Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / I dragoni invisibili

I dragoni invisibili

di Claudio Cerasa - 16/04/2007

Le nostre Chinatown. Da Milano a Roma, storie di esistenze inafferrabili e di traffici poco conosciuti

Zhu aveva comprato un passaporto

falso, aveva passato otto settimane

in Ucraina, aveva dormito sulle mattonelle

della Slovenia, era stato sequestrato,

venduto, bendato e poi trascinato

su un pulmino al confine con l’Italia,

a pochi chilometri da Trieste. Tredici

dei suoi compagni, a quel punto del

viaggio, erano già morti. Zhu aveva

aspettato due anni prima di arrivare a

Milano. Aveva pagato venticinquemila

euro e aveva dormito in una casa senza

acqua, senza elettricità e senza finestre.

Passa una settimana, ne passa un’altra

e un’altra ancora. Alla quarta, Zhu viene

preso e portato via. Altra casa, altro

sequestro. Zhu, però, sapeva che funzionava

così. Sapeva che per arrivare in

Italia ci volevano due anni e sapeva che

per arrivare in Italia ci volevano i sequestri.

Tu paghi, poi un modo per arrivare

in Italia lo si trova. O almeno, così

gli avevano detto. In pochi mesi, Zhu,

aveva attraversato mezza Europa, aveva

visto le strade dell’Ungheria, della Romania,

della Slovenia, dell’Ucraina.

Zhu, come tutti i cinesi che arrivano da

clandestini nelle Chinatown di Roma,

di Prato, di Firenze e di Milano, sapeva

perfettamente che i quattro signori a

cui aveva consegnato i suoi soldi erano

quattro criminali. Sapeva che per partire

da Qin Tien, per scappare dalla regione

dello Zhejiang, funzionava sempre

allo stesso modo: cinquemila euro

per partire, quindicimila per arrivare.

Sapeva tutto. Ma sapeva soprattutto che

la regola, quando si arriva in Italia, è

sempre la stessa: silenzio. Non si parla,

non si protesta, non si litiga, si lavora e

basta. Niente scazzottate, niente risse,

niente pugni, niente disordini. La polizia

deve sapere il meno possibile, gli

avevano detto. Fino a due giorni fa, prima

del corteo, prima della rissa, prima

delle bandiere rosse, prima dei feriti e

prima dei disordini di via Sarpi (a Milano),

dei cinesi in Italia non si era mai

parlato per scontri con la polizia. Al

massimo, sui giornali, erano finiti i soliti

aborti clandestini, i soliti cinesi che

non muoiono mai, i soliti laboratori che

non sono mai in regola. Da giovedì,

però, qualcosa rischia di cambiare davvero.

Perché i cinesi scesi in strada erano

per lo più commercianti, non certo

criminali nè trafficanti, nè spacciatori.

Ma se i cinesi di Milano hanno scelto di

esporsi è anche perché l’equilibrio delle

comunità straniere italiane non è

più quello di prima. Ora c’è più sicurezza

di sè. E questo vale, naturalmente,

anche per quella criminalità organizzata

che negli ultimi sette anni non ha

mai smesso di crescere. Soprattutto a

Milano. E soprattutto grazie al traffico

dei clandestini come Zhu.

Per arrivare in Italia, tra i clandestini,

c’è chi è costretto a passare dalla Slovenia,

chi dall’Adriatico, chi dai Balcani e

chi dalla Puglia. Il 95 per cento dei cinesi

arriva da una zona a sud di Shangai

che si chiama Zhejiang. Un’area che, da

sola, conta poco più di quarantacinque

milioni di abitanti. Le città principali sono

When Zhou e Qin Tien, la città di Zhu.

Quando Zhu era partito da Qin Tien e

quando Xiao gli aveva detto: “tu in Italia

sarai uno schiavo”, Zhu sapeva che Xiao

non scherzava affatto. Zhu aveva attraversato

tutta l’Europa orientale ed era

arrivato al confine con l’Italia. Fino a

Trieste. Ma a Trieste non c’era nessuno

che potesse pagare il suo riscatto. Ogni

anno, anche grazie a quei quindicimila

euro pagati alla fine del viaggio e grazie

ai diecimila euro di pedaggio alla partenza,

la criminalità cinese incassa fino

a sessanta milioni di euro tra traffico

d’armi, droga, laboratori abusivi, sfruttamento

sessuale e trasporto di clandestini.

