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Tra oriente e occidente, il Vedanta di René Guenon

di Umberto Bianchi - 06/08/2019

Tra oriente e occidente, il Vedanta di René Guenon

Fonte: Umberto Bianchi

Mi sono letto con attenzione e tutto d’un fiato “L’uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta” del grande scrittore francese di cose esoteriche, Renè Guenon. Una pietra miliare per comprendere il pensiero del grande francese, in grado di offrire una visione inedita di un aspetto delle dottrine Hindu, ai più misconosciuto ma che, ritengo assolutamente sconsigliato a chi non abbia un minimo di dimestichezza con la filosofia in genere e con l’”Arya Dharma”, la religiosità Indo-Buddhista. Un linguaggio irto di terminologie Hindu e ricco di sofisticate elaborazioni concettuali, che vanno sovrapponendosi in un crescente, fanno di questo, un testo sicuramente importante, ma dalla lettura assolutamente impegnativa e difficoltosa, assorbibile con molta difficoltà.
Cominciamo con il dire che il Vedanta rappresenta un particolare settore delle Upanishad, ovverosia di quella raccolta di scritti di impostazione filosofica che, in un’ottica di epocale salto di qualità nel pensiero umano, rappresenta uno di quegli esempi di passaggio dal pensiero mitico del Rg Veda a quello di matrice più prettamente filosofica (per l’ambito Hindu dovremmo più esattamente dire “teosofica”….), in virtù di quel generale passaggio all’ “Età Assiale” dell’umanità, così magistralmente descritto da Karl Jaspers, ma altrettanto da questi successivamente mal interpretato (sic!). Il Guenon ci dice il Vedanta non esser né una dottrina filosofica né una forma di religione, bensì una dottrina metafisica a sé e pertanto non assimilabile nè comparabile con alcuna limitante elaborazione teoretica occidentale o alcuna forma di devozionalismo che dir si voglia. Quella del Vedanta, è una trattazione sulla struttura dell’uomo in rapporto all’Essere ed all’Assoluto, dei quali costui rappresenta solo una piccola ed infima parte, una goccia nel mare, assolutamente confondibile con questo.
E qui Guenon attraverso l’idea di una onnipervasività dell’Assoluto accompagnata ad un sua siderale distanza dalle cose del mondo, attraverso la descrizione del Brahman, ci spinge in direzione di una visione “neoplatonica” del Vedanta e dell’intero corpo dottrinale Hindu. Sensazione che sembra trovare la sua riconferma in un’idea piuttosto “stratificata” dei vari stadi dell’essere umano in rapporto con Brahman/Assoluto. Purusha, Prakriti, Buddhi, Manas e quant’altro, poco o nulla contano se non supportati da un concetto che fa da impalcatura all’intera narrazione guenoniana: quello di Atman  (dal Guenon chiamato Atma…).
Atman è lo stato superiore dell’Io, in connessione con l’Essere; è quello che potremmo definire quale”Io sovrasensibile”, in veste di stadio ultimo di una natura umana progressivamente liberata dalle incrostazioni dell’individualità, sino a raggiungere uno stato di connessione con l’Assoluto e realizzare il tanto agognato “Moksa” o “Liberazione”, coincidente con la assoluta e definitiva spersonalizzazione e perdita di individualità del singolo essere, finalmente libero dalle illusorie catene della Maya e del desiderio.
La concezione del Vedanta vede l’uomo composto fondamentalmente da due stati, uno prettamente materiale, rappresentato dalla dimensione della corporea materialità e degli animici impulsi ad essa collegati, l’altro più propriamente spirituale, tendente all’Assoluto e del quale Atman rappresenta uno stadio di finale compiutezza. Ambedue gli stati, sebbene differenziati ed opposti, sono tra loro ed al loro stesso interno, strettamente interrelati da una molteplice serie di stadi intermedi che sembrano dare dell’uomo l’immagine di una gigantesca cipolla, ricoperta da molti strati di bucce.
Gli stessi stati di manifestazione di Atman nell’essere umano ripercorrono Veglia/ Vaishwanara, Sogno/Taijasa,  Sonno profondo/Prajna, proprio nel nome di quell’ anelito dell’animo umano alla Liberazione finale e che sembrano direttamente riportarci ad una valenza neoplatonica dell’intero contesto. La qual cosa, sembra esser riconfermata dalla definizione che Guenon ci dà di un Brahman, che tanto ci ricorda quell’Uno di plotiniana memoria, la cui distanza dall’umano pensare e dalla realtà è tale da non poter “essere”, definizione questa che costituisce un limite all’illimitatezza da cui Brahman/Assoluto è caratterizzato.
Gli stessi concetti di Buddhi/Intelletto superiore ed Ishwara/ Universale Personalità Divina, sebbene, dal punto dei rispettivi stadi di appartenenza, si collochino su superiori piani di “spersonalizzazione attiva”,  rispetto al Brahman/Assoluto, costituiscono delle limitanti ipostasi. E’ dunque possibile un diacronico parallelismo  tra il Vedanta Hindu, le Upanishad ed il Neoplatonismo, nella sua essenza emanazionista? A detta di taluni sì, poiché le uniche differenze ravvisabili in ambedue le narrazioni, sarebbero rappresentate dal tipo di uditorio a cui si rivolgerebbero, di impronta prettamente religiosa l’una, di impronta prettamente “profana” e razionalista l’altra.
