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Nella cultura del ’900 l’antiutopia ha evidenziato i pericoli insiti nella tecnologia per l'uomo

di Giuseppe Licandro - 15/04/2007

Fonte: bottegaeditoriale


Il rigetto del miraggio di un mondo perfetto, da cui possono nascere
le più disumane e brutali dittature, ha caratterizzato diversi scrittori
 
Il termine “utopia”, com’è noto, fu coniato dal filosofo inglese Thomas More nella sua omonima opera del 1516. Il vocabolo sta letteralmente a indicare un “non-luogo”, ossia una realtà immaginaria che si suppone migliore dell’esistente.
La prima grande utopia fu elaborata da Platone nel IV secolo a.C.: nel dialogo La Repubblica, egli delineò i tratti di uno stato perfetto, secondo un orientamento aristocratico che lo portò a idealizzare una società di tipo semicomunistico, retta da un ordinamento gerarchico e classista.
Proprio a Platone s’ispirò Tommaso Campanella, che ne La Città del Sole (1602), per debellare i «gran mali del mondo», immaginò la fondazione di un’ideale comunità politico-religiosa, regolata da una severa disciplina e retta da magistrati colti e virtuosi.

Il pensiero antiutopico
Nel corso della storia altri pensatori auspicavano l’avvento di una società perfetta, secondo aspetti che privilegiavano ora l’organizzazione tecnico-scientifica (per esempio, Francis Bacon o Auguste Comte), ora l’autogestione dei lavoratori attraverso la socializzazione dei mezzi di produzione (come Charles Fourier, esponente del socialismo utopistico, che teorizzò la costituzione dei falansteri, comunità agricole e industriali di tipo cooperativo).
Passando anche attraverso Karl Marx, il sogno di un mondo finalmente pacificato e libero dalle ingiustizie è giunto fin quasi alla fine del Novecento, quando anche illustri filosofi come Ernst Bloch ed Herbert Marcuse hanno riproposto la dimensione utopica dell’esistenza quale condizione essenziale per la ricerca della libertà e dell’uguaglianza tra gli uomini.
Proprio nello scorso secolo, tuttavia, si è assistito alla nascita di un filone di pensiero divergente, denominato antiutopico (o anche distopico), che ha messo in guardia dai pericoli insiti proprio nell’edificazione di società nelle quali si tentino di annullare le differenze individuali e si provi a plasmare l’umanità secondo un’ottica unidimensionale.
La questione è stata lungamente dibattuta sul piano storico e filosofico, ad esempio da intellettuali come Hannah Arendt, Milovan Gilas o Karl Popper.
Nell’ambito più prettamente letterario, l’argomento è stato affrontato da un gruppo di valenti scrittori, che ci hanno lasciato pagine di narrativa indimenticabili. In particolare – tralasciando per ragioni di spazio altri scritti – ricordiamo i seguenti romanzi: Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932); L’uomo è forte di Corrado Alvaro (1938); 1984 di George Orwell (1949); Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (1953); Il signore delle mosche di William Golding (1954).
Queste cinque opere sono accomunate da un profondo pessimismo antropologico, dalla percezione dei pericoli insiti nello sviluppo tecnologico, dal costante riferimento alla guerra o alla violenza, dalla denuncia del conformismo che attanaglia l’individuo nella società moderna.

