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Neopaganesimo, ovvero l’etica del finito e della «vita buona» (recensione)

di Giuseppe Cantarano - 10/04/2007

Solo il buon Dio ci può salvare, diceva Heidegger. Nonostante i prodigi della Tecnica, mediante cui l’uomo si illude di potersi fare egli stesso garante della propria salvezza, è nella fede che riponiamo ancora la nostra speranza. Perché l’onnipotenza della Tecnica non riesce a sanare definitivamente le nostre insanguinate ferite. Non riesce a farci dimenticare la costitutiva fragilità del nostro corpo. La sua irrimediabile finitudine. Come, del resto, nessuna resurrezione potrà cancellare la sofferente memoria della croce: ce lo ha mostrato una volta per tutte Piero della Francesca nella sua Resurrezione di Cristo.
E tuttavia, in attesa che il buon Dio si appresti a salvarci, a liberarci definitivamente dal dolore e dalla morte, ciascuno di noi può, nel frattempo, contrastare il proprio dolore e la propria morte. Ma può farlo solo se è in grado di mantenersi fedele al presente. Accettando serenamente la propria finitudine. La propria costitutiva fragilità. Rinunciando a pretendere l’infinito. Rinunciando a pretendere l’assoluto. Perlomeno, qui, su questa terra.
Possiamo riassumere così quella che Salvatore Natoli chiama «etica del finito». Una sorta di «neopaganesimo». Ora, nei suoi due libri appena pubblicati (La salvezza senza fede, Feltrinelli, pp. 265, euro 10,00 e Sul male assoluto. Nichilismo e idoli del Novecento, Morcelliana, pp. 75, euro 10,00) Natoli ritorna su questi temi. L’etica del finito, nell’ideale neopagano propugnato da Natoli, vuol dire che l’individuo deve assumere consapevolmente la propria morte, se intende fare in modo che la sua vita non sia risucchiata dalla disperazione prodotta dal nichilismo. Non c’è però niente di luttuoso, in questa sua proposta etica. Perché accettare la propria morte significa accettare la naturalità della nostra vita. Che è la nostra condizione ineludibile. E tuttavia - osserva Natoli -, l’individuo che è consapevole della sua naturalità invalicabile, sebbene rinunci alla salvezza assoluta, non rinuncia però a quella «relativa». E per «salvezza relativa» Natoli intende - sulla scia del Leopardi della Ginestra - il bisogno umano di aiuto reciproco. Proprio perché gli individui sono finiti, sono fragili e hanno necessariamente bisogno gli uni degli altri. Allora, piuttosto che aspirare ad una vita eterna, dobbiamo organizzarci - anche con il sostegno della Tecnica - per realizzare, qui ed ora, una «vita buona». Si tratta, appunto, di quella visione tragica della grecità antica che il neopaganesimo di Natoli riprende e rilancia nel crepuscolo odierno del cristianesimo. Divenuto ormai civiltà, cultura. O peggio ancora, agenzia che si limita ormai a prescrivere prontuari etici.
Rinunciare all’assoluto vuol dire, peraltro, liberarsi una volta per tutte dagli idoli della Modernità. In particolare, dalla credenza del male metafisico, del male assoluto. Quelli che invece esistono e aggrediscono la nostra vita - e per questo possono essere limitati, contenuti - sono i tanti mali emersi nella storia. Nella storia del Novecento, principalmente. Ecco - scrive Natoli - l’etica del finito è avere consapevolezza della morte, male assoluto per eccellenza. Ma «proprio per questo è per eccellenza pensiero della vita, realizzazione di sé nel tempo, nell’ora, con gli altri. Questo è possibile se gli uomini sono capaci di virtù, se si sostengono in un reciproco e comune affidarsi».