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Dalla società dello spettacolo alla società dello psicodramma

di miro renzaglia - 30/11/2005

Fonte: noreporter.org

Guy Debord. Fine dello Spettacolo 

Quando, nel ’67 (Millenovecento), Guy Debord pubblicava l’ormai evangelizzato e famoso “La società dello spettacolo”, molti, i più, quasi tutti ritennero trattarsi di un’avveniristica profezia che non avrebbe mancato di avverarsi. A mio modesto parere, si trattava, invece, esattamente del contrario:  era semplicemente la fotografia di un accaduto che, proprio da quel momento in poi, e proprio nel suo nocciolo essenziale, avrebbe via via perso verità e significato.

Attori e spettatori. Facciamo un passo filologico indietro... Cosa presuppone uno spettacolo? La compresenza separata di attori e spettatori... Cioè: una sceneggiatura interpretata dall’attore o dagli attori (prego risalire all’etimo della parola “attore” per scoprire che attiene al verbo “agire”...) a fruizione di un pubblico di spettatori-contemplatori... Il culmine di questa dinamica attori-spettatori (azione-contemplazione...) si ebbe con l’avvento a domicilio della televisione. Tutti diventammo fruitori continui di uno spettacolo incessante... Per fino la realtà era realtà solo se e quando appariva in video. Ma, apparendo in video, cessava di essere realtà e diventava spettacolo (cioè una rappresentazione  più o meno metaforica della realtà stessa...). Abbiamo imparato, così, masticando tranquillamente pastasciutta nella sala da pranzo del nostro appartamento (risalire anche qui all’etimo, prego...), ad assistere ad ogni genere di fatto-reale, sentendoci non parte coinvolta e integrante della realtà, ma fruitori di un superbo show che, in fondo in fondo, non ci toccava... Lo schermo, in qualche modo, faceva da scudo (da schermo, appunto..) agli effetti che qualunque fatto-reale, fosse anche il più orribile e nefando, avrebbe provocato nella cosiddetta società e, quindi, anche in noi stessi, ri-guardondoci...  Era un chiaro fenomeno di alienazione indotta dal mezzo di comunicazione che avrebbe ridotto, per decenni,  la coscienza di molti, i più, quasi tutti al rango di semplici spettatori: spettatori di tutto... E, fin qui, Debord non sbagliava: la sua fotografia era esatta...

Dallo spettacolo allo psicodramma. Se non che, non ci volle poi molto per capire che un’attenta regia e una sempre più scientifica e sapiente manipolazione del fatto-reale-rappresentato avrebbe eterodiretto la coscienza dello spettatore riconvertendolo all’occorrenza (anche contro la sua volontà...) al rango di attore, meglio: di comparsa  di altrui sceneggiature... Era l’abolizione dei ruoli attore e spettatore che definiscono correttamente la cognizione di spettacolo. In teatro, quando questo diaframma viene infranto, e lo spettatore è coinvolto come comparsa o co-protagonista nella messa in opera,  non si parla più di spettacolo ma di psicodramma... In somma, la riconversione dello spettatore in attore (o comparsa...), provocata dai controllori mediatici dell’avvenimento, del fatto-reale-rappresentato, e per i loro usi e consumi, era la fine dello spettacolo non il suo avveramento totalitario nella società...  Di totalitario, da quel momento in poi, restò solo lo psicodramma.

Un esempio chiarificatore. Tralasciamo per brevità tutte le fasi precedenti all’Evento culmine e chiarificatore dell’abolizione delle distanze (necessarie...) fra attore e spettatore (necessarie allo spettacolo per definirsi tale...) e soffermiamoci, invece, su una data e un fatto-reale che non lasciano scampo al dubbio: 11 settembre 2001, diretta TV dell’assalto aereo alle Torri Gemelle... Lasciamo stare, anche, tutte le discussioni che ancora ci dibattono sulla paternità della sceneggiatura, della regia e sull’incasso della più strepitosa “messa in scena”  (prego, notare l’anfibologia...) della storia e chiediamoci, invece: da quel momento, non è forse risultato evidente che lo spettacolo era finito? Chi può, in tutta coscienza, ritenersi semplice spettatore di quella “messa in scena” e di quello che ne è conseguito e ne consegue? Tutti, ormai, sappiamo di far parte in maniera integrale di una sceneggiatura scritta a più mani per niente pulite... Pur troppo, non ci sono più spettatori....  Quello che accade da New York a Baghdad al villaggio osseta, in su e in giù dall’Equatore, a destra e a manca del Meridiano Zero, e che la televisione ci racconta a modo del regista (ormai è ovvio...) non ci tiene in uno stato di all’erta e di tensione continuo? Non eterodirige i nostri comportamenti sociali? Quante regole di vita abbiamo cambiato fin anche nel nostro tran tran quotidiano? Come guardiamo adesso al vu cumprà e al vu lavà: magari con quel po’ di fastidio che provavamo prima o con il sospetto che sia un agente di Al Qaida? In Francia, patria dell’illuministica tolleranza e dei cappelli con veletta delle madame fin dé siécle (penultimo scorso...), si aboliscono per legge i femminili veli mussulmani... Peggio ancora, nel cuore dell’impero si abolisce l’habeas corpus, colonna vertebrale di qualsiasi stato che voglia ancora definirsi “di diritto”. E lo si abolisce non nei confronti dello straniero, dell’immigrato più o meno mussulmano che sia (il che sarebbe comunque ed altrettanto grave...), ma nei confronti dei propri stessi cittadini... Pensate che ciò non incida nei nostri modi d’essere e di rapportarci? Il terrorismo (per dire di un epifenomeno...) non è più un evento, maledetto catastrofico e spettacolare, ma uno stato di cose in atto permanente effettivo che ci coinvolge tutti... E la minaccia che l’evento (terroristico...) si realizzi è psicologicamente più devastante del fatto-in-sé: compiuto questo, chi l’ha scampata può (anche...) tirare un sospiro di sollievo e rilassarsi per un po’, ma avere costantemente una pistola puntata alla nuca senza sapere se, quando, dove e da chi il grilletto sarà premuto può far saltare i nervi di qualsiasi uomo, in qualsiasi angolo del pianeta si trovi... E tutti abbiamo quella maledetta canna di pistola puntata alla testa... O qualcuno pensa di essere fuori tiro?

