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Articolo 11 e militari all'estero

di Massimo Bontempelli - 17/04/2007

 



 

Si sente dire sempre più frequentemente che l'articolo 11 della nostra Costituzione non proibirebbe le missioni militari italiane all'estero, o, quanto meno, sarebbe ambiguo in proposito, in ragione delle due parti di cui si compone.

La sua prima parte, infatti, si sente dire, sembra vietare la guerra in maniera assoluta, ma la sua seconda parte, ammettendo le limitazioni alla sovranità nazionale che si rendessero necessarie per assicurare la pace tra le nazioni, può essere legittimamente interpretata, quanto meno per la sua fumosità, nel senso di una ammissibilità della partecipazione ad interventi all'estero Onu o Nato, anche armati, il cui fine, vero o dichiarato, sia quello di stabilire o ristabilire una situazione di pace.

Intendo mostrare come risulti invece, dall'uso di semplici ed univoci concetti giuridici, e dalla conoscenza del contesto storico e dei riferimenti politici dei costituenti che elaborarono quell'articolo, che la formulazione dell'articolo 11 non è, né in alcuna delle sue due parti né nella loro concatenazione, fumosa ed ambigua, ma è anzi estremamente chiara e vincolante. La malafede e il puro arbitrio possono certo stravolgere ogni chiarezza, ma ovviamente non è questo il punto in questione. Altrimenti si potrebbe ritenere ambiguo l'articolo 1 secondo cui l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, sostenendo che per lavoro può intendersi anche la speculazione borsistica, per cui sarebbe costituzionalmente legittimo fondare la politica sulla promozione della speculazione in borsa. Oppure si potrebbe ritenere ambiguo l'articolo 41 secondo cui l'iniziativa economica privata, pur libera, non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, sostenendo, sulle orme della favola delle api di Mandeville, che ogni iniziativa economica privata, per quanto egoisticamente motivata nelle intenzioni e negli obiettivi, produce oggettivamente utilità sociale. Oppure ancora si potrebbe ritenere ambiguo l'articolo 53 secondo cui il prelievo fiscale deve essere informato a criteri di progressività, sostenendo che “informato” vuol dire soltanto ispirato in generale, e che esso non esclude che sia legittimo varare, ad esempio, un'imposta sui fabbricati che faccia pagare tanto meno denaro quante più case si possiedono. Si tratta di esempi che possono sembrare paradossali, ma non lo sono, perchè la malafede del nostro ceto politico è senza limiti. Buttiglione, per esempio, ha ripetutamente interpretato il terzo comma dell'articolo 33, che dice che i privati possono istituire scuole, ma senza oneri per lo Stato, nel senso che per istituire si deve intendere soltanto avviare, per cui non sarebbe incostituzionale il finanziamento della gestione delle scuole private. Dovrebbe essere chiaro che, se si dà credito a qualsiasi manipolazione fraudolenta di questo genere, allora non esiste neppure un solo articolo di legge che non possa venire considerato ambiguo. Quale legislatore potrebbe prevedere tutte le più assurde interpretazioni delle sue norme? Ritenere perciò ambiguo il chiarissimo (come tra poco mostrerò) articolo 11, significa accettare la tragedia storica che ha fatto deragliare l'intero sistema politico italiano dai suoi binari costituzionali. Che un tale occultamento lo facciano Berlusconi e Prodi, Fini e D'Alema, Martino e Parisi, si spiega. Che lo facciano gli oppositori delle guerre imperiali è sconcertante. L'articolo 11 della Costituzione repubblicana non ha affatto subito forzature interpretative rese possibili da una sua presunta ambiguità o fumosità, ma è stato criminalmente violato a livello politico (roba giuridicamente da ergastolo, per attentato alla Costituzione ex articolo 134 della Costituzione stessa), l'ultima volta con il rifinanziamento della missione militare in Afganistan, votato dal 98,98% dei parlamentari, cioè da tutti i partiti rappresentati in Parlamento. Vediamo perché l'articolo 11 parla chiaro.