Nel nome di... Ford
Il mondo nuovo (Mondadori, pp. 340, € 8,00) di Huxley è uno tra i primi romanzi nei quali si immagina l’avvento di uno stato totalitario mondiale, perfettamente pianificato secondo la logica dell’“efficientismo produttivista”. Non a caso l’oggetto di culto, cui si rivolge la religiosità residua dei cittadini, è rappresentato dal fondatore della prima grande casa automobilistica americana, cioè Henry Ford.
Gli abitanti di questa società sono apparentemente liberi, perché non vivono propriamente in uno “stato di polizia”, anzi possono godere senza restrizioni di ogni tipo di piacere. Tuttavia, essi vengono eugeneticamente selezionati fin dalla nascita, attraverso un vero e proprio concepimento manipolato in provetta. Successivamente, gli individui subiscono una serie di condizionamenti behavioristici e, anche attraverso l’uso ricorrente di droghe, sono indotti ad accettare supinamente il proprio ruolo nella società, che è definito secondo una struttura gerarchica e razzista: la popolazione, infatti, è suddivisa in gruppi stratificati, che vengono designati con le lettere dell’alfabeto greco «Alfa», «Beta», «Gamma», «Delta» ed «Epsilon», a seconda delle capacità intellettive e delle funzioni lavorative di ciascuno.
Viene così negata qualunque forma di individualità: ogni persona, sottoposta a condizionamenti psicologici e privata di qualsiasi sentimento, finisce per essere rigidamente inquadrata all’interno del sistema produttivo. Improvvisamente, però, una scheggia impazzita, John detto il «Selvaggio», mette temporaneamente in crisi la tranquilla e ripetitiva vita dello stato mondiale. La sua ribellione al sistema, che si concretizza in una fuga dal mondo civile verso un faro isolato, è però senza scampo: braccato dai giornalisti e da una massa di curiosi, invadenti e perversi, John si lascia irretire e coinvolgere in un brutale rito orgiastico. Poi, all’indomani si uccide, travolto dal rimorso e dal disgusto.
Huxley – come ha spiegato nel saggio Ritorno al mondo nuovo pubblicato nel 1958 – ha voluto soprattutto rappresentare l’inevitabile degenerazione della democrazia, allorché lo sviluppo tecnologico favorisca il concentrarsi del potere nelle mani di un’oligarchia che riesca a manipolare e a sottomettere le masse.

Dall’amore... alla delazione!
Alvaro, nell’Avvertenza preliminare a L’uomo è forte (Bompiani, pp. 320, € 7,23), spiega di voler descrivere nel suo romanzo «la condizione dell’uomo in uno stato di terrore», facendo esplicito riferimento all’Urss dell’epoca staliniana, che egli ha conosciuto direttamente, durante un viaggio compiuto nel 1934.
Il romanzo ha per protagonista Roberto Dale, un esule che rientra dopo quindici anni nel suo paese d’origine, dove c’è stata una rivoluzione ed è ancora in atto l’ultima fase della guerra civile fra i partigiani al potere e le bande controrivoluzionarie.
Dopo aver trovato un impiego come ingegnere presso l’Ufficio tecnico industriale di stato, Dale stabilisce una segreta relazione amorosa con Barbara, un’amica conosciuta molti anni prima e poi ritrovata. Si tratta, però, di un amore contrastato fin dagli esordi, perché la donna soffre di sensi di colpa, teme di compromettersi con un “fuoriuscito” e rifiuta di sposarlo. Del resto, Dale diventa ben presto sospetto alle autorità e viene sottoposto a continui ammonimenti da parte del direttore dell’ufficio, che lo sorveglia, anche se con modi paternalistici.
A un tratto la tragedia esplode: Barbara decide di denunciare Dale come sovversivo all’inquisitore – una sinistra figura che funge da capo della polizia –, ma, prima di compiere la delazione, avvisa l’ex amante, per consentirgli la fuga. Dale, in preda al panico, incontra casualmente il Direttore dell’ufficio e, temendo di essere arrestato, lo uccide, diventando a tutti gli effetti un “nemico del popolo”.
Il finale del romanzo è paradossale: il protagonista fugge a Nord, nei territori in cui imperversa ancora la guerra, ma viene catturato da un gruppo di partigiani, che tentano di ucciderlo. Tuttavia, si salva miracolosamente e viene poi curato da altri partigiani, che lo scambiano per una vittima delle bande controrivoluzionarie, nel frattempo definitivamente sconfitte. Egli prova, quindi, ad assumere una nuova identità e accetta di diventare un eroe da additare come esempio alla popolazione, ritornando, suo malgrado, nel sistema da cui ha cercato invano di fuggire.
Oltre all’esplicito significato politico, L’uomo è forte si caratterizza per la cupa e oppressiva atmosfera, i dialoghi tesi e conflittuali tra i personaggi, con uno stile narrativo che ricorda Dostoievskij, alle cui problematiche morali ed esistenziali Alvaro – almeno in questa opera – si è i palesemente ispirato.

