non ha la funzione di soddisfare un bisogno, neppure indotto, come accade regolarmente con la moda, ma ha un valore in se stesso. Due esempi tra i tanti. Nel mese di dicembre del 1991 una casa automobilistica inglese ha pubblicato questo annuncio pubblicitario: «Buy something». Comprate qualcosa. E aggiungeva: «Naturalmente saremmo più contenti se la vostra scelta cadesse su una delle nostre automobili. Ma se non avete nessuna intenzione di compare una Range Rover, pazienza. Comprate un forno a microonde. O un cane bassotto. O biglietti per il teatro. Basta che compriate qualcosa. Perché se per tornare a spendere aspettiamo tutti che la recessione sia dichiarata ufficialmente sconfitta, allora non finirà mai».[1]
     Nel mese di dicembre del 1993 i giovani imprenditori dell’Unione industriale di Torino hanno rivolto questo appello ai consumatori: «Per Natale un gesto di solidarietà. Regalatevi qualcosa. Magari italiano. Può sembrare strano – premettevano – abbinare la solidarietà all’invito di ricominciare a consumare in occasione degli acquisti per i regali di Natale. Eppure chiediamo di farsi, o di fare un regalo in più, meglio se Made in Italy; di compiere un investimento nei consumi a favore di se stessi o dei propri cari, con la consapevolezza di contribuire così anche agli altri. Gli altri che non conosciamo, ma che lavorano per produrre e per vendere ciò che abbiamo deciso di acquistare.» [2]
     Oltre alla forza che riceve dal sostegno delle società in cui l’economia è finalizzata alla crescita della produzione di merci, il consumismo ha una sua forza intrinseca, che gli viene conferita dal fatto di non poter mantenere la promessa di felicità con cui si rende desiderabile. Se la pulsione ad acquistare si acquietasse comprando qualcosa, il consumismo perderebbe la sua forza nel momento in cui si realizza il suo fine. Per mantenerla viva vengono immessi in continuazione sul mercato dei prodotti nuovi che in tempi sempre più ridotti tramutano in frustrazione la gioia che si prova acquistando qualcosa. Per mantenere intatto il suo dominio sui consumatori, per poter continuare a divorarli, il consumismo deve creare in loro uno stato di insoddisfazione permanente, intervallato da brevi periodi di una felicità che svanisce non appena avranno allungato una mano illudendosi di poterla afferrare.

2. La mutazione antropologica
     «L’ansia del consumo – ha affermato l’11 luglio 1974 Pier Paolo Pasolini in un’intervista – è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale a tutti gli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui “deve” obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una “falsa” uguaglianza ricevuta in regalo».[3]
     E in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 18 luglio 1975 ha scritto: «Il nuovo modo di produzione (determinato dall’enorme quantità e dal superfluo) e la sua implicita ideologia edonistica (che è esattamente il contrario della religione) […] dal punto di vista antropologico – cioè per quanto riguarda la fondazione di una nuova «cultura» – pretende degli uomini privi di legami col passato (risparmio e moralismo): pretende che tali uomini vivano – dal punto di vista della qualità della vita, del comportamento e dei valori – in uno stato, come dire, di imponderabilità: cosa che permette loro di privilegiare, come solo atto esistenziale possibile, il consumo e la soddisfazione delle sue esigenze edonistiche».[4]
     Per far crescere la produzione di merci non basta introdurre sistematicamente nei cicli produttivi innovazioni tecnologiche finalizzate ad aumentare la produttività e inventare prodotti innovativi che si aggiungono ai prodotti già in commercio, o li rendono obsoleti e li sostituiscono. Occorre anche indurre gli esseri umani a credere che  il senso della vita consista nel dedicare tutte le loro energie al lavoro per guadagnare il denaro necessario ad acquistare le merci, tecnologicamente sempre più evolute, che vengono immesse sui mercati a getto continuo. Solo se le aspettative esistenziali delle persone si concentrano sui bisogni e sui desideri che possono essere soddisfatti con l’acquisto di cose e servizi, si possono creare le condizioni che consentono di vendere le quantità crescenti di merci prodotte annualmente.
