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Splatterkapitalismus. Note critiche

di Carlo Gambescia - 11/04/2007

 

Il capitalismo contemporaneo, può essere liquidato come puro e semplice sistema criminale? Come una specie di ultimo stadio produttivo dove gli uomini sono trasformati in spazzatura? E davanti al quale l’unica forma di protesta accettabile può essere suicidio? No. Un approccio del genere, magari suggestivo sotto il profilo letterario non ha alcun riscontro empirico. Per tre ragioni.
In primo luogo, il capitalismo resta un sistema fortemente istituzionalizzato (strutturato), che può anche utilizzare canali criminali, come dispositivi, ma sempre in posizione subordinata. In realtà, l’intreccio tra criminalità e capitalismo, in termini istituzionali (strutturali), è più stretto nelle fasi in cui il capitalismo non esiste ancora o non è particolarmente sviluppato. Si pensi a un fenomeno come la pirateria, all’inizio dell’età moderna, oppure, contemporaneo, come quello della criminalità diffusa nelle aree arretrate (anche urbane). Ad esempio, il controllo del territorio da parte della malavita, come a Napoli e Rio, indica che siamo davanti al predominio di un sistema economico arcaico o pre-moderno, fondato sulla pura forza. Ben diverso da quello moderno (e capitalistico) basato sul contratto. Detto in breve: la criminalità è anticapitalista per eccellenza, quasi come può esserlo una tribù di primitivi. La criminalità, per cultura e pratiche, rientra pienamente nell’universo “arcaicizzante” del sottoproletariato.
In secondo luogo, la riduzione dell’uomo alla stregua di una merce, spesso di scarto (privandolo della sua costitutiva “umanità”), rinvia al capitalismo in quanto tale (come fatto strutturale), e non a una sua particolare fase (o congiuntura). Quanto ai rifiuti, in senso stretto, sono un “sottoprodotto” fisiologico del capitalismo, presente fin dalle sue origini. Si pensi alle montagne di scorie di carbone su cui nascevano e si sviluppavano i villaggi dei minatori inglesi dell’Ottocento. Di conseguenza, invece di fare voli pindarici, si dovrebbe prestare più attenzione, in termini di studi, alla forza razionalizzatrice del capitalismo e alle sue eventuali falle. E, soprattutto, evitare di confidare in termini agostiniani, nell’imminente fine di una brigantesca Città degli Uomini”, abitata solo da biechi camorristi.
In terzo luogo, definire il suicidio, come unica forma di protesta è assolutamente patetico. Perché, per quanto possa essere nobile, si tratta di una scelta totalmente impolitica. Dal momento che è sempre il nemico a indicarci come suoi nemici, a prescindere, dalla nostra benevolenza o indifferenza nei suoi riguardi. Di riflesso suicidarsi, significa solo rendere la vittoria del nemico, in questo caso il capitalismo, più facile. Per farla breve: sperare che la “salvezza” giunga dai suicidi di massa è un atteggiamento da anime belle piuttosto che da analisti sociali.
Perché, allora, non mettersi a studiare sul serio, invece di rifugiarsi nel mondo della fiction? Che tra l'altro è un vecchio (e incapacitante) vizio della destra romantica e anticapitalista?