In tutto fanno quasi cinque milioni di

euro al mese. E un modo per far arrivare

quei soldi in Cina lo si trova sempre.

Dal duemilauno al duemilacinque, la

comunità cinese in Italia è passata da 46

mila persone a 111.712. Questo significa

che – in quattro anni – il numero dei cinesi

è aumentato quasi del centoquaranta

per cento. Lo scorso anno i cinesi

sono aumentati ancora (ora sono circa

120 mila) e sono diventati – dopo albanesi,

marocchini e rumeni – la comunità

straniera più forte d’Italia e una delle

più pericolose (e più invisibili) anche

per quanto riguarda la criminalità organizzata;

e non è certo un caso che – pur

crescendo sempre a ritmi impressionanti

– la criminalità organizzata ha sempre

rispettato la regola del silenzio; ed è

proprio per questo che prima dei disordini

di Milano, una delle pochissime risse

registrate tra cinesi era stata quella

scoppiata a Milano, in via Morazzone, a

quattro chilometri da Piazza del Duomo.

Ci furono dieci arrestati e tre minorenni

denunciati. Era il quattro gennaio. Da

quel giorno, tra morti sospette, idiomi

complessi e una serie di storie umane il

più delle volte inafferrabili, per l’antimafia

italiana il quadro della criminalità

cinese ha iniziato a essere sempre

più chiaro, soprattuto a Milano e a Roma.

E questa è la situazione descritta

anche dalle forze dell’ordine.

La nuova criminalità.“La criminalità

cinese si nasconde. Non si mostra, è attenta,

calibra tutte le sue mosse. Sembra

non esistere, o almeno fa di tutto per

non apparire. Per tessere le sue trame

malavitose, all’interno della sua comunità,

cerca di non entrare eccessivamente

nelle aree di influenza delle altre

bande organizzate”, racconta al Foglio

Alberto Intini, capo del personale della

squadra mobile di Roma.

Secondo l’ultimo rapporto nazionale

sulla criminalità cinese sul territorio italiano,

nei processi di immigrazione dei

cinesi verso l’Italia “gli intrecci con i

flussi finanziari sono maggiori rispetto a

qualsiasi altra forma di immigrazione

clandestina esistente”. Significa che non

esiste nessuno straniero, in Italia, capace

di spostare così tanto denaro come i

cinesi. Un viaggio clandestino, di media,

costa dagli ottomila ai ventimila euro.

Un viaggio che è clandestino nella sostanza

ma che – molto spesso – è legale

nella forma, dato che l’ingresso in Italia

(o nei paesi confinanti) viene favorito

dalle richieste di manodopera di quelle

ditte cinesi che in Italia già esistono da

un po’. Il permesso di soggiorno arriva

proprio grazie alle continue assunzioni

e al continuo ricambio di personale. Nove

assunzioni su dieci non superano mai

i trenta giorni. E trenta giorni sono più

che sufficienti per far sì che i clandestini

non siano più tali. Con Zhu è andata

più o meno così; era arrivato in Italia

con un passaporto vero, l’organizzazione

criminale lo aveva sequestrato e lo aveva

venduto per cinquemila euro a un’altra

organizzazione, e aveva usato sempre

lo stesso trucco. I passaporti per i clandestini

sono sempre gli stessi, per tutti i

viaggi. Si arriva al confine con l’Italia, si

restituisce il passaporto ed è in quel momento

si diventa davvero clandestini,

non prima. Sul passaporto, le foto sono

sempre le stesse e alla frontiera non se

ne accorge quasi nessuno. E non è uno

scherzo. A volte capita però che chi parte

dalla Cina abbia qualche soldo in più,

e in quel caso l’organizzazione criminale

dà la possibilità di scegliere tra un’identità

coreana, una giapponese e una

malese. Sono questi i passaporti più sicuri

ed è con questi passaporti che è

possibile transitare senza troppi problemi

e senza aver la necessità di avere un

visto nell’area Schengen. Una volta arrivati

al confine con l’Italia, i passaporti

vengono fatti rientrare in Cina. Dal duemilaquattro,

dopo l’accordo turistico tra

Unione europea e Cina, sui passaporti

che tornano in Cina i visti di reingresso

sono diventati obbligatori. Ma questo

non vale, ovviamente, se i passaporti tornano

in Cina chiusi dentro una valigia,

senza i proprietari di quei passaporti.

