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La scuola italiana? Malata di demagogia

di Fulvio Panzeri - 04/04/2007

Parla il poeta e docente Mario Santagostini: «Troppi genitori accusano gli insegnanti. Per capire gli episodi di bullismo e prepotenza bisogna rifarsi alla lezione di René Girard sul capro espiatorio»

Continua la nostra inchiesta, con un professore, che è anche poeta e critico letterario, Mario Santagostini. Con lui parliamo di come è cambiato, negli ultimi cinquant'anni, l'atteggiamento nei confronti della scuola.
È davvero in crisi la scuola? Tu che la vivi dalla parte della cattedra, che ne pensi di questa invettiva mediatica?
«Se ti riferisci agli episodi di bullismo, devo dire che non li trovo una grande novità. Ci sono sempre stati. È che non si vedevano, con c'erano i telefonini a filmare. Con una differenza, il bullismo negli anni Sessanta era diverso, meno pesante, meno truculento. Ho insegnato anche in scuole dell'estrema periferia milanese e di questi episodi ne ho visti molti. Credo che per spiegare tutto questo ci sia un'intera letteratura e la lezione di René Girard possa essere la più idonea. Semplificando le sue teorie, si potrebbe dire che ogni gruppo ha bisogno di creare il proprio capro espiatorio. E il bullismo è proprio questo: la ricerca del diverso, come anello debole della catena. Certe logiche tetramente umane ricorrono e si attualizzano a secondo delle epoche in cui viviamo».
Oggi che cosa porta a questi eccessi di crudeltà, per lo più sviluppati, in un ambiente che dovrebbe essere educativo?
«Direi che siamo di fronte ad una accentuazione, ad una sottovalutazione e ad una mimesi della violenza, di cui un esempio è quello che si vede al cinema, dove è in forte aumento l'eccesso di truculenza. Anni fa la prevaricazione era sempre considerata negativa. Adesso che sono caduti certi sistemi etici, non è più considerata tale. Si potrebbe dire che sia la norma. È un modo di essere che contempla una mancanza di affetto verso gli altri e rimanda a certe logiche tribali che, ad esempio, Girard, ma non solo lui, descrive molto bene».
Da una parte c'è questa degenerazione sociale, ma la scuola che cosa offre come alternativa?
«Che la scuola, di per sé, sia in crisi è evidente. Ma quando mai non lo è stata? L'unico sistema formativo che tiene è quello della scuola elementare. Anche il decantato Liceo classico, paradossalmente, ha le sue pecche. Lì, ad esempio, non si è mai insegnato diritto, in un paese che ha fondato questa disciplina, dai Romani a Vico. Questo è solo un esempio per dire quanto sia stato dato valore soprattutto più all'aspetto didattico che alla cultura vera e propria. È lì che si riscontra la vera crisi, quella di un corpo docente che durante i corsi di aggiornamento non si aggiorna realmente sulla evoluzione culturale delle discipline che insegna e quindi rimane legato a ciò che ha studiato all'università o alle semplificazioni che propongono i libri di testo. La storiografia negli ultimi vent'anni è profondamente cambiata. Ma che ne sanno gli insegnanti di tutto questo? Idem per la critica letteraria. Ci sono autori come Federigo Tozzi che non vengono considerati nelle antologie, eppure sono importantissimi per la formazione dei ragazzi. Credo che leggendo Tozzi, si impara come si scrive, com'è una certa lingua italiana. Quando lo leggo ai ragazzi mi è capitato che ottengo una attenzione che non mi sarei mai aspettato. Ecco il vero problema è che non c'è un nesso forte tra cultura e didattica. Qui sta il punto debole».
Si dice che gli insegnanti siano demotivati. Può essere generalizzato questo atteggiamento?
«Oggi sono cambiati i modelli sociali di riferimento e ciò che conta per i ragazzi, con tutto quello che ne consegue, sono le veline, le modelle e i calciatori. L'insegnante non è nessuno, non è un modello vincente e così viene considerato poco e male. Gli insegnanti non possono essere dei modelli sociali e non lo sono per i ragazzi e devono adattarsi tra passione, voglia e competenza. Per i ragazzi non sono più un'autorità: lo diventano nel momento, in cui per un motivo o per l'altro, si vedono in televisione, perché ormai la televisione ha questo ruolo di istituire l'autorevolezza. E fanno fatica a ritrovare la loro auto rità, perché c'è un'onda lunga di tolleranza, vecchia di decenni, che ritroviamo ancora. È possibile trovare forme di dialogo con gli studenti, ma non si può diventare loro amici, per instaurare buoni rapporti. Insegnante e alunno sono su due posizioni estremamente diverse. Porli sullo stesso piano è una follia della demagogia.»
Che cosa si può fare per far superare ai ragazzi questo disinteresse verso la scuola?
«Oggi il diritto all'istruzione non ha più quel valore fondante che aveva 50 anni fa. Oggi un ragazzo prende informazioni ovunque. Basti pensare a Internet. Paradossalmente dico: "Se a 15 anni un ragazzo non vuole più andare a scuola e se lo fa rischia di diventare un teppista, perché non lasciarlo a casa?". Se la famiglia non riesce a dare delle motivazioni sul valore della scuola, meglio rinunciarci. Anche i genitori hanno le loro responsabilità. A loro interessa che il ragazzo sia promosso, non riescono a farli passare all'idea che lo studio è un sacrificio e uno sforzo individuale. E, per altri obiettivi, sono invece disposti a sostenere allenamenti faticosissimi, per ore. Antepongono il resto alla scuola. A me piace raccontare un aneddoto, riferito da Sandro Mazzola. Quando doveva esordire in Serie A aveva la maturità. Ha chiesto al patrigno di non andare a fare l'esame, ma lui ha rifiutato e così hanno dovuto convincere la commissione a fargli sostenere prima la prova».