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"Involontariamente crudeli". Il suicidio di Marco, il liceale torinese

di Carlo Gambescia - 06/04/2007

 

Ogni suicidio ha sempre un quid di indecifrabile. Si può risalire alle sue cause generali, indagarne i moventi sociali. Ma poi resta sempre una zona grigia, difficile da penetrare attraverso il pensiero razionale. Si muore “soli”, e si decide “da soli” di mettere fine alla propria vita. Ogni morte per suicidio ha una propria storia, spesso difficile da scoprire. Evidentemente, nel giovanissimo torinese - del cui suicidio hanno riferito ieri i giornali - improvvisamente sono venute meno le linee di resistenza individuali. Di lì la scelta di porre fine alla propria vita. Difficile per noi ricostruirne, se non per linee astratte , i moventi interni. E’ invece più facile, come accennato, risalire alle cause generali. Anche per il singolo caso.
Su questo punto, quel che ci ha colpito della triste storia di Marco (nome di fantasia riportato dai cronisti) è quanto ha dichiarato un "dirigente scolastico" del suo Liceo. Ascoltiamolo: “Purtroppo (…) a questa età, succede spesso che la sensibilità di un ragazzo non sia compresa dagli altri, ma non c’era alcun bullismo né l’intenzione di far male, solo degli sciocchi scherzi involontariamente crudeli” (Corriere della Sera , del 5-4-07).
Riflettiamo: Marco, sedici anni, due fratelli, padre italiano e madre filippina, stanco di essere umiliato da suoi compagni, per una sua presunta diversità, all’improvviso dice basta, sottraendosi in modo radicale ai suoi persecutori. Ora, la sua morte può essere spiegata chiamando in causa “’involontaria crudeltà” dei compagni?
Assolutamente no. Sul piano sociale non esiste nulla di “involontario”, nel senso di un’attività che non sia socialmente e culturalmente determinata ( o condizionata). Certo, l’ “involontarietà” invocata dal "dirigente scolastico", può assolvere l’individuo (magari secondo il diritto penale), ma non la società. Dal momento, che l’involontarietà rinvia a un preciso meccanismo sociale reiterativo. Che mostra come l’individuo tenda in modo costitutivo a reiterare meccanicamente, prima per imitazione e poi per abitudine, determinati comportamenti (socioculturali). Che possono essere sociali o antisociali, come appunto quelli che hanno condotto Marco al suicidio.
Perciò asserire che siamo davanti a un caso di crudeltà involontaria, significa ammettere che nella nostra società la crudeltà (come necessità diffusa di arrecare dolore e sofferenza all’altro, per il puro piacere dell’atto in sé) sia ormai abitudine consolidata: di tutti i giorni. Nessuno ci fa più caso, neppure i "dirigenti scolastici" . Il che indica - ecco la nostra tesi - che la crudeltà è talmente penetrata nel tessuto sociale, che è perfettamente “normale”, una volta identificato il “nemico” (il diverso), comportarsi con lui in modo crudele.
Pertanto il vero problema, non è tanto (o solo) “omologare” culturalmente e giuridicamente il “diverso” (accettandone la diversità o meno), quanto ripensare, più in generale i valori di una società, come la nostra, dove il ruolo della “crudeltà applicata”, per abitudine, ha ormai raggiunto una diffusione metastatica.
Ma c’è dell’altro: non dare soluzione adeguata, e preventiva, a questo problema (indotto da modelli culturali competitivi e conflittuali, probabilmente di tipo nordamericano), significa mettere a rischio ogni possibile progresso sul piano dell’accettazione della diversità dell’altro anche in termini di diritti. Perché la “crudeltà come cultura” rischia di restare - se ci si passa la metafora - l’acqua in cui possono continuare a nuotare "beatamente", anche i pesci (o pesciolini) dei diritti formali, estesi a tutti.
Avere un diritto non basta. Prima deve cambiare la "testa" delle persone.