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Il nuovo polo dell'America latina

di Roberto Zavaglia - 04/04/2007

La minore attenzione rivolta dagli Stati Uniti all’America Latina, una delle conseguenze dell’11 settembre sulla politica internazionale, ha convinto alcuni osservatori che il subcontinente stia scivolando via dalle mani del gigante del Nord. Washington ha, in effetti, dovuto assistere a diversi cambiamenti politici sgraditi nel suo “cortile di casa”. La dottrina Monroe non è stata ufficialmente abrogata e gli Usa non rinunciano certo a far pesare la loro “influenza” nella regione, ma sono sempre più i Paesi che non orientano la propria politica secondo le indicazioni della locale ambasciata statunitense. Il viaggio intrapreso nella regione da Bush, lo scorso marzo, nel tentativo di riaffermare la leadership continentale, ha prodotto scarsi risultati.

   Fra i Paesi più grandi del subcontinente solo Messico e Colombia sembrano, in questa fase, garantire una fedeltà certa a Washington. Altrove, le elezioni più o meno recenti hanno prodotto governi che, genericamente, vengono definiti di sinistra e intendono acquisire autonomia nei  rapporti con gli Usa. Quando si parla di vittorie elettorali della sinistra, si rischia, però, di generare confusione. I vecchi partiti di impronta marxista, radicale o moderata, hanno perso gran parte del loro peso, per lasciare spazio a nuove formazioni dai caratteri inediti che andrebbero esaminate singolarmente. Sintetizzando, possiamo dividerle in due gruppi non perfettamente omogenei. In Venezuela, Bolivia, Ecuador e Nicaragua si sono insediati governi di stampo populista, connotati dalla diffidenza verso gli Usa, dal nazionalismo, dalla conclamata lotta contro la povertà e da rivendicazioni “indigene” contro le vecchie classi dirigenti. I partiti vincenti in Brasile, Argentina, Uruguay e Cile, invece, sembrano ispirarsi al riformismo europeo, ma ne differiscono a causa del contesto completamente diverso in cui operano e per alcune istanze di populismo “moderato” che, in qualche caso, evidenziano.

  Il termine populismo ha una pessima fama, non sempre del tutto meritata, tra i politologi, ma in una realtà di fallimenti socioeconomici e di bassa mobilità sociale qual è quella dell’America Latina, questa ideologia può dispiegare anche effetti positivi. Un populismo, per dire così ben temperato, favorisce l’ingresso nel gioco politico e in quello della produzione di classi ed etnie che, da sempre, sono rimaste ai margini, mettendo in crisi l’assoluta egemonia di quei ceti che, nel passato, tanto male hanno servito il loro Paese. Il caso Chavez in Venezuela, il più clamoroso per le dimensioni del Paese e per la vulcanica personalità del leader, rappresenta il paradigma di questa tendenza. Rivendicando la sua ascendenza india e identificando nel miglioramento delle classi più svantaggiate l’emergenza principale, l’ex colonnello dei parà è riuscito, in tutte le consultazioni, a raggiungere un consenso massiccio e a sfuggire a un golpe appoggiato da Washington. Le masse popolari che lo seguono, fortemente coinvolte nella mobilitazione bolivariana, usufruiscono di benefici “immediati”, frutto di politiche non in linea con i dettami del liberismo. I tantissimi nemici di Chavez, in patria e nel mondo, attribuiscono il suo successo solo all’alto prezzo del petrolio, di cui è ricco il Venezuela, e lo attendono al varco di un futuro calo del costo del greggio, prevedendo la bancarotta del Paese.

  E’ presto per dare un giudizio definitivo sulla rivoluzione bolivariana, anche perché le contrapposte propagande di sostenitori e avversari rendono difficile un esame obiettivo dei risultati raggiunti. Chavez, comunque, si è mantenuto, almeno per ora, all’interno delle regole democratiche ed ha conquistato il palcoscenico internazionale come alfiere di un’America Latina non più prona a Washington. Inoltre, ha compreso come l’estrema povertà di larghe fasce della popolazione sia la questione principale per tutto il continente. Alcuni quartieri delle città dell’America Latina assomigliano a quelli europei per benessere e servizi, ma a San Paolo, il cuore economico del subcontinente, il 20% della superficie è occupato dalle favelas. Secondo alcune recenti statistiche 209 milioni di persone sono sotto la soglia di povertà, mentre 81 milioni vivono nell’indigenza assoluta.

  L’ascesa al potere in Brasile, sul finire del 2.002, di un ex sindacalista come Inacio Lula da Silva, aveva fatto temere alle cancellerie occidentali l’avvento di un secondo Chavez. Il governo di Lula, con la sua politica di tassi elevati e di promozione degli investimenti esteri, ha tranquillizzato Washington e la finanza internazionale, finendo con lo scontentare una parte dei suoi sostenitori. Anche il presidente brasiliano denuncia l’insostenibile condizione dei poveri, ma non interviene sui prezzi dei generi di consumo, come fa, in Argentina, Nestor Kirchner, il cui “peronismo ibrido” affermatosi come reazione alla crisi finanziaria del 2.001 meriterebbe un discorso a parte. L’obiettivo di Lula è quello dell’integrazione economica, e in seguito anche politica, dell’intera regione. Questo disegno lo accomuna e, talvolta, lo mette in competizione con Chavez, perché Lula ritiene che sia il suo Paese a possedere le dimensioni per candidarsi a guidare il subcontinente. Il suo attivismo nel cosiddetto G20 durante i lavori del WTO, a Cancun nel 2.003, e la richiesta, per il Brasile, di un seggio permanente all’Onu sono segnali in questo direzione.

  Pur non mancando rivalità e spinte contrapposte, l’America Latina sembra avere cominciato la marcia verso una maggiore integrazione per ottenere condizioni di reciprocità nel commercio internazionale e difendere il proprio apparato produttivo. La gran parte degli Stati ha respinto la proposta statunitense per una zona di libero mercato comune, dimostrando la volontà di liberarsi della lunga dipendenza economica di Washington. L’Unione Europea, a partire dal vertice di Rio del 1.999, ha dimostrato di credere nell’integrazione dell’America Latina, il cui embrione potrebbe essere il Mercosur al quale, nel 2.006, si è associato anche il Venezuela. L’Europa dovrà far  seguire alle parole i fatti, rinunciando al protezionismo della sua agricoltura e aprendosi al partner latinoamericano. Perché la nascita di un nuovo polo mondiale, in grado di ridare speranze a 540 milioni di abitanti e di contribuire al riequilibrio delle relazioni internazionali, conviene anche al continente dal quale partirono gli antichi conquistadores.