Il rapimento. La prima parte del viaggio

di Zhu si ferma a Kiev. E’ a Kiev che

si formano i gruppi che verranno affidati

alle nuove organizzazioni. Una per l’Italia,

una per la Slovenia, una per l’Ungheria,

una per la Serbia, una per la

Croazia, e una per la Romania. Chiunque

arrivi via terra dalla Cina si ferma

qui. Si aspetta qualche settimana poi

per qualcuno arriva il trasferimento.

Per qualcuno altro, invece, arriva il rapimento.

Uno degli incubi di Kiev e uno

degli incubi dei clandestini dell’Europa

centrale si chiamava Loncaric Josip. Josip

era a capo di un’organizzazione composta

da circa duecento persone e proprio

grazie ai sequestri era riuscito ad

acquistare una compagnia aerea a Tirana.

Loncaric Josip è stato arrestato a

Trieste sei anni fa. Il secondo arriva in

Italia; quando i clandestini devono affrancarsi

e pagare un riscatto che gli

permetta di entrare nel paese. Il costo

del riscatto è tra i dodicimila e i quindicimila

euro. A Milano, da una dozzina di

anni, la direzione investigativa antimafia

ha registrato un forte aumento dei

sequestri all’interno della comunità cinese.

I sequestri hanno quasi tutti la

stessa funzione. Chi non paga la quota

di ingresso non è libero di vivere in Italia

ed è costretto a lavorare – anche per

anni – per i propri sequestratori. Chi ha

i soldi è libero, ma solo a una condizione:

si paga in contanti, le transazioni sono

troppo pericolose.

La valigia e la transazione. Da un’indagine

svolta nel duemiladue all’interno

dell’aeroporto romano di Fiumicino, è

stato scoperto che nella quota complessiva

di trasporto di denaro illecito dall’Italia

all’estero, in trentaquattro casi su

cento a commettere il reato è stato un cinese.

La scena è la stessa dei film: valigetta

nera e banconote. Le transazioni

bancarie, come detto, sono piuttosto rare

e le si ritrovano soltanto quando si effettuano

“importazioni di merce”. L’ufficio

che si occupa della ricezione e dell’approfondimento

sul piano finanziario

delle segnalazioni delle operazioni sospette

(come previsto dalla legge antiriciclaggio

del 1991) è – da dieci anni –

l’Uic, l’ufficio italiano cambi. Dal giugno

del millenovecentonovantasette, il decreto

legislativo numero centoventicinque

prevede che i trasferimenti di denaro,

di titoli e di valori mobiliari di importo

superiore ai 12.500 euro devono essere

sempre dichiarati. Nei suoi primi

cinque anni di attività, su 23.500 segnalazioni

di operazioni sospette, l’Uic ne ha

riscontrate circa trecentosessanta riguardanti

la Cina. Il Marocco, che dal

1997 al 2001 era la comunità straniera

più presente in Italia, aveva appena

quindici segnalazioni in più. In quegli

anni la comunità cinese era ancora la

quinta comunità più grande d’Italia.

I rapporti bancari analizzati dai rapporti

dell’ufficio cambi risultano alimentati

– per quanto riguarda la Cina –

da continui versamenti in contanti. Gli

importi prelevati (o depositati) hanno

per lo più un valore unitario: cento milioni

di lire prima, centomila euro ora.

Sono queste cifre, sempre precise e

sempre uguali che hanno fatto scattare

i primi campanelli d’allarme all’ufficio

cambi. Il denaro cinese dall’Italia arriva

soprattutto nella provincia dello

Zhejiang e nelle filiali delle banche cinesi

di Wenzhou. Da questa zona provengono

quasi tutti i cinesi residenti in

Italia; e, quindi, proprio in questa zona

l’ufficio cambi si aspetterebbe di riscontrare

un rilevante flusso di contanti,

indirizzato verso le famiglie d’origine.

