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Paolo Mieli e il "partito americano"

di Carlo Gambescia - 20/04/2007

 

L’editoriale di Paolo Mieli, apparso ieri sul Corriere della Sera, ha un significato importante. Dal momento che "spiega" il Partito Democratico secondo i "desiderata" delle alte sfere del mondo economico italiano. E quel che sembra più grave, è che il nascente Partito Democratico rischia di incamminarsi lungo questa strada.
Secondo Mieli, dovrà somigliare al Democrat Party americano e soprattutto essere guidato da “un capo certo e carismatico” . E soprattutto scegliere decisamente “il modello americano”. Per sciogliere, finalmente, il nodo della famose “riforme liberali” (leggi: neoliberiste). Un uomo di sinistra può riconoscersi in un partito del genere? Pensiamo di no. Per quattro ragioni.
In primo luogo, il Democrat Party, nella versione clintoniana e postclintoniana, non ha praticamente nulla di riformista in senso socialdemocratico (welfare + intervento pubblico).
In secondo luogo, l’accenno al capo carismatico, che può avere un fondamento sul piano di un maggiore decisionismo politico, indica invece un grave appiattimento sulla cosiddetta pubblipolitica. Dove il “capo” deve avere lo stesso appeal di un qualsiasi prodotto commerciale.
In terzo luogo, non bastano le campagne in favore dei diritti civili e della laicità dello stato, per definirsi di sinistra. Si pensi, ad esempio, ai radicali italiani, liberisti in economia e progressisti negli altri campi. In realtà, il mercato, da solo, non redistribuisce, ricchezza, anzi spesso moltiplica le diseguaglianze sociali. Di qui la necessità dell’intervento pubblico, per favorire una migliore redistribuzione del prodotto sociale, attraverso la leva fiscale e la creazione di infrastrutture sociali e servizi pubblici, accessibili a tutti.
In quarto luogo, scorgere nel modello americano, un punto di arrivo, significa aderire alla famigerata (e contestata) teoria di Fukuyama, sulla fine della storia. Una dottrina, a dir poco conservatrice e decisamente filoamericana (almeno nella sua formulazione originaria).
Su queste basi, il Partito Democratico potrà incontrare il favore del mondo economico e finanziario (neoliberista e filoamericano), ma non quello dell’ “elettore medio” di sinistra, rimasto legato alle tradizioni socialiste e comuniste. O comunque, del riformismo sociale vero. Quel riformismo, che alimentò idealmente, anche se confusamente, il Primo Centrosinistra, per poi dissolversi negli anni Settanta e Ottanta.
Mieli spera che gli italiani “abbocchino”, e che quando sarà, corrano a votare in massa il Partito Democratico. Non ne siamo assolutamente convinti: il Partito Democratico, una volta nato, frammenterà ancora di più l’offerta politica a sinistra.
Resta infine un grande problema. Esiste ancora (o addirittura è mai esistita in Italia) una sinistra riformista in senso classico (socialdemocratica)? Capace di coniugare welfare, diritti civili, e intervento pubblico? Il problema non è secondario e merita di essere affrontato, soprattutto a sinistra. Perché, per contrasto, a causa delle sue future divisioni, potrebbero aprirsi spazi crescenti per una destra sociale o welfarista…