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Il libro della settimana: Eric J. Hobsbawm, Imperialismi

di Carlo Gambescia - 12/04/2007

Il libro della settimana: Eric J. Hobsbawm, Imperialismi, Rizzoli, Milano 2007, pp. 80, euro 9,00

La prima regola del buon recensore è la sincerità. Ora, la lettura del libro di Eric J. Hobsbawm, Imperialismi (Rizzoli, Milano 2007, pp. 80, euro 9,00) non è stata piacevole, perché abbiamo provato stupore, costernazione, irritazione.
Stupore, perché da uno storico come Hobsbawm non ci aspettavano un testo così mediocre. E dichiararlo pubblicamente è fonte di costernazione. Ma del resto come tacere sulla pochezza storiografica del libro? E soprattutto sull’irritante sicumera, come si diceva un volta, con la quale lo storico inglese, affronta, dando risposte banali, a tematiche così importanti come l’ imperialismo?
In realtà, il testo non ha alcuna precisa tesi storiografica da difendere. Dal momento che Hobsbawm non propone alcuna definizione preliminare dei concetti di imperialismo e “imperialismi”. Non è con Lenin ma neppure con Schumpeter. E parliamo di due tesi classiche. Come è noto Lenin, nel suo celebre L’imperialismo come fase suprema del capitalismo (1916), riconduce l’imperialismo nell’alveo di una lotta brigantesca tra nazioni al servizio dal capitalismo. Mentre Schumpeter nella sua Sociologia degli imperialismi (1918-1919), parla addirittura del capitalismo come forza anti-imperialista, in quanto portatrice di pace e prosperità industriale. Due tesi, come si vede, contrastanti ma ancora oggi attuali. E sulle quali si dividono, da un lato i movimenti no global e dall’altro i sostenitori di un Occidente “democratico” e capitalista.
Invece Hobsbawm si limita a dire che “l’attuale situazione del mondo è assolutamente senza precedenti” . E che i “grandi imperi globali del passato - come quello spagnolo del XVI e XVII secolo e, in particolare, quello britannico del XIX e XX secolo - hanno ben poco a che fare con l’odierno impero degli Stati Uniti”. Ma non spiega perché, se non ricorrendo al solito approccio economicista, basato sull’idea che la globalizzazione economica, sia oggi cavalcata politicamente, così pare di capire, dal capitalismo americano. Ma asserisce questo, pur avendo notato - contraddicendosi - quanto sia “evidente che gli Stati Uniti hanno fallito, e continueranno a fallire, nel tentativo di imporre un nuovo ordine mondiale, di qualunque tipo, attraverso l’uso unilaterale della forza”. Non si capisce, insomma, se l’ “impero americano”, sia in fase di sviluppo o sul punto di crollare… Evidentemente, Hobsbawm non riuscendo a decidersi, dice e non dice…
E, nonostante ciò, quando arriva al dunque, e si chiede: quanto durerà l’impero americano?, la risposta è di una banalità sconcertante: “E’ impossibile dire per quanto durerà l’attuale superiorità americana. L’unica cosa di cui siamo assolutamente certi è che sarà un fenomeno storicamente transitorio, così come lo sono stati tutti gli altri imperi”. Grande scoperta!
E non è tutto: “ Ci sono motivi interni - nota - che potrebbero minare la durata dell’impero americano, primo fra tutti il fatto che la maggior parte dei cittadini statunitensi non sono affatto interessati all’imperialismo o alla dominazione del mondo, non hanno nessuna intenzione di amministrare il pianeta… La debolezza dell’economia americana è tale che, a un certo punto, il governo e gli elettori degli Stati Uniti decideranno che è molto più importante concentrarsi sull’economia che non lanciarsi in avventure militari all’estero”. Pura petizione di principio. Visto che i giudizi degli esperti sul futuro dell’economia americano sono a dir poco discordanti.
Del resto, ammesso e non concesso che l’economia americana possa cedere, come potranno gli Stati Uniti mettere fine alle “avventure militari”, senza una autentica controparte esterna? Cioè un’altra potenza, come quell’Unione Sovietica, capace di imporre “limiti” agli Stati Uniti? Anche qui lo storico inglese non risponde. Mentre si diffonde sulla necessità degli Stati Uniti di “far subentrare la ragione e la consapevolezza illuminata dei propri autentici interessi” . Altre bolle d’aria.
Infine Hobsbawm ignora l’Europa (ma, da buon inglese fa tifo solo la sua patria, dove, guarda caso, non sarebbe ”facile aggirare ed eludere l’indipendenza dei media”…). E soprattutto sottovaluta il ruolo internazionale che l’Ue potrebbe svolgere come forza di mediazione, se non di contenimento degli Usa.. Ma fa di peggio: liquida bruscamente, come imperialiste anche le nazioni che “scelgono di fatto di sostenere il progetto americano”, perché colpevolmente convinte “ che esso, una volta messo in atto, riuscirà ad eliminare alcune ingiustizia locali e regionali” . E così si taglia ogni via di uscita: né con l’Europa né con gli Stati Uniti. A parte, ovviamente, la sua fede nella “consapevolezza illuminata”…
Riassumendo: nessuna definizione di imperialismo; nessuna indicazione di tipo politico; silenzio totale su un possibile (e auspicabile) ruolo europeo nella politica mondiale. Un libro inutile.