     Il desiderio di un maggior benessere materiale – di vivere in condizioni più agiate, di possedere oggetti che rendono piacevole la vita quotidiana, di vivere in un’abitazione confortevole, di togliersi dei capricci, di nutrirsi con cibi buoni – è insito nella natura umana e non va disprezzato. Ma non è ciò che dà senso alla vita. Gli esseri umani hanno anche delle esigenze spirituali che non possono essere soddisfatte comprando qualcosa, per cui non fanno crescere il Pil. Anzi sottraggono energia e tempo alle attività che lo fanno crescere. La spiritualità non è compatibile col sistema dei valori su cui si fondano le società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci. Per il sistema dei valori dominante è il residuo di un passato da cancellare. Mantenerla viva, non è soltanto un’esigenza profonda degli esseri umani, ma anche una forma di disobbedienza civile.

3. Le scelte che hanno condotto la Chiesa cattolica a una crescente irrilevanza     
     In Italia nel cinquantennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale «Il nuovo modo di produzione (determinato dall’enorme quantità e dal superfluo) e la sua implicita ideologia edonistica (che è esattamente il contrario della religione)» non fu soltanto sostenuto culturalmente, ma anche gestito dalla Chiesa cattolica per interposta persona: dal partito della Democrazia Cristiana nelle istituzioni, dai dirigenti delle aziende a partecipazione statale e delle banche, dai dirigenti della televisione di Stato che, entrando progressivamente in tutte le case, faceva conoscere ed esaltava i vantaggi della crescita economica in corso (il miracolo economico per chi vedeva la manifestazione di una volontà divina in quel trionfo del materialismo; il boom economico per i succubi del modello statunitense); descriveva con commiserazione i residui della civiltà pre-industriale e l’economia contadina; suscitava in un numero crescente di persone, soprattutto nei giovani, un desiderio irrefrenabile di inserirsi nel flusso impetuoso della modernità, che in un decennio trasformò l’Italia da Paese prevalentemente agricolo nella settima potenza industriale del mondo.
     Nelle motivazioni che inducevano le gerarchie della Chiesa cattolica a sostenere il processo di modernizzazione in corso, oltre alla condivisione culturale incideva anche l’esigenza di sconfiggere politicamente il Partito comunista, dimostrando all’opinione pubblica che la crescita del benessere dipendeva dall’efficienza con cui quel processo veniva gestito da una classe dirigente che si era formata all’Università Cattolica e nella Federazione degli Universitari Cattolici Italiani. Questa competizione, rifletteva quella che si stava svolgendo a livello mondiale, tra il blocco dei Paesi liberal-democratici egemonizzato dagli Stati Uniti, e il blocco dei Paesi social-comunisti egemonizzato dall’Unione Sovietica. I due schieramenti erano accomunati dalla convinzione che il buon governo consista nella capacità di organizzare la società in funzione della crescita del Prodotto Interno Lordo, ma perseguivano questo obbiettivo con due modelli socio-economici alternativi, dando vita a un confronto che assunse il carattere di una rivalità per la conquista dell’egemonia politica mondiale e rischiò di sfociare in una guerra atomica. Il blocco liberal-democratico riteneva che il modo più efficace per far crescere l’economia e distribuirne i benefici a vantaggio di tutte le classi sociali fosse l’abbinamento tra democrazia parlamentare e mercato. Il blocco social-comunista sosteneva che la dittatura del proletariato gestita dal partito unico, la pianificazione economica e i soviet nei luoghi di lavoro consentissero di raggiungere più efficacemente gli stessi obbiettivi. La sfida, iniziata subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, sarebbe stata vinta dal blocco liberal-democratico e si sarebbe conclusa emblematicamente il 9 novembre 1989 con l’abbattimento del muro di Berlino.