Va innanzi tutto detto che la sua prima parte non vieta la guerra in maniera assoluta. Non si tratta cioè di un'affermazione di non violenza assoluta, del tipo di quella recentemente sostenuta da Bertinotti (e resa letteralmente buffonesca dal suo andare con la spilla della pace alle parate militari, e, molto peggio, dal voto del suo partito a favore della guerra afgana). Una guerra partigiana contro un occupante straniero sarebbe costituzionalmente legittima, e lo sarebbe anche una guerra di un esercito regolare, anche professionale, a difesa del territorio nazionale invaso. Due infatti sono i tipi di guerra che l'articolo 11 tassativamente vieta: la guerra offensiva e la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Questa duplicità è importantissima. Se infatti la guerra jugoslava del 1999 e la guerra afgana del 2001, per non parlare neanche della guerra irachena del 2003, sono guerre nella sostanza offensive, in quanto guerre imperiali, possono però essere fatte passare, nella loro forma, come guerre per la risoluzione, nella maniera giusta, si sostiene, di controversie internazionali, relative, nei casi citati, alla denunciata pulizia etnica in Kosovo e alla cattura del gruppo terroristico di Osama Bin Laden. Non possono però essere fatte passare per guerre di difesa del territorio nazionale, a meno che qualcuno non voglia sostenere che Pristina sta in Veneto e Kabul in Romagna. Ma una guerra, anche non offensiva, usata come mezzo per risolvere, anche in maniera supposta giusta, una controversia internazionale, è comunque vietata dall'articolo 11. Il governo D'Alema nel 1999, quello Berlusconi nel 2001 e nel 2003, e quello Prodi nel 2006, hanno dunque criminalmente violato la Costituzione.

Ma, si sente dire, c'è la seconda parte dell'articolo 11, che ammette limitazioni della sovranità nazionale al fine di assicurare la pace. E qui starebbe l'ambiguità dell'articolo nel suo complesso, perché si potrebbe sostenere che una cessione di sovranità alla Nato, o meglio ancora all'Onu, anche assegnando soldati italiani in armi a un comando non italiano ed impegnato in un intervento militare fuori d'Italia, sarebbe legittima ex articolo 11, in deroga alla sua prima parte, se il fine ultimo dell'intervento fosse la pace.

Tutto questo è assolutamente insostenibile sul piano giuridico. Risulta infatti impossibile che la seconda parte dell'articolo autorizzi una qualsiasi deroga alla prima già per la sua formulazione. Essa non si riferisce infatti alla guerra, ma alle possibili limitazioni alla sovranità nazionale rispetto ad organizzazioni internazionali, senza il benché minimo accenno né alla guerra, né alle forze armate, e neppure alle missioni all'estero. Quando invece un articolo della Costituzione introduce un'area di deroga ad un principio da esso stabilito, la formulazione della deroga è sempre esplicitamente riferita a tale principio. Si pensi, ad esempio, al già citato articolo 41: esso pone il principio della libertà dell'iniziativa economica privata, e poi enuncia situazioni in cui si può, anzi si deve, derogare da questo principio, riferendole perciò in modo esplicito, anche grammaticalmente, ad esso. Oppure si pensi all'articolo 13: esso pone il principio della libertà personale, dicendo che la sua restrizione non può avvenire che per atto motivato dell'autorità giudiziaria, ma poi autorizza, a certe condizioni, un fermo di polizia di quarantott'ore, presentandola in modo del tutto esplicito come deroga parziale a tale principio.

