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Weltpolitik? La ottusità strategica e geopolitica della Germania

di Giacomo Gabellini - 30/09/2022

Weltpolitik? La ottusità strategica e geopolitica della Germania

Fonte: Giacomo Gabellini

La vera spinta propulsiva al rilancio dell’export della Bundesrepublik venne tuttavia dalle ricadute di carattere geopolitico e geoeconomico prodotte dalla riunificazione tedesca. Il ricongiungimento tra i Länder dell’ovest e quelli dell’est sotto forma di incorporazione di questi ultimi nell’ex Germania occidentale consentì alla Bundesrepublik di sostituirsi all’ormai defunta Ddr come principale esportatore verso i Paesi dell’Europa orientale. Come rivela l’esperto Guillaume Duval: «le imprese tedesco-occidentali hanno ereditato, attraverso il loro controllo sugli ex Kombinat della Germania Est, la loro rete di relazioni nell’ex mondo comunista […]. La rapida riconquista dell’hinterland centro-europeo è stata uno dei fattori chiave (molto più delle riforme di Schröder) del riposizionamento dell’industria tedesca».
Più o meno conformemente al grande disegno elaborato anni prima dal presidente della Deutsche Bank Alfred Herrhausen, la Germania unificata seppe sfruttare i canali che la Ddr aveva costruito con i Paesi ex comunisti sia per schiudere le porte di un mercato da oltre 100 milioni di consumatori in grado di assorbire prodotti di consumo e macchinari tedeschi, sia per varare una riorganizzazione su vasta scala del proprio sistema produttivo. Le peculiari caratteristiche delle nazioni dell’est, contrassegnate da cambi depressi e manodopera a basso costo altamente qualificata, le rendevano perfettamente incasellabili nello schema a cerchi concentrici, di intensità e pressione economica tendenzialmente decrescente all’aumentare della distanza dal nucleo, tratteggiato dall’influentissimo consulente strategico Roland Berger (tra i principali architetti del modello di privatizzazione aziendale delle imprese dell’ex Ddr riunite sotto la gestione della Treuhandanstalt): «per rimanere competitivi a livello internazionale – dichiarò Berger – dobbiamo apportare radicali cambiamenti strutturali […]. I tedeschi dovrebbero riflettere sui loro punti di forza e abbandonare tutte le produzioni cui altri possono dedicarsi a minor costo […]. I nostri punti di forza si concentrano nel lavoro creativo e ad alta intensità di conoscenza; sappiamo inventare, sviluppare, costruire e mettere a punto prodotti tecnologicamente all’avanguardia. Ciò include la gestione dei progetti, l’ingegneria finanziaria, la pianificazione e la logistica […]. In quanto Paese industriale avanzato, il nostro futuro consiste nell’imporci come cervello del sistema [...]. Le fasi semplici come il taglio della lamiera, la saldatura, la tornitura, le fresatura, il montaggio devono essere lasciate agli altri [Paesi] […]. Se comprendiamo correttamente la funzione dell’attività industriale, ci accorgiamo che ciò non significa la fine della Germania come nazione manifatturiera. Il mercato mondiale tende a uniformarsi, e quindi dobbiamo riorganizzare la divisione del lavoro tra i vari Paesi secondo il motto: la tecnologia, il know-how e gli assemblaggi devono restare in Germania, la componentistica deve venire da fuori».
