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Arriva il consumismo in Libia

di William Maclean - 04/04/2007

Liberati dalle sanzioni i libici si precipitano nei negozi. Beni di consumo per lungo tempo rinnegati stanno andando a ruba, e ciò da quando le riforme di mercato e l’incremento del petrodollaro sono riusciti a trasformare coloro che possiedono sufficienti risparmi in consumatori compulsivi.
 
Arriva il consumismo. Nella costosa Gergaresh Street di Tripoli, espatriati e libici benestanti visitano le boutique per sperperare 80 dinari (circa 40 euro) per un paio di jeans, 1.300 dinari per attrezzatura da ginnastica e 250 dinari per dei flaconi di profumo. Scintillanti fuoristrada e rumorose motociclette ostruiscono le strade un tempo assonnate di Tripoli, la capitale ora dimora di una dozzina di nuovi hotel privati e di diversi centri commerciali. “L’economia è stata stagnante per anni ma adesso la situazione si sta riprendendo”, dice Salah Ismail mentre si gode una serata al bar Ewan, situato nella sofisticata Ben Ashour Street.
La folle mania d’acquisto è stata incitata dal venir meno delle sanzioni in conseguenza di importanti decisioni prese dal governo libico nel 2003: lo stato nord africano ha posto fine ad un appalto per la produzione di armi di distruzione di massa.
Le riforme, volte a cerare una diversificazione nell’economia allontanandola dal petrolio ed incentivando le imprese private, hanno giovato al benessere di questo paese, membro dell’Opec con un esportazione di petrolio pari a 6 milioni. Ma rispetto a cinque anni fa, ora anche i libanesi meno abbienti possono usufruire di una scelta più ampia sia nel cibo che negli oggetti per la casa. “E’ un momento eccitante”, dice Ismail, diplomato in management presso il Monitor Group, una società di consulenza statunitense che assiste il governo nelle riforme.
 
Coccolato e formaggio. I libanesi dicono che le sfacciate ostentazioni di ricchezza sono tuttora viste con disprezzo, sebbene sia benvenuta la possibilità di acquistare prodotti elettronici cinesi a basso costo e modesti lussi come il cioccolato ed il formaggio. Il leader libanese Muammar Gheddafi osserva questo tendenza all’acquisto e non apprezza tutto ciò che vede: per lui l’incremento delle vendite non è niente più che la conseguenza di un’economia dipendente dal petrolio nella quale i libanesi si adagiano in modo parassitario sulla loro eredità di idrocarburi.
“Venite ingannati dai salari, i salari del petrolio. Ieri sono stato a Sheba (una città libanese). Oh, i negozi, i mercati, i bar, i ristoranti e i negozi di fotografia, era tutto molto seducente! Tutta la redditività del mondo di cui un persona potrebbe mai avere bisogno era presente a Sheba”, ha detto l’anno scorso. “Ma chi compra questi prodotti? Nessuno, eccetto coloro che percepiscono salari provenienti dalla Banca Centrale, dal Tesoro e dal petrolio. Tutto ciò costituisce una finta prosperità.” Gheddafi vorrebbe che i negozi reinvestissero i loro profitti in fabbriche che garantiscono impieghi duraturi fabbricando beni che le persone sono risoluti a comprare. Uomini d’affari riformisti e i consulenti occidentali di Gheddafi concordano con il suo punto di vista, ma sostengono anche che gli investitori necessitano innanzitutto della certezza che le riforme di mercato dureranno. Alcuni ricordano le precedenti svolte repentine da parte di un governo che primeggia nel campo dell’impulsività e dello spreco. I riformisti si lamentano del fatto che i loro piano sono bloccati da persone influenti che possiedono contatti redditizi con i monopoli di stato.
 
Le riforme reggeranno? Non c’è alcun dubbio sul potenziale della Libia. Con un guadagno di più di 30 bilioni di dollari all’anno provenienti dal petrolio, nel 2007 la Libia ha messo da parte 19 bilioni di dollari per la spesa pubblica, dando il via ad una competizione nel campo degli appalti tra imprese edili straniere. “Potremmo essere una nuova Dubai”, dice Abdullah Fellah, gestore di un mulino, riferendosi al commercio nel golfo che sta riducendo significativamente la sua dipendenza dal petrolio. “Nessuno straniero vuole investire finchè non investono i libanesi. Abbiamo bisogno del know-how e delle capacità manageriali”, dice, mentre sorseggia un caffé seduto nell’ingresso di un albergo pieno di uomini d’affari e turisti europei.
I segni del cambiamento abbondano. Ad Al-Shatt ad est di Tripoli, in un nuovo complesso di ristoranti di pesce, i libanesi si buttano voracemente sulle loro cene. Nel centro della città nuovi alberghi privati offrono stanze con una connessione diretta ad internet. Nella Green Squame di Tripoli, un pilota della African Airlines usa un portatile per tenere una video chiamata con i suoi parenti che si trovano a migliaia di miglia di distanza, e ciò grazie alla connessione senza fili offerta dal bar dove è seduto.
Nasser Abdulkarim, gestore di una gioielleria nelle stradine della città vecchia di Tripoli, sostiene che per lui la fine delle sanzioni ha significato la possibilità di andare in Asia per commerciare. “Sono contento che adesso godiamo di questa libertà. Credo che questa tendenza continuerà”.