Nulla di tutto questo è rilevabile nella concatenazione delle due parti del'articolo 11. La sua prima parte proibisce, in maniera assoluta, non la guerra in generale ma, come si è detto, qualsiasi guerra che non sia solo ed esclusivamente guerra di difesa del territorio nazionale invaso. Questo genere di ripudio della guerra non viene minimamente ripreso nella seconda parte, né per limitarlo, né per estenderlo né per rafforzarlo (tanto è di per sé forte e giuridicamente ineludibile). La seconda parte parla di un argomento connesso a quello della prima, ma completamente distinto da esso, secondo una tecnica di formulazione che si può ritrovare, ad esempio, nei primi due commi dell'articolo 3, dell'articolo 9 e dell'articolo 25. Mentre cioè l'argomento della prima parte dell'articolo 11 è il ripudio tassativo ed assolutamente inderogabile di alcune tipologie di guerra, l'argomento della seconda parte sono le limitazioni della sovranità nazionale. E' del tutto evidente che tali limitazioni non possono essere finalizzate ad iniziative di guerra, neppure se il loro scopo dichiarato, e persino effettivo, fosse la pace, perché la guerra è stata tassativamente esclusa anche come mezzo non offensivo di risoluzione delle controversie internazionali, e su questo principio la seconda parte dell'articolo non torna più.

Questa evidenza scaturisce dalla chiara maniera in cui l'articolo è formulato, ma anche, come si è già accennato, dal contesto storico e dai riferimenti politici dei costituenti che lo hanno fissato. Siamo nella primavera del 1947. Il ricordo orribile del fascismo è freschissimo. I costituenti vengono in larga misura dalla Resistenza. Stanno perciò fissando i cosiddetti principi fondamentali (tra i quali rientra appunto l'articolo 11), che intendono formulare in maniera tale da elevare un argine almeno giuridico al ripetersi degli orrori partoriti dal fascismo. Tra questi orrori c'è la guerra come mezzo ordinario della politica. Di qui l'enunciazione del ripudio tassativo della guerra così intesa. Ma la guerra che i costituenti avevano conosciuto era stata alimentata anche da una concezione assolutizzata, ed eticamente autogiustificantesi al di fuori dell'etica sociale, della sovranità degli Stati. Di qui l'autorizzazione a limitazioni della sovranità nazionale a fini di pace. Non, si badi bene, per riportare la pace con la guerra, ma per prevenire la guerra consolidando la pace esistente. Nessuno, nella primavera del 1947, poteva prevedere la Nato. C'era invece la prospettiva di una Unione Europea, concepita all'epoca soprattutto per disinnescare lo storico conflitto franco-tedesco, che aveva portato quattro invasioni tedesche della Francia e due invasioni francesi della Germania in ottant'anni.

Ma allora missioni armate fuori d'Italia promosse dall'Onu sono costituzionalmente ammissibili? Questo non era l'orizzonte politico e culturale dei costituenti. Di questo, perciò, non c'è traccia nella seconda parte dell'articolo 11, in cui non compaiono neppure le parole “missione” o “intervento”, ma soltanto “ordinamenti” e “organizzazioni internazionali”. Tuttavia, dal punto di vista giuridico, ciò di cui non c'è traccia in una legge che riguarda il suo argomento non può essere considerato illegittimo, se non è per altra via proibito dal sistema normativo complessivo. Si deve perciò dire che missioni persino armate all'estero non sono di per sé proibite. Lo sono tassativamente soltanto se dove vanno c'è un conflitto ed esse sono schierate a favore di una delle due parti, perché in tal caso rientrano nella fattispecie proibita della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie. Sono perciò incostituzionali sia la missione in Libano, in quanto volta a disarmare gli hezbollah ma non gli israeliani, sia la missione in Afganistan, in quanto di sostegno al governo Karzai contro i talebani. Diventerebbero però costituzionali se, in rigorosa neutralità tra le parti in lotta, e quindi senza agire per risolverla in un modo piuttosto che nell'altro (perché l'Italia, ripetiamolo fino alla noia, è chiamata dalla sua Costituzione a ripudiare la guerra anche come mezzo di risoluzione delle controversie), proteggessero soltanto le popolazioni civili da qualsiasi vessazione, per esempio, in Afganistan, respingendo armi in pugno sia i talebani sia i marines quando gli uni o gli altri aggrediscono i villaggi.