Ci si aspetterebbe una grande attività

di ricezione da parte della banche

o da parte dei money transfer. Questo

flusso è però assolutamente irrilevante.

E c’è di più: le dichiarazioni dei movimenti

in entrata e quelli in uscita non

sono affatto equilibrate, dato che i movimenti

in entrata (in Italia) superano

di gran lunga quelli in uscita. Semmai

dovrebbe essere il contrario. Il dato ha

poi un rilievo considerevole dato che

sul totale delle rimesse cinesi da e verso

la Cina lo scarto presente nel 2005 –

in Italia – tra debiti ed entrate è quello

più sproporzionato tra tutti i paesi del

mondo. Per capire: ogni diciannove milioni

di euro arrivati in Italia, ne torna

indietro solo uno.

Ma il modello della criminalità cinese

in Italia è molto diverso da quello cinese

in Cina. In Cina e a Hong Kong, le triadi

sono ormai state affiancate da gruppi criminali

più snelli, più moderni e più nascosti.

In Italia invece non è affatto così.

La triade cinese è una realtà completamente

autonoma da quella locale.

I veri rapporti con la triade. Nell’operazione

E-Meng portata avanti non molti

mesi fa dai Ros di Milano, è stato riscontrato

l’unico caso accertato di collegamento

tra la criminalità cinese italiana

e la triade cinese. I contatti con l’Italia

e con il nucleo criminale cinese lombardo

avvenivano attraverso una consorteria

chiamata “Società del Sole”. Ed è

proprio a Milano che la criminalità cinese

ha costruito una delle sue strutture

più forti. Sul territorio sono tre i gruppi

di riferimento: i Daxue, i Yu Hu e i Donpei.

Si tratta di piccole bande giovanili

che gravitano tra alcuni centri massaggi

dove, il più delle volte, sono ospitati in

maniera piuttosto informale le prostitute

e i loro clienti. Nell’operazione milanese

“Oro del Dragone” sono stati scoperti

alcuni sistemi parabancari per la

raccolta e lo smistamento del denaro

verso la Cina. In tre anni, solo da Milano,

le operazioni di trasferimento (abusivo)

di denaro hanno portato in Cina qualcosa

come trentuno milioni di euro.

Se Milano rimane l’area più attiva

dal punto di vista della criminalità organizzata

cinese, il distretto che va da

Firenze a Prato è senz’altro il primo polo

cinese dove è stato possibile riconoscere

una delle più importanti triadi

della criminalità cinese. Quella che,

volgarmente, viene chiamata mafia cinese.

In questa zona, l’organizzazione

criminale si è fatta notare dal momento

in cui è riuscita a inserirsi nella microcriminalità

fiorentinta riuscendo a

non pestare i piedi a quella locale. La

più solida realtà criminale della zona è

stata scoperta grazie all’operazione

“Loto Bianco”, una delle più importanti

svolte contro la criminalità cinese

nella provincia di Prato. La strategia

della zona si spiega facilmente, dato

che le armi e i clandestini – prima di

essere smistate nel resto d’Italia – passavano,

fino a qualche anno fa, quasi

sempre da qui. E’ proprio la zona di

Prato, al pari di quella milanese, l’area

criminale cinese più influente nel panorama

europeo. I collegamenti con le

nazioni straniere sono tra i collegamenti

a cui presta più attenzione la polizia

italiana. Soprattutto per il traffico dei

clandestini che viaggiano tra l’Italia e

Parigi. Il nome più conosciuto dalla polizia

locale è quello di Chen Chi Hwu.

