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In Afghanistan un'Italia grottesca

di Roberto Zavaglia - 03/04/2007

I Predator no: non è tollerabile che l’Italia mandi in Afghanistan aerei con un nome tanto guerresco. Così avevano tuonato gli esponenti della sinistra radicale (?), apprendendo che era stato deciso di inviare due velivoli senza pilota di quel tipo in appoggio al nostro contingente. Poi ai pacifisti di lotta e di governo è stato spiegato che si tratta di aerei senza capacità offensive, destinati unicamente alla ricognizione. Allora i vari Giordano e Diliberto si sono tranquillizzati, considerando che, a dispetto del nome, quei Predator non erano poi pericolosi. Non gli è venuto in mente che, in guerra, i ricognitori non servono per scattare fotografie del panorama, ma per individuare il nemico sul quale, immediatamente dopo, i cacciabombardieri rovesceranno i propri carichi micidiali. Questa vicenda è il simbolo del clima di operetta e improvvisazione con cui il nostro Paese sta gestendo la sua presenza militare in Afghanistan.

  Le modalità e le ripercussioni della liberazione del giornalista Daniele Mastrogiacomo rientrano in pieno in tale atmosfera. Coerente con il criterio tricolore che “una vita umana non va mai sacrificata”, il governo ha accettato di trattare con i rapitori, spingendo Karzai a liberare un certo numero di talebani, ma poi, di fronte alle prime reazioni degli “alleati”, ha scaricato tutte le responsabilità su Emergency e sul suo capo Gino Strada. A rimetterci, così, è stato il mediatore inviato da quella organizzazione il quale è stato “trattenuto” dai servizi segreti afgani, per essere interrogato con metodi che è facile immaginare. Anche l’esultanza generale per la liberazione di Mastrogiacomo è risultata stonata in una vicenda che ha visto la morte dell’autista del giornalista e la permanente detenzione del suo interprete. Adesso, l’ambasciatore italiano a Kabul sostiene di battersi per la liberazione dei due accompagnatori del giornalista sopravvissuti, ma l’impressione  che ci interessasse solo la salvezza del nostro connazionale, in Afghanistan e non solo, l’hanno avuta tutti.

  Il cedimento al “ricatto terrorista” ha provocato una piccola crisi diplomatica con gli Stati Uniti, nonostante le rassicurazioni di D’Alema il quale sosteneva che, con la sua amica Condi, tutto filava liscio. Il nostro ministro degli Esteri, in questa prova, ha dato il peggio di sé. Con arroganza e vanagloria da parvenu della diplomazia ha, prima, negato la realtà e, poi, con la sua telefonata alla Rice, ha dato ad intendere di avere messo tutto a posto grazie al suo prestigio personale. Come se lui potesse gestire le relazioni con Washington con lo stesso piglio con cui tratta Angius o la Finocchiaro…  Gli Stati Uniti, invece, sono sicuramente infuriati per il comportamento italiano, come lo sono i governi degli altri Paesi che combattono in prima linea. Non a caso, le pressioni affinché i nostri militari adottino regole di ingaggio meno restrittive si vanno moltiplicando e la ritrosia del nostro governo, impossibilitato ad accogliere tali richieste per mantenersi in vita, suscita commenti sprezzanti in molte capitali occidentali. La leggenda “dell’italiano che non si batte” torna ad essere più che mai di moda.

  E’ veramente paradossale che l’Italia raccolga tali risultati di immagine da una missione militare che non ha nulla a che fare con i propri interessi nazionali. Al di là delle formule retoriche sulla guerra contro il terrorismo o sulla difesa dei diritti dell’uomo, nessuno, né al governo né all’opposizione, è in grado di spiegare cosa cambia, per noi, se a Kabul governa Karzai, il mullah Omar o qualche altro capo tribale. Si lascia intendere che a missioni come questa l’Italia deve partecipare per accrescere il proprio prestigio internazionale, un po’ come fece Cavour con la remota guerra di Crimea. Ma i soldati piemontesi combatterono veramente, consentendo che la questione italiana fosse inserita nell’agenda internazionale, mentre i nostri militari in Afghanistan devono fingere di essere degli operatori umanitari nel bel mezzo di una guerra. In pratica, stiamo sostenendo dei costi e assumendo dei rischi non solo inutili ma anche controproducenti. 

   Se, come prevedono diverse fonti di intelligence, la guerra dovesse intensificarsi anche nella nostra area di competenza, causando ovvie perdite fra i militari italiani, possiamo immaginarci come reagirebbe il nostro mondo politico che si riempie la bocca con la missione umanitaria. Quando un nostro soldato viene ferito o ucciso scatta una reazione simile a quella che si riserva per un muratore extracomunitario caduto da una impalcatura senza sistemi di sicurezza adeguati. Pare un inaccettabile incidente sul lavoro come se, per un militare, il pericolo di perire in battaglia non facesse parte dei rischi del mestiere. I nostri sono soldati volontari, addestrati con gli stessi standard degli altri eserciti europei e, forse, pesa soprattutto a loro l’ipocrisia di un mandato che, oltretutto, li priva di mezzi utili a sostenere l’impatto di un eventuale attacco.

  Nell’ultimo mese ci sono stati 1.200 raid aerei statunitensi e britannici che hanno causato anche centinaia di morti fra i civili, mentre il nostro Parlamento affrontava la questione afghana con il fariseismo e i tatticismi della politica interna. Il centrodestra si è distinto per incoerenza, riuscendo, in pochi giorni, a votare, nelle due Camere, prima a favore e poi contro il rifinanziamento della missione. La sinistra radicale, invece, è stata patetica come la sua pasionaria Franca Rame la quale, dopo essersi dichiarata sconvolta per il dilemma in cui si trovava, ha votato sì, pur aggiungendo che lo faceva ”con il sangue agli occhi”. Sarebbe ora che quanti si oppongono all’imperialismo Usa ne traessero le necessarie conclusioni e si liberassero della fedeltà dogmatica alla sinistra, comprendendo come le questioni cruciali della nostra epoca vadano affrontate con una nuova  mappa delle appartenenze e delle contrapposizioni. Questa, però, temiamo che sia destinata a rimanere un’illusione.