Conformemente alle indicazioni di Berger, la Germania colse l’occasione presentatasi con il crollo dell’Urss per specializzarsi ulteriormente nella produzione di beni di investimento complessi (automobili, aerei, treni, ecc.) e in tutti i vari aspetti della logistica, nonché per verticalizzare la manifattura e il commercio estero mediante la delocalizzazione delle produzioni dal ridotto valore aggiunto presso i Paesi dell’Europa centro-orientale. Un fenomeno che ha consentito alla Germania di riprodurre nel cuore del “vecchio continente” il modello giapponese di specializzazione industriale nei comparti ad alto e/o altissimo valore aggiunto – con polacchi, ungheresi, cechi, sloveni, ecc. che hanno vestito i panni di malesi, taiwanesi, indonesiani e coreani – in grado di aggirare gli effetti negativi prodotti dai salari relativamente elevati e dall’orario di lavoro sempre più corto degli operai tedeschi. Il risultato è stata la trasformazione dell’intera area mitteleuropea in fornitrice di componenti semilavorati per conto dell’hub industriale tedesco, le cui esportazioni cominciarono a caratterizzarsi da quel momento da un forte contenuto di importazioni. Come ha spiegato Marcello De Cecco nel 2009: «la Germania, negli ultimi due decenni, ha sviluppato una struttura geografica e anche merceologica del commercio estero abbastanza simile a quella che aveva prima del 1914. È riuscita a costituire al centro dell’Europa un enorme blocco manifatturiero integrato, includendo via via tutte le aree industriali ad essa vicine in una rete produttiva le cui maglie sono divenute sempre più strette. La misura della integrazione del sistema produttivo che la Germania ha ricreato al centro dell’Europa dopo la caduta del muro di Berlino è data dal rango che nelle statistiche tedesche ricoprono piccoli Paesi della Mitteleuropa come Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria […] [, ma anche Polonia, Romania, Belgio, Olanda, Austria e Svizzera]. Ciascuno di questi Paesi, nella classifica mondiale per esportazioni e importazioni, occupa posizioni assai inferiori a quelle che ha come partner commerciale della Germania. E quasi tutti, poiché o adottano l’euro o hanno monete ad esso agganciate, hanno poco da preoccuparsi dello squilibrio dei loro conti con i tedeschi».
La prima azienda a intuire e a valorizzare questa prospettiva è stata la Siemens, che minacciò di trasferire la produzione di telefoni cellulari in Ungheria qualora i sindacati tedeschi si fossero opposti a una maggiore flessibilità del lavoro. Oltre ad essere tradizionalmente ben istruiti, precisi e affidabili, i lavoratori cechi, slovacchi e ungheresi risultavano particolarmente disposti ad accettare i contratti che più avvantaggiano le imprese. Non sorprende quindi che nel 1991 la Volkswagen, dopo aver soppesato costi e benefici dell’operazione, decise di rilevare l’azienda ceca Škoda e di trasferire alcuni rami della produzione nella vicina Slovacchia, Paese caratterizzato da bassi salari che può tuttora fregiarsi del crisma di “Montecarlo della Mitteleuropa”. Una “benedizione” ottenuta anche grazie alla pratica, condivisa con altre nazioni dell’Europa dell’est, di reimpiegare sistematicamente i fondi europei per sovvenzionare gli sgravi fiscali alle imprese dell’Europa occidentale. In sostanza, l’allargamento dell’Unione Europea verso est in nome della “solidarietà europea” si configurava in tutta evidenza come una forma di legittimazione delle più deleterie forme di dumping fiscale e salariale, destinate a intensificare la pressione al ribasso sugli stipendi innescata dalla stessa Germania con le riforme Hartz.
Ciononostante, il Consiglio d’Europa decise comunque di ridurre del 35% i finanziamenti destinati ai Paesi mediterranei che erano stati concordati per il periodo 1992-1996 riorientandoli verso l’Europa orientale. Da allora, le sovvenzioni sono cresciute di anno in anno benché i Paesi destinatari degli aiuti non avessero l’obbligo di conformarsi agli stessi rigidissimi criteri d’austerità a cui erano chiamati ad adeguarsi i membri dell’eurozona, sottoposti ai vincoli della Banca Centrale Europea. La Polonia, nazione strategicamente cruciale per la penetrazione economica tedesca verso est e per la sua posizione geografica di “ponte” tra Russia ed Europa continentale, è stata letteralmente investita da una pioggia di aiuti economici europei (oltre 81 miliardi di euro tra il 2007 e il 2013) grazie ai quali Varsavia ha avuto modo di ammodernare la rete dei trasporti nell’ambito di un poderoso programma di ricostruzione delle fondamentali infrastrutture nazionali che ha inciso poco o nulla in termini di indebitamento (il debito pubblico e di poco superiore al 50% del Pil). Tra il 2008 e il 2016, moltissime imprese multinazionali hanno aperto propri stabilimenti in Polonia favorendo il dimezzamento del tasso di disoccupazione (15,2% del 2004 al 7,7% del 2014) e il rilancio della produttività interna. Non a caso, si tratta dell’unico Paese membro dell’Unione Europea a non essere mai entrato in recessione dal 2008 in poi. Nazioni anch’esse caratterizzate da basso costo del lavoro quali Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia hanno imboccato processi di sviluppo paragonabili a quello polacco, beneficiando a loro volta della delocalizzazione degli impianti produttivi e dell’ampio margine di manovra in ambito di interventi statali sull’economia incoraggiati e permessi dalle regole europee – più recentemente, a beneficiare del fenomeno della delocalizzazione sono stati la Croazia e addirittura l’Austria, Paese in cui il segreto bancario gode di tutela costituzionale.