     Era inevitabile che la Chiesa cattolica avvertisse come un pericolo mortale la diffusione dell’ideologia materialista e atea del comunismo. Questa preoccupazione era confermata dai limiti posti alle libertà politiche e alla libertà di culto nei Paesi del socialismo reale, dove le persone non allineate alle direttive del partito unico venivano sottoposte a vessazioni continue da un sistema poliziesco che agiva con un potere assoluto. Concentrando l’attenzione su questi problemi la sua gerarchia non ne prestava altrettanta alle lunghe file di persone che nei Paesi liberal-democratici la domenica non si indirizzavano più nelle chiese, ma nelle cattedrali del consumismo, senza che qualcuno glielo imponesse o glielo proibisse. L’affermazione del modello economico e sociale che stava facendo crescere maggiormente la produzione di merci e i consumi, diffondeva la convinzione che stesse realizzando il migliore dei mondi possibili. Un mondo in cui gli sviluppi della scienza e della tecnologia avrebbero consentito di soddisfare senza limiti i bisogni materiali, quanto meno degli abitanti dei Paesi industrializzati del Nord America e dell’Europa occidentale. Attratte da questa prospettiva di benessere materiale crescente, le popolazioni di questi Paesi avevano iniziato a dimenticare le esigenze spirituali, che non si possono soddisfare comprando qualcosa. Sostenendo la variante vincente del modo di produzione industriale, quella che faceva crescere di più i consumi e, usando l’efficace deduzione di Pasolini, la loro «implicita ideologia edonistica, (che è esattamente il contrario della religione)», la Chiesa cattolica si stava inconsapevolmente condannando a una crescente irrilevanza.

4. La crisi ecologica
     Oltre ad aver innescato questa mutazione antropologica, la crescita della produzione e del consumo di merci ha causato una serie crescente di problemi ambientali, che già negli anni Sessanta del secolo scorso, all’acme del boom economico, hanno cominciato a suscitare la preoccupazione di piccoli gruppi di studiosi. Nel 1962 la biologa statunitense Rachel Carson diede alle stampe il libro Primavera silenziosa, che ebbe una notevole diffusione mondiale, ma fu aspramente criticato dal mondo scientifico e dagli imprenditori agricoli, perché sosteneva che la sparizione di ogni forma di vita animale in una nicchia ecologica era stata causata dai processi di bioaccumulazione nelle catene alimentari dei pesticidi usati per accrescere la produttività agricola.  Stessa sorte toccò a una ricerca commissionata nel 1969 dal Club di Roma a un gruppo di ricercatori del Massachusetts institute of technology, pubblicata nel 1972 col titolo I limiti della crescita. Nei decenni seguenti i problemi ambientali causati dalla crescita economica si aggravarono progressivamente, in particolare in seguito all’aumento delle emissioni di CO2 generate dalla combustione delle fonti fossili utilizzate per soddisfare il fabbisogno crescente di energia.
     All’inizio della rivoluzione neolitica, 12.500 anni fa, il pianeta era ricoperto da 6.000 miliardi di alberi. Ne sono stati abbattuti 3.000 miliardi, di cui 2.000 dall’inizio della rivoluzione industriale, nella seconda metà del XVIII secolo, non solo per utilizzare il legno come materiale di costruzione e come combustibile, ma soprattutto per espandere le aree urbane, le aree industriali, le reti viarie, e l’agricoltura. Di conseguenza è stata ridotta la capacità della vegetazione di effettuare la fotosintesi clorofilliana, il processo biochimico che consente ai vegetali di nutrirsi, di crescere e di nutrire, attraverso le catene alimentari, tutte le specie viventi. Contestualmente le emissioni di anidride carbonica sono state incrementate, oltre che dalla combustione delle fonti fossili, dall’agricoltura chimica e dagli allevamenti. L’anidride carbonica non assorbita dai vegetali è aumentata e le eccedenze si sono accumulate nell’atmosfera. Per 8.000 secoli la loro concentrazione non ha superato le 280 parti per milione di parti d’aria. Nel 2023 sono arrivate a 424 parti per milione. Poiché l’anidride carbonica trattiene nell’atmosfera una parte della radiazione infrarossa che la superficie terrestre, riscaldata dalla luce solare, rimanda verso lo spazio, questo aumento ha innescato il più rapido innalzamento della temperatura vicino alla superficie del pianeta che si sia mai verificato: +1,2 °C rispetto all’epoca pre-industriale,[1] un valore non lontano dal limite di +1,5 °C che nella Cop di Parigi del 2015 è stato indicato come la soglia oltre la quale, con un margine di +0,5 °C, raggiungerebbero il punto di non ritorno alcuni fenomeni che renderebbero la Terra inabitabile per la specie umana.
