Vincitori e vinti
di Daniele Perra - 04/07/2025
Fonte: Strategic Culture Foundation
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rivendicato una “vittoria storica” contro la Repubblica Islamica dell’Iran. Tuttavia, un’attenta analisi del conflitto mostra qualcosa di ben diverso.
Nel momento in cui Israele ha iniziato l’Operazione “Rising Lion” (curiosa la scelta del nome, con l’idea, forse, di richiamarsi alla bandiera dell’Iran prima della Rivoluzione del 1979) si era prefissato almeno tre obiettivi: 1) la distruzione del programma nucleare iraniano; 2) scatenare una rivolta popolare contro la Repubblica Islamica; 3) eliminare i suoi vertici militari e politici. L’uccisione della Guida Suprema Ali Khamenei, ad esempio, era stato indicato dallo stesso Netanyahu come potenziale evento conclusivo del conflitto (va da sé che lo stesso Netanyahu aveva affermato che l’eliminazione dei vertici di Hamas avrebbe portato alla fine della guerra nella Striscia di Gaza; ma così non è stato).
Ora, dopo qualche giorno dal cessate il fuoco, appare piuttosto evidente che Israele non abbia raggiunto uno solo degli obiettivi prefissati. Il programma nucleare iraniano (nonostante gli annunci trionfalistici di Donald J. Trump sull’efficacia dell’azione statunitense contro i siti di, Natanz, Fordow e Isfahan) sembra solo parzialmente scalfito. Verrà ritardato ma non interrotto. Anzi, l’aggressione israeliana ha fornito un ulteriore incentivo a sviluppare un programma nucleare anche militare come forma di piena deterrenza (da valutare se si procederà ad intavolare un nuovo e difficile negoziato), a prescindere dall’adesione della Repubblica Islamica al trattato di non proliferazione ed una fatwa della Guida Suprema che considera le armi di distruzione di massa come contrarie ai valori dell’Islam (la fatwa rimane comunque un parere giuridico non vincolante). Questo, se vogliamo, rappresenta anche un limite per Teheran che sembra non avere una reale alternativa esistenziale, sebbene abbia dimostrato di poter colpire Israele con relativa facilità.
Dal canto suo, Israele, nonostante un sostanziale dominio sui cieli dell’Iran occidentale, si è dimostrato assai più abile nell’uccidere civili che nell’ottenere un reale successo militare (scienziati, ingegneri e tecnici coinvolti nel programma nucleare con le loro famiglie, oppure giornalisti; si veda l’attacco alla TV di Stato iraniana che ha ricordato quello effettuato dalla NATO a Belgrado nel 1999).
L’Iran gode inoltre di una profondità strategica che Israele non ha. I suoi caccia non possono raggiungere le aree orientali della Repubblica Islamica, cosa che garantisce a Teheran un vantaggio non di poco conto. La loro ridotta autonomia ne limita fortemente l’efficacia degli attacchi (i siti nucleari iraniani hanno subito danni piuttosto scarsi dall’aviazione israeliana) e lascia intoccabili molte riserve strategiche utili per un conflitto prolungato.
Sin da subito era chiaro che Tel Aviv non sarebbe andata molto lontano in questo scontro senza un diretto intervento di Washington, che è arrivato ma non nelle modalità sperate dal governo israeliano. Netanyahu si augurava una pesante campagna di bombardamenti protratta per diverse settimane. É arrivato un attacco limitato (risulta evidente il ruolo dell’intelligence pakistana che ha fornito all’Iran data e ora dell’attacco nordamericano in modo da evacuare in anticipo le aree destinate ai comunque “deboli” bombardamenti) che, se non altro, ha avuto il “merito” di fornire ad Israele una via d’uscita da una situazione che si stava complicando non poco.
Ad oggi, inoltre, il sito di Fordow, difficilmente penetrabile dall’esterno (a prescindere dall’utilizzo di ordigni capaci di arrivare in profondità), appare quasi intatto. E permane anche il mistero sugli oltre 400 kg di uranio arricchito che sarebbero spariti prima dell’attacco.