Dopo essersi limitata a rifornire l’industria tedesca della componentistica dallo scarso valore aggiunto, l’Europa orientale si è gradualmente adattata a svolgere le fasi produttive più complesse; un fenomeno che trae origine dalla carenza di manodopera qualificata in Germania, dove – a differenza dei Paesi mitteleuropei – le scuole vocazionali hanno cominciato a perdere buona parte della loro attrattiva in favore delle università. Questo, per lo meno, è quanto asserito dalla maggioranza del Bundestag per giustificare l’introduzione di un disegno di legge atto a schiudere le porte tedesche a migliaia di lavoratori qualificati provenienti dai Paesi non aderenti all’Unione Europea, nonostante i forti sospetti sollevati in alcuni ambienti progressisti secondo cui l’intera manovra sarebbe frutto di una campagna orchestrata dagli industriali tedeschi interessati a rinfoltire l’esercito di manodopera scarsamente retribuita per mantenere costante la pressione sui salari interni. Fatto sta che la presunta scarsità di operai altamente specializzati è stata sfruttata come pretesto dalle imprese manifatturiere tedesche per riprodurre nel cuore dell’Europa il fenomeno, fino ad allora confinato al continente nordamericano, delle reverse maquiladoras, coniato in riferimento agli stabilimenti messicani in cui si assemblano prodotti statunitensi dall’elevato valore aggiunto. In tale contesto, «pur mantenendo la testa in patria, l’industria tedesca sta trapiantando alcuni suoi organi vitali oltreconfine, (ri)cementando quella Mitteleuropa che le risulta preferibile, per prossimità geografica e culturale, ai siti produttivi spagnoli, portoghesi, italiani e nordafricani, su cui aveva ripiegato in tempi di Guerra Fredda». Non è un caso che, tra il 1998 e il 2013, quasi il 60% del valore aggiunto della produzione tedesca sia stato realizzato proprio con manifatture a elevato impiego di manodopera disseminate nella Mitteleuropa, oltre che in Danimarca, Finlandia, Svezia, Austria, Benelux e Italia settentrionale. La Germania si è imposta come principale partner commerciale praticamente di tutti questi Paesi; l’interscambio realizzato con Austria, Repubblica Ceca, Lussemburgo, Olanda, Slovacchia, Ungheria e Polonia è in genere più del doppio rispetto a quello che gli Stessi accumulano con il loro secondo partner commerciale.
Grazie ai due Nord Stream e al Turkish Stream-Tesla, Berlino ha sia consolidato la propria sicurezza energetica che rafforzato la dipendenza degli altri Paesi europei dalla Germania, impostasi come centro di redistribuzione del gas russo nel “vecchio continente” aggirando gli strutturalmente instabili Paesi dell’Europa orientale. Per quanto la Merkel si sforzi di sottolineare l’essenza eminentemente commerciale dei tubi che fanno arrivare il gas russo in Germania, agli Usa non sfugge il loro significato (geo)politico. Le condutture russo-tedesche vanno infatti a consolidare l’interdipendenza tra Berlino e Mosca e tra la Germania e l’Unione Europea, perché assicurano alla Bundesrepublik la possibilità di controllare i flussi energetici verso i Paesi del “vecchio continente”. È sostanzialmente questa la ragione che ha indotto Washington a esercitare forti pressioni sull’Unione Europea affinché appoggiasse sia l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, sia il gasdotto trans-adriatico, concepiti entrambi per far affluire verso l’Europa meridionale petrolio e gas naturale caucasico bypassando a sud il territorio russo.
D’altro canto, già sotto Trump ma con accresciuta convinzione in seguito all’insediamento dell’amministrazione Biden, gli Usa hanno moltiplicato gli sforzi per sabotare la realizzazione del gasdotto russo-tedesco Nord Stream-2, intensificando le pressioni diplomatiche sul governo di Angela Merkel e predisponendo una serie di sanzioni contro tutte le imprese coinvolte nella costruzione della conduttura ai sensi del Countering America’s Adversaries Though Sanction Act del 2017 e del Protecting Europe’s Energy Security Act del 2019. L’imponente campagna montata da Washington contro la conduttura sconta l’approvazione dei Paesi dell’Europa orientale che indentificano nell’accordo russo-tedesco relativo al raddoppio del Nord Stream un vero e proprio “Patto Molotov-Von Ribbentrop 2.0” perché destinato a cancellare i privilegi economici garantiti dalla loro posizione geograficamente centrale per il transito dell’energia russa verso l’Europa. Un punto di vista espresso in primis dall’Ucraina, per la quale la realizzazione del Nord Stream-2 comporta l’abbandono delle reti tradizionali e quindi una drastica riduzione delle royalty connesse al transito del gas siberiano verso l’Europa occidentale, con conseguente vanificazione delle residue chance di Kiev di accreditarsi come centro di distribuzione europea del gas russo.