     La deforestazione e l’aumento della temperatura terrestre hanno anche contribuito a ridurre la biodiversità. Secondo una ricerca dell’Onu pubblicata nel 2019 si è già estinto un milione di specie su un totale stimato di 8 milioni, molte delle quali rischiano di scomparire nei prossimi decenni. Le popolazioni ittiche degli oceani sono state dimezzate dalla pesca. Secondo alcuni scienziati siamo all’inizio della sesta estinzione di massa nella storia della Terra.
     Dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso il consumo annuale della biomassa (in ottica antropocentrica: delle risorse rinnovabili) ha iniziato a superare la quantità che viene rigenerata dalla fotosintesi clorofilliana. Nel 2022 il giorno in cui è avvenuto il superamento (overshoot day) è stato il 29 luglio.
     In conseguenza della crescita della produzione di merci e del consumismo, dell’obsolescenza percepita e dell’obsolescenza programmata per tenere alta la domanda, sono aumentate le quantità dei rifiuti, biodegradabili e non biodegradabili, molti dei quali tossici, che si accumulano nel ciclo dell’acqua, nell’aria e nei suoli.

5. Che fare?
     Tutti i fattori della crisi ecologica sono causati dalla crescita del fabbisogno di materie prime da trasformare in merci e dalla crescita delle emissioni di sostanze di scarto derivanti dai processi di produzione e dai consumi. Per più di trent’anni si è pensato che bastasse adottare tecnologie meno impattanti – in relazione alle emissioni di gas climalteranti, le fonti rinnovabili in sostituzione delle fonti fossili – per attenuare la crisi ecologica senza abbandonare la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci. Per utilizzare la terminologia adottata dai sostenitori di questa strategia, si è creduto che fosse possibile disaccoppiare la crescita della produzione di merci dalla crescita dei fattori inquinanti, realizzando uno sviluppo sostenibile. In realtà questa scelta non ha consentito di ridurre i fattori della crisi ecologica, ma solo i loro incrementi rispetto ai valori che avrebbero fatto registrare se non si fosse fatto nulla. Una magra consolazione, perché un incremento ridotto è comunque un incremento, non una diminuzione.
     Per invertire la tendenza in corso occorre spostare la finalità dell’economia dalla crescita della produzione di merci alla compatibilità con la fotosintesi clorofilliana. A tal fine occorre: ridurre il consumo annuale di risorse rinnovabili con l’obbiettivo di ricondurre gradualmente l’overshoot day verso il 31 dicembre; ridurre gradualmente le emissioni di gas climalteranti e avviare giganteschi programmi di riforestazione (1.000 miliardi di alberi, secondo il botanico Stefano Mancuso);  smettere gradualmente di produrre sostanze di sintesi chimica non biodegradabili; azzerare la copertura dei suoli con sostanze impermeabili. Si può sostenere che non sia necessario adottare queste misure solo se si nega che sia in atto una crisi ecologica, o si ritiene che una crisi ecologica ci sia, ma non abbia una causa antropica. Tra gli scienziati, i negazionisti delle due categorie sono un’infima minoranza, ma i decisori politici utilizzano strumentalmente la loro copertura scientifica per continuare a sostenere con elargizioni di denaro pubblico le fonti fossili e la falsa alternativa energetica dell’idrogeno, che aggravano la crisi ecologica ma sono indispensabili per la crescita economica, mentre evitano di applicare una tassa sui consumi di fonti fossili e sugli imballaggi di plastica.