Anche l’idea di scatenare una sommossa popolare contro il “regime” sembra miseramente naufragata, sebbene Israele possa ancora contare su notevoli risorse asimmetriche all’interno dell’Iran (gruppi terroristici curdi e balochi, in particolare). A questo proposito, è bene ricordare che già nel 2014 era apparso sui alcuni siti legati alle Forze di Sicurezza Israeliane un piano per spingere ad una parcellizzazione etnico-settaria dell’Iran (una sorta di versione aggiornata alla Repubblica Islamica del Piano Yinon degli anni ’80 del secolo scorso che prevedeva lo smantellamento di Siria ed Iraq nel medesimo modo). In particolare, si parlava di sfruttare un regime sanzionatorio sempre più stringente per convogliare il malessere delle minoranze verso il governo centrale e scatenare una sorta di implosione dall’interno dello Stato unitario iraniano. In questo senso, è indubbio che la pesante infiltrazione di agenti sionisti in Iran (si pensi anche al MeK, già protagonista in passato di numerosi assassinii mirati contro influenti personalità politiche e scientifiche della Repubblica Islamica) rimanga l’arma più efficace che Israele può utilizzare contro Teheran (cosa ampiamente dimostrata anche nella prima fase della recente aggressione; un’azione ancora una volta simile a quella compiuta da NATO-Ucraina sul territorio russo con l’Operazione “Spiderweb”). Tuttavia, rimane uno strumento da lungo periodo, mentre l’attuale governo israeliano è interamente concentrato sul breve (caratteristica, in realtà, dell’intero Occidente). Lo stesso Netanyahu, con tutta probabilità, ha optato per l’attacco all’Iran per garantirsi una sopravvivenza politica di fronte all’evidenza del fallimento a Gaza; dove, dopo due anni di massacri indiscriminati, Israele ha ottenuto assai poco (Hamas è ancora lì e continua ad infliggere perdite a Tsahal, ed i palestinesi non sembrano intenzionati a lasciare la loro terra, nonostante la distruzione).
Netanyahu, tuttavia, ha fatto male i conti. E la sua azione, al posto di provocare l’agognata rivolta contro gli ayatollah (è indubbio il fatto che esistano anche ampie fasce delle popolazione scontente con il governo centrale), ha ottenuto l’effetto contrario, portando ad una risposta compatta contro l’aggressione (fatta eccezione per alcune figure, decisamente impresentabili, della diaspora iraniana in Occidente). La Repubblica Islamica è ancora salda. Ed anche in questo caso, le capacità di guida e la popolarità di Ali Khamenei (un letterato, giurisperito dall’enorme forza spirituale che ha subito nel corso della sua vita incarcerazioni, torture, ferite in guerra e che, di fatto, è più vecchio dello stesso Stato d’Israele) sono state enormemente sottovalutate. Senza considerare che difficilmente le minacce di morte possono spaventare un uomo cresciuto nel mito del sacrificio in nome della giustizia di Hussein (nipote del Profeta Muhammad) a Kerbala nel 680 (d.C.). Come sono state sottovalutate le capacità di risposta militare dell’Iran ed il livello del suo programma missilistico (Israele mai nella sua storia aveva subito attacchi simili, e le immagini di Tel Aviv sono lì a dimostrarlo).
Proprio sul piano militare, il conflitto è stato un notevole salasso per le casse dello “Stato ebraico”, visto che su di esso ha investito oltre 300 milioni di dollari al giorno con risultati molto scarsi. Risorse che i vari Smotrich e Ben Gvir (esponenti di spicco del neosionismo religioso) avrebbero preferito spendere per portare avanti i piani di pulizia etnica nella Striscia di Gaza. Non bisogna inoltre dimenticare che Israele è un’entità profondamente dipendente dagli aiuti esteri. Nei primi anni della sua vita, di fatto, Israele è sopravvissuto grazie all’enorme risarcimento fornito dalla Germania per le vittime dell’olocausto ed agli aiuti militari di Francia e Gran Bretagna. Almeno fino al 1967, invece, il rapporto tra Stati Uniti ed Israele ha conosciuto fasi alterne. Tant’è che il Presidente Dwight Eisenhower arrivò a denunciare una crescente invadenza della lobby sionista nel corso del suo mandato. Nonostante ciò, a partire proprio dal 1967 (anno della cosiddetta “guerra dei sei giorni”), si registra un’impennata nel sostegno militare ed economico statunitense ad Israele. Se fino al 1965 gli aiuti annui ad Israele si aggiravano intorno ai 60 milioni di dollari, nel triennio 1967-1970 questi hanno raggiunto la cifra di 102 milioni annui, anche per permettere ad Israele di superare indenne la “guerra d’attrito” con l’Egitto. Questa cifra, a sua volta, è stata quintuplicata tra il 1970 ed il 1976 – quando Nixon e Kissinger pensavano di utilizzare Israele per contrastare la presenza sovietica nella regione – arrivando a 634 milioni annui. Cifra costantemente aumentata nel corso del tempo, visto che prima del 7 ottobre 2023 Israele riceveva dagli USA fino a 4,3 miliardi di dollari di aiuti ogni anno, cui si aggiungono altri 2 miliardi circa di donazioni private (è cosa nota che suddette donazioni private abbiano anche aiutato a finanziare il programma nucleare segreto israeliano, mai ostacolato dagli Stati Uniti). Israele, inoltre, è l’unico ricevitore di aiuti diretti USA che non deve dichiarare in alcuno modo come spende questo denaro. E tale aiuto è ulteriormente aumentato dopo il 7 ottobre 2023, fino ad arrivare agli oltre 20 miliardi dell’ultimo anno di presidenza Biden, consentendo ad Israele di portare avanti senza interruzione la sua guerra di distruzione/espansione verso Gaza, Libano e Siria, e di preparare la sua aggressione all’Iran (facilitata anche dall’assassinio di Qassem Soleimani ad opera della prima amministrazione Trump).