Ma a noi non sembra esser così. Le differenze ci sono, eccome, e stanno proprio nella radicale differenza dell’impostazione che sia l’uno che l’altro, hanno nel loro rapportarsi verso l’Essere e l’Assoluto. Gli indoeuropei d’Oriente il divino lo fanno passare sopra le proprie teste, lo accettano passivamente, facendo della spersonalizzazione e dell’annullamento totale dell’individualità, attraverso il Moksa-Nirvana, la tappa finale a coronamento del proprio percorso. Pertanto l’intera riflessione razionale, è qui  concentrata all’interno della sostanza divina (teosofia). Gli Indoeuropei d’Occidente, sono figli di Prometeo, di una conoscenza cioè volta ad illuminare ed a definire ciò che definibile non è, ovverosia  l’Assoluto stesso, dall’alto di una conoscenza in grado di porsi oltre ed al di sopra di quest’ultimo, ovverosia quella filosofica che andrà via via facendosi essoterica o esoterica, a seconda dei vari contesti epocali di riferimento.
In base a quanto sin qui detto, ci dobbiamo chiedere se l’emanazionismo gnostico-platonico  può essere applicabile all’Arya Dharma e, nello specifico, all’Induismo nelle sue molteplici espressioni. Diciamo che se, da un punto di vista prettamente strutturale, l’Induismo ed il Vedanta possiedono delle valenze all’apparenza sicuramente emanazioniste, da un altro bisognerebbe muoversi con prudenza . Quella Induista è una forma di religiosità “enoteista”, ovverosia imperniata sulla compresenza di un Assoluto neutro ed indefinibile accanto ad una estroflessione della sostanza divina in una strabordante molteplicità di attive personificazioni. (La Trimurti Brahma, Civa, Visnu, alle innumerevoli divinità “minori” (Indra, Varuna, Krisna, Yama, Agni, Rudra, Garuda, etc.).
La stessa narrazione mitologica a proposito della nascita del mondo, è improntata su un ruolo attivo delle divinità, volto ad addivenire alla creazione, e comunque sia, il Pantheon delle divinità Hindu mantiene un ruolo molto attivo nella vita spirituale dei suoi praticanti, ben lontano, pertanto, da un etereo emanazionismo che, nell’Occidente Ellenistico, pervenne in una fase di senescenza del politeismo greco-romano, non riscontrabile nel subcontinente indiano dove, invece, l’Arya Dharma, sarebbe sopravvissuto sino ai giorni nostri, perpetuandosi e cercando, in qualche modo, di rinnovarsi.
Pertanto lo stesso Vedanta potrebbe essere anche inteso, più che come espressione di una versione orientale del neoplatonismo, come invece una vera e propria forma di manifestazione del divino, all’insegna di una complessa stratificazione, data dal fatto che,  contrariamente al Neoplatonismo, essa viene elaborata in un ambito assolutamente “teosofico”. Se da una parte, la guenoniana idea di una Tradizione Primordiale, Assoluta, indefinibile, a guisa di quell’Uno di plotiniana memoria, intesa quale perno centrale, dal quale si diparte un’infinita serie di espressioni, è sicuramente suggestiva e corretta.
Se il rigore e la puntigliosità con cui il Guenon cerca di far piazza pulita di tutti i vari fraintendimenti o delle facilonesche interpretazioni sul Vedanta e la Tradizione in genere, sono giusti e degni di rilievo. D’altra parte, però, a parere di chi scrive, va rilevato che, sul Nostro, parimenti ad altri consimili autori, pesa come un macigno, una carenza di impostazione di non poco conto. Se si va a ben vedere, in tutto lo scritto del Guenon sul Vedanta si rileva un sottile disprezzo verso l’Occidente, accompagnato dalla implicita asserzione di una pretesa superiorità spirituale dell’Oriente sull’Occidente.  Lo stessa vicenda di vita guenoniana, conclusasi in quel del Cairo, in coerenza con la sua aderenza alla dottrina Sufi, è indicativa di quanto detto.
Questa asserzione nasce da un ben preciso fraintendimento sulla natura dell’Occidente. Se in scritti come “Il Regno della Quantità ed il segno dei tempi” (al pari di altri consimili scritti, di altri autori…) viene effettuata una esatta e corretta disamina sui mali d’Occidente, sembra però ci si dimentichi o si voglia omettere quel dato nodale rappresentato dalla costitutiva ambiguità e mutevolezza del pensiero occidentale che, senza ombra di dubbio, possiamo definire quale “bipolarità” del pensiero occidentale.
Una “bipolarità”, in virtù della quale l’intero percorso occidentale, è caratterizzata dal sorgere di forme-pensiero, quali narrazioni  a carattere universale ed omologante, animate da una propensione a confinare l’Assoluto in una dimensione eterea ed astratta, nel nome di una progressiva razionalizzazione ed oggettivazione dell’Essere, alle quali hanno sempre fatto da contraltare forme di pensiero dalla opposta valenza, irrazionaliste, vitaliste, animate dall’afflato di far convivere nel medesimo ambito immanenza e trascendenza.
Ambedue queste spinte si susseguono e si inseguono, lungo tutta la storia d’Occidente, facendone un “unicum” , in grado di auto perpetuarsi e sopravvivere a sé stesso, proprio grazie alle proprie aporie. Questo contrariamente a quanto accaduto in Oriente ove, la sopravvivenza delle rispettive espressioni di civiltà, è rappresentata dalla pedissequa imitazione del modello occidentale o da parodistici ritorni di fiamma di “integralismi” di vario tipo e marca. Senza voler togliere nulla a nessuno, l’implicito intento di questo breve scritto, è sicuramente quello di uno stimolo alla riflessione e ad un rinnovato dibattito, che sia finalmente in grado di portarci fuori dalle secche di una ristretta e sterile idea di Tradizione.