Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Bardo Thodol, il libro tibetano dei morti

Bardo Thodol, il libro tibetano dei morti

di Alfonso Piscitelli - 03/04/2007



Mario Pincherle, Libro Tibetano dei Morti - Bardo Todol L’argomento morte da qualche tempo non è più tabù in Occidente. Il discutere di eutanasia, di testamento biologico, di predeterminazione del momento in cui “lasciarsi andare” ha fatto venir meno uno dei tabù più radicati nella cultura moderna. Il tabù della fine della esistenza fisica: quella reticenza a parlare schiettamente di morte che si manifestava nello stesso linguaggio cifrato dei necrologi. “E’ mancato all’affetto dei suoi”, “è venuto meno…” erano le formule eufemistiche per evitare di nominare il convitato di pietra. Oggi invece si invoca il diritto di morire “al momento giusto” o il dovere di accettare che il trapasso avvenga senza forzature. Allo stesso tempo la cultura new age ha favorito la diffusione di testi che affrontano il tema della morte in una prospettiva “gnostica” e la stessa ricerca scientifica, in alcuni suoi filoni “di frontiera”, ha cercato di gettare uno sguardo se non proprio sull’aldilà, almeno su ciò che accade in prossimità della morte. È interessante capire fino a che punto gli studi sulle esperienze di pre-morte condotte ad esempio dal medico americano Moody si concilino con antiche trattazioni che illustrano le tappe del viaggio iniziatico per eccellenza: quello che conduce alla vita ultraterrena.

Negli ultimi mesi la casa editrice Anima ha pubblicato, con un commento a cura di Mario Pincherle, il cosiddetto “Libro Tibetano dei Morti”. Il Bardo Thodol – questo il titolo originario – è uno dei tre grandi classici “funerari” di tutti i tempi, insieme al Papiro Egizio dei Morti e alla Divina Commedia di Dante Alighieri. “Bar-do” è l’espressione tibetana che indica la dimensione del passaggio tra due stati: la morte per i tibetani non è una condizione di stasi, ma una profonda sconvolgente trasformazione. L’ asceta si esercita già in vita a cogliere l’attimo che sta “tra” vita e aldilà; così come si esercita a cogliere il momento magico in cui la mente passa dalla veglia al sonno ovvero dal sogno del mattino – carico di premonizioni – al risveglio. Apprendere le fasi che succedono alla estinzione della esistenza terrena, imprimerle nella propria memoria di immagini per il tibetano vale come promessa di “liberazione”.

Il Bardo Thodol fu composto in sanscrito dal grande maestro Padma Sambhava, nell’VIII o nel IX secolo, per i buddhisti indiani e tibetani, ma fu da questi occultato e venne riportato alla luce solo nel XIV secolo dallo «scopritore di tesori» spirituali Karma Lingpa. Tra i primi a commentare in Italia questo sconcertante manuale di viaggio fu, negli anni Trenta, l’orientalista Giuseppe Tucci. Da allora in poi, e soprattutto negli ultimi anni, si sono succedute a ritmo frenetico riedizioni e commenti sempre nuovi.

Padma Sambhava, Bardo Thodol. Il libro tibetano dei morti Per quale motivo un testo arcano, frutto di una mentalità assai diversa da quella occidentale, affascina così tanto? Forse per il suo modo “soggettivo” di porre il problema dell’aldilà: il Bardo Thodol insegna che alla morte ogni uomo è posto di fronte al mondo ultraterreno secondo il punto di vista coltivato nella propria religione. Per il buddhismo non esiste infatti un solo paradiso, ma tanti quanti sono gli esseri illuminati, perché ciascuno di essi ha la capacità di creare con la mente una «terra pura». Se il cristiano avvicinandosi alla morte incontra il Cristo e l’indiano incontra l’amorevole Vishnu, non vi è dunque da stupirsi. Il Bardo Thodol invita a “non accontentarsi” di queste visioni religiose, ma a immergersi in una Luce più profonda, anteriore, che precede ogni forma e nella quale ogni manifestazione si discioglie. Il “Bardo Thodol” è un grande poema della luce. La “luce” è infatti il grande esorcismo alla paura della morte, che terrorizza gli adulti così come il buio terrorizza i bambini. Il Bardo Thodol assicura che il morire è un nascere alla luce, non uno sprofondare nella notte. E invita a “stare calmi”, a non cedere a spaventi o a lusinghe ultraterrene.

Il passaggio dal buio alla luce è proprio il tema che attraversa le “testimonianze” raccolte dal medico americano Moody tra coloro che sono stati sul punto di morire. Moody a classificato, con spirito baconiano, una serie di costanti (ben quindici) nei racconti dei “ritornati”: il paziente "sente" i medici che annunciano la sua morte, guarda il suo corpo dall’esterno; sperimenta una sensazione di grande pace; attraversa un tunnel buio; sperimenta una avvolgente “Luce”. Questi racconti non possono certo proporsi come criteri di oggettività scientifica; tuttavia la loro ricorrenza stupisce. Anche Goethe sul letto di morte, estasiato, mormorò “mehr Licht!”: più luce; quasi a testimoniare il passaggio ad una chiarità superiore.

La “ricerca” delle condizioni oltre la vita ovviamente non diventerà mai “scoperta”; tuttavia tale ricerca, sia che ricorra a testi arcaici ed arcani come il Libro Tibetano dei Morti, sia che ricorra ai metodi della moderna indagine scientifica, ha qualcosa di “faustiano”. L’uomo occidentale dopo aver rivolto il suo desiderio di conoscenza a ciò che sta oltre il confine geografico, oltre il confine dell’infinitamente piccolo (l’atomo) e l’infinitamente grande (lo spazio), vorrebbe oggi spostare con la conoscenza l’ultimo confine. Quello che appunto si pone “tra” le due antitesi più potenti e terribili. La vita e la morte.





Mario Pincherle, Libro Tibetano dei Morti - Bardo Todol (GDL) (IBS) (BOL) (LU)

Tratto da L'Indipendente del marzo 2007.