Il Grande Fratello
Nel romanzo 1984 (Mondadori, pp. 324, € 8,40), Orwell immagina un mondo diviso in tre “megastati” (l’Oceania, l’Eurasia e l’Estasia), che sono impegnati fra loro in un incessante conflitto per il dominio sull’intero pianeta. La storia è ambientata a Londra, principale città dell’Oceania, un vasto impero totalitario che è governato dall’ineffabile Grande Fratello.
Questo personaggio enigmatico – che non si mostra mai in pubblico – controlla inflessibilmente la popolazione, attraverso le strutture del “Partito interno” e del “Partito esterno”, ma soprattutto tramite la “psicopolizia”, una sorta di servizio segreto che usa un sofisticato sistema di telecamere e microfoni per spiare costantemente la vita dei sudditi e reprimerne persino i sentimenti. Il volto del Grande Fratello (simile un po’ a Hitler e un po’ a Stalin) campeggia ovunque minaccioso, mentre grandi cartelloni pubblicitari ripropongono ossessivamente tre slogan politici: «La pace è guerra», «La libertà è schiavitù», «L’ignoranza è forza», nei quali sono rispettivamente sintetizzati la violenza, il dispotismo e la mistificazione imperanti nel regime.
Protagonista del romanzo è Winston Smith, un funzionario del “Ministero della Verità” che ha il compito di falsificare la storia e censurare ogni libero pensiero. Smith, però, si ribella al sistema e alle sue assurde proibizioni, dapprima solo interiormente, poi anche attraverso comportamenti espliciti: tiene un diario, si lega sentimentalmente a una collega di lavoro – Julia – e prova a prendere contatti con l’opposizione clandestina.
Tradito da una spia, Smith è sottoposto a varie torture e a un vero e proprio lavaggio del cervello, che lo porta, infine, a riconoscere le proprie colpe, a rinnegare Julia e a sottomettersi completamente al culto del Grande Fratello.
Umberto Eco, nell’ Introduzione all’edizione del libro pubblicata nel 1984, ha scritto giustamente che: «Quello che Orwell fa non è tanto di inventare un futuro possibile ma incredibile, quanto di lavorare di collage su un passato credibilissimo perchè è già stato possibile». 1984, infatti, riproduce i meccanismi perversi del totalitarismo, già ampiamente sperimentati in molti stati europei negli anni Trenta e Quaranta del Novecento.
L’aspetto veramente profetico del romanzo ci pare consista soprattutto nella preveggenza con cui Orwell descrive l’uso antidemocratico e invasivo dei mass media e, più in generale, della tecnologia, che serve non solo a condizionare le menti dei cittadini, ma anche a spiarne la vita intima. Lo scrittore britannico, tuttavia, non poteva certo prevedere che una figura così inquietante come il Grande Fratello avrebbe fornito lo spunto – a distanza di cinquant’anni – per un balordo format televisivo, che ha riscosso enorme successo tra il pubblico dei “videodipendenti”!

Roghi di libri
Fahrenheit 451 (Mondadori, pp. 210, € 7,40), a cui si è ispirato un famoso film di François Truffault del 1966, ricorda molto la Germania nazista, nella quale avvennero inauditi roghi di libri. Guy Montag, protagonista del romanzo, è, infatti, un pompiere piuttosto speciale: fa parte delle squadre che devono individuare i testi e bruciarli pubblicamente (Fahrenheit 451 sta ad indicare proprio la temperatura alla quale brucia la carta).
La vicenda è ambientata – in un futuro imprecisato – negli Stati Uniti d’America, dove imperversano le macchine e la pubblicità, mentre i mezzi di informazione narcotizzano le menti dei cittadini, propinando loro sciocchi programmi televisivi “interattivi” (anche alcune delle profezie di Bradbury si sono purtroppo avverate, ai giorni nostri!).
Poiché tutta la cultura è filtrata attraverso i canali radio-televisivi, le riviste popolari e i “suntini” dei libri, ogni altra forma di comunicazione è bandita: così si spiega la caccia ai possessori di libri, che sono considerati dei veri e propri criminali. Simbolo di questo “totalitarismo tecnologico” è il “Segugio meccanico”, un feroce cane artificiale, abilissimo nello scovare e trucidare i trasgressori della legge.
L’incontro con Clarisse, una giovane lettrice clandestina, stimola Montag a riconsiderare tutta la sua vita e a mettere in discussione i falsi valori che il potere gli ha inculcato. Egli subisce una lenta trasformazione interiore e, a poco a poco, comincia ad apprezzare i libri che sequestra, leggendone alcuni di nascosto e conservandoli. Denunciato dalla moglie, il protagonista, per salvarsi, uccide il suo caporeparto e, aiutato dall’amico-lettore Faber, fugge lungo i binari di una vecchia linea ferroviaria abbandonata, fino a raggiungere l’accampamento degli “uomini-libro”.
Costoro sono gli intellettuali sopravvissuti alle persecuzioni, che hanno imparato a memoria un libro e lo custodiscono mentalmente per tramandarlo ai posteri, nell’attesa che il mondo cambi. E, mentre infuria una terribile guerra che porta alla distruzione della città in cui ha vissuto, Montag cambia identità, divenendo il “Libro dell’Ecclesiaste”.
Bradbury ha voluto così simboleggiare la speranza della rinascita morale e spirituale dell’uomo moderno, abbrutito dalla società conformista e annichilito dal potere ottuso e volgare.