Lo spettacolo odia l’attività? Ma ritorniamo a bomba (ops... scusate il lapsus...). Dunque - ribadisco - io penso che oggi sia improprio parlare di “società dello spettacolo”, soprattutto se se ne parla in termini totalizzanti... Se lo spettacolo, per Debord  "E’ il cattivo sogno della società moderna incatenata, che non esprime in definitiva se non il suo desiderio di dormire", spiegatemi voi: qual è, in questo contesto socio-epocale, il sogno che ci lascia dormire in pace? Dubito che la “società moderna incatenata” veda in questo stato di cose altro che un incubo... E dall’incubo non si desidera che il risveglio... Magari, per ritornare a godersi, contemplativamente, uno spettacolo (se è degno del suo nome e non pretende di essere un surrogato totalitario della realtà...).  Ma - ditemi, ancora - in fondo, che male c’è ad assumere il ruolo contemplativo proprio dello spettatore? La contemplazione non è forse una via tradizionale  per la realizzazione di sé (l’altra - lo sanno tutti - è quella dell’azione...)? Tutti “devono” (sic...) prendere la via dell’agire? Tutti “devono” (sic...) essere coinvolti nell’azione? Anche quando l’azione è imposta dall’esterno e non è una libera scelta a vocazione dell’essere umano? Per di più, è del tutto inesatto sostenere che “Lo spettacolo odia l'attività e ha fatto della contemplazione la propria cifra” (sempre Debord): lo spettacolo, per essere tale, si realizza nella complice osmosi di chi compie l’azione e di chi la contempla (se mai, criticamente...).Volete snaturare quella forma residuale di spettacolo sacro che è il calcio? Fate giocare una partita a porte chiuse: sottraete, cioè, il contemplatore (il così detto spettatore-tifoso...) all’attore (il calciatore, la squadra...). Oppure, mandate sugli spalti 60 mila spettatori a contemplare l’erba che spunta... Poi, fatemi sapere... In oltre - fateci caso - quando gli spettatori (i tifosi...) invadono il campo di gioco, trasformandosi in attori, lo spettacolo si interrompe... E diventa psicodramma...

Ad majora. Ci sarebbero da fare milioni di discorsi sui concetti debordiani di mercificazione capitalistica dello spettacolo; sul feticismo delle merci e delle immagini; sul passaggio della società dell’essere a quella dell’avere, per arrivare, in fine, a quella a tutta ora in auge dell’apparire; sulla critica alla vocazione occidentale di  filosofizzare la realtà per addivenire alla realizzazione della filosofia (mi tremano i polsi pensando all’utopia...). Tutti spunti interessantissimi che continuano ad offrire sfondi critici per la lettura e l’interpretazione del “migliore dei mondi possibili” (mi viene da ridere...). Ma io, sinceramente, non ne ho voglia... Sento il linguaggio di Debord (il linguaggio - ho detto - non ogni  suo assunto...) sostanzialmente estraneo al mio. Per cui - cari lettori - vi rimando volentieri agli esegeti ricuperatori del suo pensiero che si annidano, ormai, tanto negli alvei elitaristi della “Nuova Destra” che nelle nicchie dell’intellettualismo stonfo della “Nuova Sinistra”... Abbiate pazienza, personalmente preferisco esercitare il mio senso critico versus “la-società-del-benessere-e-della-sicurezza” (mi riviene da ridere...) sbattendo la testa, ormai da vent’anni, su un libretto di cento pagine o poco più, scritto nel 1910,  che non riesco ancora ad assimilare del tutto, nonostante parli la mia lingua: “La persuasione e la rettorica”, di Carlo Michelstaedter...  Questo sì, assolutamente profetico...