     Nell’Esortazione apostolica Laudate Deum, resa pubblica il 4 ottobre 2023, Papa Francesco, ha scritto che: «Per quanto si cerchi di negarli, nasconderli, dissimularli o relativizzarli, i segni del cambiamento climatico sono lì, sempre più evidenti». (5) E, dopo aver citato i rapporti del’IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change, aggiunge: «Sono costretto a fare queste precisazioni, che possono sembrare ovvie, a causa di certe opinioni sprezzanti e irragionevoli che trovo anche all’interno della Chiesa cattolica. Ma non possiamo più dubitare che la ragione dell’insolita velocità di così pericolosi cambiamenti sia un fatto innegabile: gli enormi sviluppi connessi allo sfrenato intervento umano sulla natura negli ultimi due secoli. Gli elementi naturali che tipicamente causano il riscaldamento, come le eruzioni vulcaniche e altri, non sono sufficienti a spiegare il tasso e la velocità dei cambiamenti degli ultimi decenni. L’evoluzione delle temperature medie della superficie non può essere spiegata senza l’effetto dell’aumento dei gas serra. [5]
     Nelle popolazioni la preoccupazione per la gravità raggiunta dalla crisi ecologica è aumentata e nei Paesi ricchi è cresciuto il numero delle persone che hanno parzialmente modificato i loro stili di vita per attenuarla: hanno ridotto gli sprechi di cibo e il consumo di carne, comprano frutta e verdura di stagione coltivate alla più breve distanza dal luogo in cui vivono, coltivano un orto per autoconsumo, differenziano per tipologie omogenee i loro rifiuti in modo che si possano riciclare, sostituiscono con una minore frequenza i beni di consumo durevoli, usano la bicicletta. L’adozione di questi comportamenti virtuosi è importante, sia per il contributo che dà all’attenuazione della crisi ecologica, sia perché contribuisce a diffondere una maggiore sensibilità ambientalista, ma non può essere confusa con un cambiamento del sistema dei valori. Non ha scalfito la convinzione che il ben-essere si identifichi col benessere materiale e con la crescita dei consumi. Non ha scalfito l’idea che il fine dell’economia sia la crescita della produzione di merci. Nelle ore di punta dei giorni lavorativi le vie d’accesso alle città sono intasate di automobili, come prima dell’epidemia di Covid. Nei fine settimana sono intasate le strade e le autostrade che collegano le città con le località di vacanza. Coloro che, per mancanza di mezzi economici sono costretti a restare in città, affollano i centri commerciali. La preoccupazione per i danni ambientali causati dagli eventi meteorologici estremi viene esorcizzata dalla convinzione che siano sufficienti degli aggiustamenti per evitare che si aggravino ulteriormente. In questo contesto i partiti politici, gli economisti e gli imprenditori che sottovalutano la crisi ecologica, o negano che sia causata dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, sostengono che sia sbagliato fare delle rinunce per ridurre i consumi, perché si otterrebbe soltanto il risultato di compromettere la soluzione dell’unico problema che suscita la loro preoccupazione: quello di far ripartire l’economia a pieno regime.
     Tra coloro che non sottovalutano la crisi ecologica, alcuni ambientalisti sostengono che, per impedirle di superare la soglia dell’irreversibilità, le popolazioni dei Paesi ricchi devono riportare i loro consumi ai livelli degli anni Sessanta del secolo scorso. E avvisano che occorre prepararsi a fare delle rinunce. Nel loro generoso intento di evitare la catastrofe ambientale, questi ambientalisti non si rendono conto di applicare al rovescio gli stessi criteri di valutazione quantitativi usati da coloro che identificano il benessere con la crescita del Prodotto interno lordo, indipendentemente da ciò lo fa crescere. Il Prodotto interno lordo cresce sia se aumenta la produzione di armi, sia se aumenta la produzione di pannelli fotovoltaici. La vera alternativa a questa assurdità spacciata per parametro del benessere non è la riduzione indiscriminata dei consumi per riportarli ai livelli degli anni Sessanta, ma la riduzione selettiva della produzione di merci oggettivamente inutili e dannose: il cibo e l’energia che si sprecano, le fonti fossili, le armi, i beni durevoli progettati con l’obsolescenza programmata ecc. Se si utilizzano criteri di valutazione qualitativi delle attività produttive, una riduzione dei consumi non richiede necessariamente delle rinunce. Se si riducono gli sprechi di cibo o di energia, a cosa si rinuncia? Inoltre, nel concetto di rinuncia è implicita una valutazione positiva di ciò di cui si decide di fare a meno per ragioni etiche. Si rinuncia a qualcosa che si ritiene utile, o si desidera. Ma se si fa a meno di qualcosa che non si desidera, non ha alcuna utilità o causa dei danni, non si rinuncia a niente. Si fa una scelta per stare meglio. Gli ambientalisti che prospettano un futuro di restrizioni, sacrifici e rinunce per evitare che la crisi ecologica diventi irreversibile, non solo si condannano all’ininfluenza politica, ma non si rendono nemmeno conto di offrire ai loro antagonisti una straordinaria opportunità di denigrare le scelte ecologiche sostenendo che, in base alle esplicite affermazioni dei loro sostenitori, peggiorano le condizioni di vita.