Bambini un po’ troppo litigiosi
Apparentemente difforme dai precedenti romanzi – anche per il suo stile che ricorda i racconti per l’infanzia – Il signore delle mosche (Mondadori, pp. 252, € 7, 80 ) di Golding si può considerare, tuttavia, una profonda e pessimistica riflessione sulla natura umana e sulla fragilità della democrazia.
Mentre imperversa una guerra internazionale, un gruppo di giovanissimi studenti britannici, dopo un incidente aereo, si ritrova su un’isola tropicale disabitata, privo di ogni forma di controllo da parte degli adulti. La condizione dei giovani è, pertanto, quasi ideale e richiama alla mente le suggestioni rousseauiane sulla “rinaturalizzazione” dell’uomo.
In una prima fase, sotto la guida di Ralph e Piggy, sembra prevalere proprio la saggezza: i ragazzi si organizzano secondo regole di tipo democratico, affidando le decisioni a un’assemblea, nella quale si può parlare a turno prendendo in mano una grossa conchiglia, simbolo dell’uguaglianza e della libertà di espressione.
Però ben presto i bambini sono costretti a dividersi, secondo precise mansioni: mentre i più piccoli possono dedicarsi ai giochi, i più grandi devono occuparsi di custodire il fuoco e di organizzare la caccia agli animali dell’isola.
Sarà proprio il gruppo dei cacciatori, guidato da Jack, a prendere gradualmente il sopravvento, sfruttando anche le paure immotivate della maggioranza dei membri della comunità sulla supposta presenza nell’isola di un essere mostruoso.
La violenza prevaricatrice dei cacciatori causerà la fine della democrazia, raffigurata dalla morte di Piggy e dalla distruzione della grande conchiglia, e scatenerà una sorta di guerra civile fra Ralph e i seguaci di Jack. Soltanto il sopraggiungere di un gruppo di soldati britannici, impegnati nella guerra vera, riporterà l’ordine sull’isola e la calma fra i giovani.
Golding – che come insegnante fece esperienza diretta della difficoltà di educare i bambini al rispetto delle regole – propende nella sua opera per una visione “hobbesiana” della natura umana: gli uomini tendono alla sopraffazione dei più deboli, alla trasgressione della legge, alla sottomissione ai “capi”. La democrazia, perciò, rischia sempre di degenerare nell’anarchia o nell’oligarchia.

Una democrazia fragile
La letteratura di cui abbiamo parlato si è sviluppata soprattutto nell’età dei grandi totalitarismi, allorché i margini della libertà e dell’uguaglianza si restrinsero notevolmente, in quasi tutte le nazioni. Tuttavia, neppure nell’epoca successiva, nonostante le indubbie riforme democratiche realizzate dai paesi occidentali, l’umanità è riuscita a consolidare stabili forme di convivenza civile, né ha saputo scongiurare definitivamente il ritorno delle guerre o di governi autoritari.
Anzi, all’inizio del nuovo secolo, sono prepotentemente ricomparsi il bellicismo, il terrorismo, l’integralismo religioso, la “volontà di potenza”, la propaganda ideologica martellante – proprio i terribili mali ampiamente denunciati da Huxley e dagli altri scrittori antiutopici (per un ulteriore approfondimento di queste problematiche rimandiamo all’articolo di Eleonora Righini, Quando l’utopia è il suo contrario, pubblicato sul n. 5 di Lucidamente.com; clicca qui, Nda). L’odierna democrazia occidentale ci appare, pertanto, ancora piuttosto fragile, anche perché ha finito per recepire taluni tratti dei regimi autoritari, specialmente dopo i tragici avvenimenti dell’11 settembre 2001.



(direfarescrivere, anno III, n. 14, aprile 2007)