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Storia del male nella cultura occidentale (recensione)

di Elio Matassi - 06/04/2007

Fonte: Avanti

RÜDIGER SAFRANSKI, STORIA DEL MALE NELLA CULTURA OCCIDENTALE DALL’ANTICHITÀ AD OGGI
Quel vuoto fuori e dentro di noi

Il “male” è solo un nome per designare ciò che ci minaccia: caos, violenza, barbarie, il vuoto fuori e dentro di noi. Personaggio chiave nel dramma della libertà umana, il male è una possibilità di tale libertà, anzi ne incarna esattamente il prezzo, non solo la società, ma ogni uomo è a rischio.
La riflessione sul male può attraversare i grandi miti, le religioni, l’intera storia della cultura e della politica: il peccato originale, Caino e Abele, Giobbe, Prometeo; i tentativi dell’antichità classica e del cristianesimo di fornire una risposta al problema: Platone ed Agostino; le strategie di arginamento, da Hobbes a Gehlen; i vani progetti tesi a migliorare l’uomo dall’illuminismo in poi; quella reversibilità tra filosofia della storia ed antropologia che ha caratterizzato l’illusione dell’idealismo classico tedesco; i ripetuti tentativi di costruire la torre di Babele. Il fascino sinistro esercitato dal male sull’arte, nella tragedia greca, in Sade, Baudelaire e Conrad. L’esperimento nichilistico di Nietzsche, Hitler, ossia la cupa follia del Novecento divenuta realtà. Una ricostruzione di questa avvincente storia del Male è quella, pubblicata di recente, da Rüdiger Safranski, “Il Male. La riflessione nella cultura occidentale dall’antichità ad oggi”, (Milano, Longanesi, 2006, 310 pp., 22,00 euro); Safranski è noto al grande pubblico come grande divulgatore e biografo di alcune tra le più rilevanti figure della filosofia tedesca da Schopenhauer, a Nietzsche e Heidegger. Il filo conduttore di tale ricostruzione sta nella stringente correlazione fra dimensione del male e libertà, il “prezzo della libertà”: “Il male non è un concetto, bensì un nome per designare la minaccia che la libera coscienza si trova ad affrontare, o che questa può arrecare ad un altro ente. Essa se la trova di fronte là dove la natura si preclude alla sua richiesta di senso: nel caos, nella contingenza, nell’entropia, nel mangiare e nell’essere mangiati; tanto nel vuoto dello spazio siderale quanto nel proprio io, il buco nero dell’esistenza. E la coscienza è capace di scegliere l’efferatezza, la distruzione. Le ragioni di ciò risiedono nell’abisso che si spalanca dentro l’uomo” (p.8). Il percorso comincia con alcune cosmogonie, con dei miti cioè che raccontano le catastrofi degli inizi e la nascita della libertà (capitolo I). Ma è poi capace l’uomo, in cui si sveglia la coscienza della libertà, di vivere secondo se stesso e fare da sé? Il pensiero antico ritiene di si (capitolo II), quello cristiano no. Il caso di Agostino dimostra (capitolo III) che la questione non è il vincolo morale, bensì se l’uomo sia in grado di serbarsi alla propria sete di trascendenza. Il tradimento della trascendenza, la trasformazione dell’uomo in un essere ad una dimensione sono per Agostino il vero male, il peccato contro la Spirito Santo. A questa concezione del mondo aderiscono anche Schelling e Schopenhauer (capitoli IV e V). Ambedue spiegano: chi rinnega il bisogno metafisico restringe drammaticamente le potenzialità umane abbandonandosi a conflitti privi di senso per l’autoaffermazione. Ma com’è possibile far si che l’uomo non si rinneghi? Come è possibile proteggerlo da se stesso? Agostino confida nella santa istituzione della Chiesa. Ma quand’anche il rapporto con Dio si dissolvesse, la fede nelle istituzioni può egualmente sussistere, come mostra il caso di Gehlen (capitolo VI). Le istituzioni danno alle concorrenze umane durevolezza, stabilità e limiti. Ed i limiti sono importanti perché nel dramma della libertà ha un gran ruolo anche la volontà di distinguersi. Distinguere significa tracciare dei limiti senza confine. Con la lotta per la distinzione e per i confini hanno inizio i rapporti elementari di inimicizia (capitolo VII). Noi e gli altri, l’impero ed i barbari: questa partizione condiziona la dinamica della storia, che è quindi anche una storia delle inimicizie. Ma anche il sogno dell’unione pacifica del genere umano è antico (capitolo VIII). Ce lo racconta la storia della fallita costruzione della torre di Babele. Kant ha sottoposto questo sogno all’esame della ragione: bisognerebbe, dice attenersi all’idea dell’unione pur senza dimenticare la sua distanza dalla realtà. Rousseau, invece, ha sognato con grande passione (capitolo IX). Egli immagina la società sotto forma di una grande comunione; siccome però l’altro resta sempre l’altro, l’aspirazione all’unità può repentinamente rovesciarsi nella comunione di essere circondato da nemici. Così è accaduto a Rousseau, che non ha accettato la sfida della pluralità. Il contrario ha fatto la tradizione del pensiero liberale, il cui programma contro il male suona così: non si possono migliorare gli uomini, bisogna invece investire nelle strutture (capitolo X). Non l’indole, bensì la natura dei loro legami reciproci deciderà il buono o il cattivo svolgimento della storia. Gli uni puntano sul mercato e sulla divisione dei poteri, gli altri sui rapporti di produzione. Ma non vi è dubbio che in entrambi i casi si sottovalutino i rischi della libertà. Vi sono abissi nei quali gli eccessi immaginari del marchese di Sade ci fanno spingere lo sguardo (capitolo XI). Il caso di Sade ci aiuta a scoprire quel male che, volendo se stesso, finisce per volere solamente il nulla. L’estetica del terrore ha poi esplorato quel nulla seducente e minaccioso (capitolo XII e XIII), finchè poi con Nietzsche il nichilismo perviene a perfetta consapevolezza facendo della volontà di potenza e del lavoro sul “materiale umano” il senso della “politica in grande” (capitolo XIV). Con Hitler la cupa follia del secolo si è fatta sanguinosa realtà (capitolo XV). Hitler rappresenta l’estrema caduta dei freni inibitori nell’età moderna. Da quel momento nessuno può più ignorare quanto sono profondi gli abissi della natura umana. Allorché si è smesso di credere in Dio, si è cercato un surrogato credendo nell’uomo. Il penultimo capitolo, dedicato a Giobbe (capitolo XVI), rintraccia nel suo caso un tipo di devozione che fa riflettere: devozione infondata e proprio perciò corrispondente all’abisso senza fondo dell’universo, che rivela altresì quale strana cosa sia la fiducia nell’ordine del mondo (capitolo XVII). Un percorso da cui si evince chiaramente che il male, in un modo o nell’altro, è sempre sulla cresta dell’onda.