In conclusione andrebbe segnalata la presenza di un attore che ha agito nell’ombra ma con notevole sapienza: la Cina. In pochi hanno osservato come l’attacco israeliano sia arrivato a poca distanza dall’inaugurazione della ferrovia Pechino-Teheran; ramo fondamentale della Nuova Via della Seta, alla quale l’Occidente continua a opporre con una certa insistenza la cosiddetta Via del Cotone (progetto infrastrutturale che dovrebbe collegare il Mediterraneo orientale all’India, attraverso Israele, Penisola Arabica ed Oceano Indiano). É cosa nota che una delle strategie degli Stati Uniti (in particolare) sia quella del sabotaggio più o meno diretto di questo sistema di cooperazione commerciale grazie al quale Pechino mira al superamento dell’ordine unipolare (si pensi, ad esempio, ai gruppi terroristici che attaccano in modo reiterato il Corridoio Economico Sino-Pakistano). In questo senso, non è affatto da escludere che colpire Teheran avesse pure l’obiettivo di creare un nuovo arco di destabilizzazione regionale capace di mandare in frantumi il disegno cinese. La Repubblica Popolare, tuttavia, è rimasta quasi impassibile, sfruttando la sua diplomazia per evitare che Israele potesse colpire le infrastrutture petrolifere iraniane, causando danni non solo alla Repubblica Islamica ma alla Cina stessa che rimane il principale acquirente del greggio di Teheran (lo stesso motivo per cui l’Iran non ha scelto di non utilizzare l’“arma” della chiusura dello Stretto di Hormuz). Da non dimenticare, inoltre, che la Cina continua ad avere notevoli interessi economici anche in Israele. Il suo lavoro, dunque, ha impedito che entrambi i contendenti giocassero la carta della reciproca distruzione del proprio tessuto economico-infrastrutturale. Anche in questo caso, però, la geografia gioca a favore di Teheran, con la possibilità di ottenere rifornimenti via terra dal Pakistan (e, dunque, dalla Cina); mentre Israele vive esclusivamente sui rifornimenti marittimi (con tutto ciò che comporta in caso di attacco diretto o indiretto – il caso degli Houthi è emblematico – ai suoi porti).
La cruciale diplomazia ombra di Pechino è la stessa che ha fatto sapere a Washington che un’eventuale azione volta al rovesciamento della Repubblica Islamica avrebbe rappresentato una linea rossa da non superare (soprattutto alla luce del trattato di cooperazione strategica venticinquennale siglato proprio tra Teheran e Pechino; tra l’altro, assai simile a quello che l’Iran ha siglato pure con Mosca).
Oggi assistiamo all’autoesaltazione di Donald J. Trump che si vanta al contempo di aver distrutto il programma nucleare iraniano e di aver portato alla pace tra i due contendenti. Come già anticipato, ha semplicemente salvato Israele da una situazione oggettivamente sempre più difficile, evitando agli USA di entrare in un conflitto che non possono in alcun modo permettersi (soprattutto alla luce di un eventuale intervento di Cina e Pakistan) in questo momento storico. Tale “successo” (più ipotetico che reale) verrà utilizzato sia sul piano della propaganda interna, sia per ripresentarsi come legittimo leader dell’Occidente e forzare gli europei a portare la spesa militare al 5% sul Pil. Nonostante ciò, come è vero che non vi è stata nessuna distruzione di Fordow in stile Hiroshima, è altrettanto vero che non vi è alcuna pace reale. Questa è solo una prima fase di un conflitto che sarà ancora molto lungo.