Il caso di Roma. Il primo procedimento

contro la criminalità cinese romana è

arrivato nel corso degli anni Novanta

contro l’associazione “Testa di Tigre”,

un’associazione specializzata nel controllo

delle attività commerciali cinesi

attraverso estorsioni, sequestri e controllo

di immigrazione clandestina. Il

principale imputato, allora, era il rappresentante

cinese della comunità,

Zhou Yi Ping. Nel corso della campagna

elettorale della comunità cinese romana

contro Liao Zhou Lin, Ping si servì anche

del gruppo armato che faceva capo

a Zhang Zhi. Ping operava all’interno

della storica Chinatown romana: zona

Esquilino, Piazza Vittorio, dove oltre ai

negozi, ai ristoranti, alle botteghe, i cinesi

hanno da pochi mesi avuto la possibilità

di usufruire di un tempio buddista,

a pochi passi dall stazione Termini.

I residenti cinesi ufficiali presenti a

Roma sono poco più di ottomila e quasi

quarantamila si trovano nell’area della

provincia.

Antonio Dong, presidente dell’associazione

dei commercianti cinesi di Roma

e per anni punto di riferimento dei

cinesi nella capitale, da diversi mesi

porta avanti un progetto nella zona di

Tor Cervara che dovrebbe far da tramite

tra gli imprenditori italiani e quelli

cinesi. Proprio nella zona di Tor Cervara,

periferia romana, dodici chilometri a

sud della Stazione Termini, i cinesi stanno

comprando nuove strutture. A dicembre

duemilacinque, sempre in questa

zona, la squadra mobile di Roma ha portato

a termine importanti blitz in laboratori

clandestini di tessuti – soprattutto

nella zona di via dell’Omo – dove gli operai

cinesi venivano sottoposti a durissime

condizioni di sfruttamento. Ma tra gli

arrestati per favoreggiamento si trovano

anche i nomi di molti italiani.

Al contrario di quanto si possa pensare,

Roma pesa meno di Milano all’interno

della realtà criminale cinese in

Italia. Roma, negli ultimi anni, è diventata

più che altro un importante centro

di passaggio. Sia per i clandestini diretti

verso gli Stati Uniti, sia per il denaro

da mandare in Cina. Oltre agli intermediari

con la valigetta nera, lo scorso anno

la direzione distrettuale antimafia

all’interno dell’“Operazione Ultimo Imperatore”

ha scoperto che la società

“Centrale Fiduciaria” gestita da Marco

Quadri e Giuseppe Scognamiglio era il

più importante centro di smistamento

di denaro verso la Cina. I soldi che venivano

spediti, illegalmente, in Cina arrivavano

direttamente da evasione fiscale,

violazioni doganali, contrabbando e

contraffazione. Quadri e Scognamiglio

sono stati poi arrestati.

A Roma, proprio nella zona di Tor

Cervara – la zona in cui il famoso imprenditore

Dong (che a Roma ha una

nota farmacia a pochi metri da via Marmorata)

– sembra si stia sviluppando

una forte struttura di smistamento di

merce contraffatta. Per i cinquecento

mila container provenienti ogni anno

dalla Cina in Italia, Roma è uno snodo

fondamentale dato che il nostro paese,

da solo, ha in pancia quasi il nove per

cento dell’intero mercato del contrabbando

mondiale. E la squadra mobile di

Roma, da moltissimi mesi, tiene ormai

sotto stretta osservazione alcuni capannoni

sospetti, dove ogni mattina si assiste

alla stessa scena: alle sei e trenta arrivano

i tir, i tir si fermano di fronte a un

capannone e dal capannone escono

moltissimi cinesi che in pochi minuti

svuotano una quantità tale di merce difficilmente

giustificabile con le dimensioni

del capannone. Troppo piccolo il

capannone, troppo grandi e troppo carichi

i tir. E proprio tra quei capannoni

potrebbero trovarsi le più importanti

strutture di smistamento della merce di

contrabbando (cinese) in Italia. Il contrabbando

– va ricordato – non è nulla

se confrontato con le cifre che girano attorno

al traffico di immigrati. Tremilacinquecento

euro per un permesso di

soggiorno falso, duecentocinquantamila

euro per ogni gruppo di clandestini e

sessanta milioni di euro all’anno raccolti,

nascosti e spediti illegalmente in Cina.

Anche se poi i soldi, i passaporti e i

clandestini come Zhu, dalla dogana ufficialmente

non sono mai passati.