     In realtà le riduzioni dei consumi di fonti fossili e delle emissioni di gas climalteranti necessarie per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, si possono ottenere aumentando l’efficienza con cui si utilizzano le risorse e riducendo gli sprechi, senza ridurre i consumi finali. Per riscaldare gli edifici meno efficienti energeticamente (classe G) si consumano 200 chilowattora al metro quadrato all’anno. I più efficienti (classe A) ne consumano meno di 40. Se si migliora la coibentazione di un edificio in classe G e a parità di benessere i suoi consumi si dimezzano, si dimezzano anche le emissioni di CO2 e i costi del riscaldamento. Un intervento di questo genere non comporta peggioramenti delle condizioni di vita, non richiede rinunce e consente di avere dei risparmi economici direttamente proporzionali ai vantaggi ecologici, con i quali si possono pagare i costi della ristrutturazione energetica.
     Il contributo delle tecnologie ecologiche è indispensabile, ma non sufficiente per ridurre l’insostenibilità ambientale se si continuerà a misurare il benessere con la crescita del Prodotto interno lordo e non si diffonderà la consapevolezza che, come ha detto Robert Kennedy nel celebre discorso del 18 marzo 1968 all’Università del Kansas, «il Pil misura tutto, ma non ciò che rende degna la vita di essere vissuta». In altre parole: ciò che si può comprare (che può essere misurato dal Pil) non soddisfa le esigenze esistenziali più profonde degli esseri umani (non rende la vita degna di essere vissuta) e ciò che soddisfa le esigenze più profonde degli esseri umani (che rende la vita degna di essere vissuta) non si può comprare (non può essere misurato dal Pil).

6. La spiritualità e la fede
     Nelle società che finalizzano l’economia alla crescita del Prodotto interno lordo, le attività che comportano una compravendita (e fanno crescere il Pil) sono ritenute più importanti e hanno un maggior riconoscimento sociale delle attività che non la comportano. Le attività che comportano una compravendita attengono all’ambito del corpo, della sopravvivenza e del benessere materiale. Le attività che la escludono attengono all’ambito dello spirito: i rapporti d’amore basati sul dono reciproco del tempo senza aspettativa di restituzione (donum); i rapporti comunitari basati sul dono e il controdono del tempo, vincolati a una restituzione (munus); la solidarietà con i più deboli; la meditazione; l’incantamento davanti alla bellezza del mondo; la volontà di aggiungere col proprio lavoro bellezza alla bellezza dei luoghi in cui si vive; la perdita della cognizione del tempo davanti a un’opera d’arte, ascoltando un concerto, leggendo poesia; l’espressione della propria creatività; lo studio disinteressato; la comunicazione non verbale con i viventi non umani; la capacità di sentire come propri il dolore e la gioia degli altri; l’indignazione attiva nei confronti delle ingiustizie e dei rapporti di dominio all’interno della specie umana e tra la specie umana e le altre specie viventi.
     Queste sono le attività che rendono la vita degna di essere vissuta. Soltanto se si rivalutano la spiritualità e l’importanza per il benessere individuale e per la coesione sociale delle esperienze esistenziali non mercificabili, si può rendere desiderabile lo spostamento delle attività produttive dalla crescita del Pil alla compatibilità con la fotosintesi clorofilliana, anche se comporta una riduzione dei consumi, e si può definire un sistema di valori alternativo a quello che sta portando l’umanità all’estinzione.
