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Media: dov'è finita l'etica della comunicazione?

di Pasquale Rotunno - 03/04/2007




Dalle immagini rubate di vallettopoli ai programmi televisivi sempre più vuoti: la disattenzione per regole e principi sembra dominare la comunicazione nel mondo d’oggi. A dispetto dei numerosissimi codici di autoregolamentazione, vi è scarso rispetto per l’ascoltatore. E nessuna attenzione per le esigenze che provengono da fasce di utenti considerate marginali, perché non rientrano nella categoria dei “consumatori”. Si afferma, come reazione, un “bisogno” di etica; che tuttavia si esprime in considerazioni dal tono apocalittico; oppure in proposte, pur lodevoli, che mirano a stabilire nuove regole e a individuare doveri ancor più precisi per il comunicatore.
Questa risposta presuppone una visione dell’etica quale catalogo di specifici divieti e relative sanzioni. Una concezione che è alla base della “deontologia professionale”: quell’insieme di regole, norme e principi a cui debbono riferirsi le varie professioni. Il filosofo Adriano Fabris (Università di Pisa) ritiene necessario, invece, considerare l’etica della comunicazione su un piano strettamente filosofico.
Anche per ovviare all’ambiguo statuto epistemologico che la contraddistingue: “al tempo stesso etica applicata e modello possibile per una fondazione dell’etica generale”.
Comunicare non è fornire informazioni, sostiene Fabris nel suo nuovo libro: “Etica della comunicazione” (Carocci, pp. 158, 14,20 euro). Nell’ambito comunicativo avviene qualcosa di più: “si verifica un vero e proprio coinvolgimento, si realizza un legame che va al di là del mero scambio di notizie”. L’atto comunicativo è un esercizio creativo. Per questo nel comunicare si trova racchiuso un compito etico ben preciso: quello di “riconfermare la possibilità d’intesa che risulta già implicita nella dinamica linguistica. Ai problemi di etica della comunicazione né i codici né la deontologia professionale sono in grado di dare una soluzione stabile e adeguata. Il limite dei codici è nella loro stessa struttura. Le carte deontologiche pretendono di fornire una risposta, formulata in termini soprattutto giuridici, a questioni che sono invece di carattere etico.
L’indicazione della correttezza formale o della legalità di certi atti, però, non s’identifica con la loro giustificazione morale. Chi all’interno di una dimensione comunicativa agisce in maniera eticamente responsabile deve avere fin dall’inizio un’idea di che cosa sia “buono”. Deve sapere, in generale, il significato che assumono le nozioni morali fondamentali, come appunto “buono”, “giusto”, “virtuoso”. Emerge, cioè, la centralità della questione del “senso”. Qual è il senso, qual è la motivazione che mi spinge a comunicare in un modo piuttosto che in un altro? Perché, insomma, devo comunicare “bene”? A giudizio di Fabris, il comunicatore è posto di fronte a una scelta precisa: la scelta di “essere fedeli alla possibilità, insita nel comunicare, di promuovere la comunità della condivisione comunicativa”; oppure “perseguire la chiusura e il fraintendimento nei confronti degli interlocutori”.
C’imbattiamo in una vera e propria analogia tra il gioco del comunicare e la capacità che gli uomini hanno di amare e di odiare. Amore e odio, anzi, costituiscono “il più adeguato esempio di ciò che è in questione nella dinamica del coinvolgimento”. Scegliere l’intesa significa “accordarsi con la possibilità d’accordo che è inscritta nell’atto stesso del comunicare”. La questione della verità del comunicare diviene centrale. Perché “vi è verità solo se ciò che viene detto risulta funzionale alla creazione, alla promozione e al mantenimento del nesso comunicativo”.
Il modello di etica comunicativa proposto da Fabris muove dalle elaborazioni teoriche di Karl-Otto Apel e Jürgen Habermas, ma ne corregge gli esiti formalistici. Il linguaggio è, infatti, al tempo stesso funzione di separazione e condizione di collegamento. Perché scegliere il legame? La risposta di Fabris è che attraverso il legame “viene salvaguardato non solo il sé, ma anche l’altro”. In tal modo si mantiene lo spazio dell’interlocuzione, nel quale ognuno ha diritto di parola. Restando così fedeli a ciò che la comunicazione delinea. La scelta etica decisiva posta dalla capacità di comunicare è quella tra “promozione del legame” e “perseguimento della divisione sempre e comunque nell’illusione che in tal modo si ottenga un vantaggio”. Ma se non c’è comunanza, se non c’è fiducia, se mancano gli interlocutori, la comunicazione alla fine cessa. La scelta tra “bene” e “male” diventa quella, più radicale, tra “essere” e “nulla”: fra il primato del legame, dell’unità e “il privilegio della separazione, della particolarità indifferente a tutto il resto”. Scegliere l’essere piuttosto che il nulla significa “fare in modo che i nostri gesti, i nostri atti, i nostri comportamenti, i nostri pensieri risultino davvero permeati di senso”.