La domanda di “sicurezza energetica” proveniente dall’Europa orientale ha trovato parziale soddisfazione con l’intervento “provvidenziale” dell’amministrazione Trump, che nel giugno del 2017 ha inviato la prima fornitura di Gnl verso l’impianto di rigassificazione polacco di Świnoujście – costruito ad hoc – e predisposto ulteriori consegne sia a questo che ad altri terminali. A partire da quello che sorge presso l’isola croata di Krk, cofinanziato dall’Unione Europea a dispetto dei costi vertiginosi (circa 600 milioni di euro), del colossale impatto ambientale e dell’anti-economicità del Gnl statunitense rispetto al gas russo perché funzionale alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento e, soprattutto, perfettamente confacente al progetto Usa mirato a ridisegnare il sistema di distribuzione energetica europea. L’impianto di Krk verrà infatti collegato a quello Świnoujście attraverso un apposito corridoio nord-sud ancorato al Northern Gateway, un gasdotto baltico concepito per garantire l’afflusso di metano norvegese estratto del Mare del Nord e trasformare la Polonia in un importante distributore di gas naturale alternativo a quello russo per tutta l’Europa centrale, grazie anche alla serie di inter-connettori realizzati verso Lituania, Slovacchia e Ucraina. L’intero progetto è maturato nell’ambito del Trimarium, una versione del vecchio Intermarium aggiornata al XXI Secolo e declinata pertanto secondo un canone spiccatamente geoeconomico, implicante l’unificazione del “grande spazio” ricompreso tra il Baltico, il Mar Nero e l’Adriatico attraverso un programma di ammodernamento infrastrutturale (ferrovie, autostrade, condutture energetiche e canali) che favorisca le interconnessioni tra i Paesi aderenti, vale a dire Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Austria, Slovenia, Croazia, Romania e Bulgaria.
Per Marek Jan Chodakiewicz, storico statunitense di origini polacche che ha scritto parte del discorso pronunciato da Donald Trump a Varsavia nel 2017, il Trimarium rappresenta un progetto «culturalmente e ideologicamente più compatibile con gli interessi nazionali americani». Il cui scopo «è chiaro: colpire la Russia facendo calare il suo export di gas in Europa (obiettivo realizzabile solo se l’export di gas Usa, più caro di quello russo, sarà incentivato con forti sovvenzioni statali); legare ancor più agli Usa l’Europa centrale e orientale non solo militarmente ma economicamente, in concorrenza con la Germania e altre potenze europee; creare all’interno dell’Europa una macroregione (quella dei “tre mari”) a sovranità limitata, direttamente sotto influenza Usa, che spezzerebbe di fatto l’Unione Europea e si allargherebbe all’Ucraina e oltre». Quella stessa Ucraina a cui l’Unione Europea assicurò pieno appoggio in seguito alla “svolta” di Jevromajdan, dichiarandosi disposta ad offrire un nuovo accordo di associazione al nuovo esecutivo prodromico all’apertura delle porte comunitarie a un Paese in piena recessione, che aveva per ben due volte (2008 e 2010) sventato la bancarotta grazie ai finanziamenti del Fondo Monetario Internazionale e che risultava gravato da oneri debitori per 37 miliardi di dollari. L’associazione dell’Ucraina all’Unione Europea risultava però conforme agli intendimenti della Germania, che ambiva ad instaurare in Ucraina un clima favorevole agli investimenti. Nell’ottica della Merkel e dei suoi collaboratori, l’apertura ai capitali tedeschi avrebbe garantito l’ammodernamento delle strutture in-dustriali ucraine inglobando il Paese nel blocco economico integrato da 130 milioni di persone costruito da Berlino a partire dalla riunificazione.

Giacomo Gabellini, Weltpolitik. La continuità politica, economica e strategica della Germania (2018):