     La spiritualità è una componente costitutiva degli esseri umani che non va confusa con la fede. La fede è credere in qualcosa che non è dimostrabile scientificamente. Dante nel canto XXIV del Paradiso, ai versi 64-66, ha scritto: «Fede è sustanza di cose sperate / e argomento delle non parventi / e questa pare a me sua quiditate». La fede dà sostanza a ciò che si spera e consente di ragionare su ciò che non si vede. Questa è la sua essenza. Non tutti hanno la fede che, secondo la dottrina cattolica è una grazia, un dono divino, mentre la spiritualità è insita nella natura umana, anche se il modo di produzione industriale ha utilizzato tutti gli strumenti di persuasione di massa per cancellarne la consapevolezza e indirizzare le aspettative esistenziali degli esseri umani alla sola soddisfazione delle esigenze materiali della sopravvivenza. La spiritualità è il pre-requisito della fede, perché induce a porsi le domande sul senso della vita e della morte, sull’esistenza di Dio, sull’immortalità dell’anima, sull’origine dell’universo, che gli esseri umani si sono posti sin dalla preistoria, come testimoniano i culti dei morti e la concezione della morte come passaggio a una nuova forma di vita, simboleggiata in forma particolarmente evidente dalle tombe a forma di uovo in cui i corpi venivano collocati in posizione fetale. A queste domande, che si pone seriamente solo chi sente il bisogno di dare alla sua vita un senso che il consumismo non può darle, la razionalità non è in grado di dare risposte. Sia coloro che accettano la risposta della fede, sia coloro che non riescono ad accettarla, ma non per questo mettono a tacere le proprie esigenze spirituali, sono accomunati dal rifiuto di essere complici del processo che sta trasformando il pianeta Terra in un luogo inabitabile per la specie umana.
     È la scelta etica di non appiattirsi sul materialismo ad affiancare questi credenti e questi non credenti; a rendere questi credenti diversi da coloro che, millantando di esserlo, propongono di incentivare i consumi per far ripartire la crescita economica; a rendere questi non credenti diversi dagli atei e dagli agnostici materialisti. Coloro che hanno mantenuto viva la loro spiritualità sanno che le tecnologie finalizzate a ridurre l’impatto ambientale dei processi produttivi sono necessarie, ma non sufficienti per superare la crisi ecologica se non cambia il sistema dei valori e si continuerà a finalizzare l’economia alla crescita della produzione di merci. Come ha scritto Papa Francesco nell’Esortazione apostolica Laudate Deum (70), «le soluzioni più efficaci non verranno solo da sforzi individuali, ma soprattutto dalle grandi decisioni della politica nazionale e internazionale». Sulle quali però non c’è da fare affidamento, come dimostra il fallimento delle 27 conferenze mondiali (Cop) in cui dal 1995 a oggi, 2024, i rappresentanti di 196 Paesi, quasi tutti i Paesi del mondo, hanno aggiornato di anno in anno le strategie per ridurre le emissioni di gas serra che anno dopo anno sono sistematicamente aumentate. Forse per questo il Papa ha aggiunto che «non ci sono cambiamenti duraturi senza cambiamenti culturali, senza una maturazione del modo di vivere e delle convinzioni sociali, e non ci sono cambiamenti culturali senza cambiamenti nelle persone».
     Un cambiamento del sistema dei valori su cui si fonda il modo di produzione industriale non sembra attualmente possibile, anche se da qualche decennio centinaia di gruppi di persone lo stanno applicando nella loro vita, a partire da una scelta emblematica: il controesodo dalle città del XX secolo alle zone rurali abbandonate negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, dove col lavoro volontario di coloro che hanno scelto di viverci e di chi condivide il loro progetto, ma non vuole o non può farne una scelta di vita, sono stati ristrutturati i vecchi edifici con grande rigore filologico ed è stato costruito qualche nuovo edificio per le attività culturali comunitarie e lo svolgimento dei servizi di cura che vengono offerti a ospiti temporanei. Sia gli edifici ristrutturati, sia i nuovi raggiungono elevati livelli di efficienza energetica, utilizzano energie rinnovabili per soddisfare il fabbisogno residuo, recuperano l’acqua piovana per gli usi non alimentari, utilizzano la fitodepurazione per le acque di scarico, sono arredati con utensili, manufatti e materiali estromessi dai circuiti commerciali anche se perfettamente funzionali, destinati a diventare rifiuti per far posto alle novità che consentono di tenere alta la domanda di merci. L’autoproduzione dà un contributo determinante a soddisfare il fabbisogno energetico e alimentare; l’alimentazione è per lo più vegana; gli scambi tra i residenti sono fondati sul dono reciproco del tempo; gli scambi con chi condivide i loro valori, ma non il loro progetto di vita, su donazioni volontarie. Il lavoro è finalizzato a fare bene e non a fare tanto, le giornate sono scandite tra il tempo delle attività manuali, il tempo della meditazione e il tempo dello studio, a cui, nelle comunità religiose, si aggiunge il tempo della preghiera.
     Nei gruppi che si ispirano a questi valori e li attuano in forme differenziate rispondenti alle loro esigenze, confluiscono persone di diversi strati sociali, con culture e sensibilità diverse, accomunate dal disagio di vivere in una società materialista e competitiva fino all’esasperazione, disilluse di poter contribuire a cambiarla con l’impegno politico, desiderose di dare un senso alla propria vita instaurando rapporti di solidarietà con gli altri e mettendo la propria disponibilità umana e le proprie competenze e al servizio di chi ne ha bisogno. I gruppi che hanno elaborato una visione del mondo e della vita più profonda, anche perché si collocano in una linea di continuità con tradizioni storiche millenarie, sono alcune comunità cattoliche che si rifanno agli insegnamenti dei Padri del deserto e alle esperienze monastiche rimaste fedeli agli insegnamenti dei loro fondatori, e un numero più ridotto di comunità laiche unite da una ricerca spirituale iniziatica. Entrambe fanno riferimento al misticismo orientale nella pluralità delle sue declinazioni.
     In un villaggio non pioveva da molto tempo. Tutte le preghiere e le processioni non erano servite a nulla: dal cielo non scendeva neanche una goccia. Presi dalla disperazione gli abitanti del paese si rivolsero al grande uomo della pioggia. Egli venne e chiese di potersi fermare per cinque giorni in una capanna ai margini del villaggio, con un po’ di pane e acqua. Quindi rimandò tutti alle loro occupazioni quotidiane. Al quarto giorno cominciò a piovere. Tutti si rallegrarono e corsero dai campi e dai diversi posti di lavoro alla capanna dell’uomo della pioggia per festeggiare con lui e chiedergli quale fosse il suo segreto. Egli rispose: «Non sono stato io a far piovere». «Ma sta piovendo», disse la gente. L’uomo della pioggia rispose loro: «Giungendo nel vostro villaggio mi accorsi che regnava un grande disordine esteriore ed interiore. Così mi ritirai nella capanna e cominciai a fare ordine in me stesso. Una volta raggiunta l’armonia anche voi avete fatto ordine, e quando è stato fatto ordine in voi anche la natura ha raggiunto il proprio ordine. Allora ha cominciato a piovere».
     Commentando questo antico racconto, che riporta nel suo libro L’essenza della vita. Il risveglio della consapevolezza nel cammino spirituale”, Willigis Jäger ha scritto che: «nella sua semplicità, esprime molto più di tanti programmi e di tante proposte intesi a migliorare il mondo».[6]

Note
[1]  La Stampa, 15.12.1991.
[2]  La Stampa, 20.12.1993.
[3]  P. P. Pasolini, Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia, intervista a cura di Guido Vergani, Il Mondo, 11 luglio 1974, in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1987, pag. 72.
[4]  In Lettere luterane, Einaudi, Torino 1980, pag. 78.

[5]Dati 2024.
[6]  [Edizioni] La parola, Roma 2019, pag. 77.

Seguirà la seconda parte a giorni.