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Europa degli eroi Europa dei mercanti (recensione)

di Fabio Pagano - 20/04/2007

Claudio Bonvecchio,

Europa degli eroi Europa dei mercanti

Settimo Sigillo, Roma 2004, pag. 94, euro 10.

Già il titolo di questo lavoro di Claudio Bonvecchio, professore di Filosofia Politica presso

l’Università dell’Insubria e prolifico autore di saggi sul mito e sul simbolico, pone il lettore di

fronte ad un’opzione. Europa degli eroi o Europa dei mercanti? L’interrogativo, che riprende la

distinzione resa famosa da Werner Sombart, richiede una risposta perentoria e definitiva. L’autore

non esita a darla, ponendosi dalla parte di chi crede in un risveglio europeo dal torpore del

cosmopolitismo e del globalismo, che sembra aver precipitato il continente in una desolazione fino

ad oggi sconosciuta. Ma cos’è l’Europa? Da buon studioso di simbolica politica, Bonvecchio

utilizza strumenti a lui familiari per delinearne i contorni: è il mito, di cui viene ribadita l’efficacia

conoscitiva e quella caratteristica di immediatezza che manca all’approccio logico-discorsivo, a

venire riproposto quale chiave di lettura. Ed il mito racconta dell’unione fra la lunare Europa ed il

solare Zeus, da cui nasceranno tre figli, Sarpedonte, Minosse e Radamanto, fondatore di città il

primo, sovrani e legislatori i secondi. Un’unione che rappresenta, simbolicamente, una perfetta

totalità, ove le diversità si armonizzano tra loro e il cui frutto richiama l’armonia e l’equilibrio.

Funzione dell’Europa, racconta il mito, è l’essere punto di riferimento e appianatrice di conflitti e

controversie. Ma l’Europa, e lo dimostrano i doni nuziali ricevuti da Zeus (un cane, un gigante, una

lancia), è sempre bisognosa di difesa e ha nella vulnerabilità il suo tallone d’Achille. L’esegesi

mitica termina quindi con un interrogativo irrisolto: da chi deve difendersi l’Europa? Da qualcun

altro o da se stessa?

Per rispondere, Bonvecchio passa dalla fase mitica, alla base del sorgere dell’Europa, a quella del

tramonto e della decadenza europea; si entra così nella storia che l’Europa sta vivendo: un presente,

sotto gli occhi di tutti, in cui essa si abbrutisce in mancanza di punti di riferimento trascendenti,

sostituiti dal culto del profitto e del consumo. Un presente che la vede, nello scacchiere globale,

assolutamente incapace di recitare un ruolo che non sia di comparsa. Non meno impietosa la

diagnosi rispetto alle forme politiche che alimentano questa deriva: dalla statualità, frutto della

modernità che ha finito per divorare se stessa, alla democrazia formale che si nutre di un

egualitarismo acritico, produttivo di forme di raccolta del consenso sempre meno partecipative e

sempre più funzionali ai poteri economici. L’Europa deve, quindi, la sua vulnerabilità all’incapacità

di ritrovarsi: all’aver permesso che alla comunità, fondata sull’appartenenza e l’adesione a valori

che trascendevano l’individuo, seguisse la società, in cui si sta insieme per interesse e l’individuo

rimane solo con la propria sete di guadagno. Anche qui si recuperano le categorie rese famose da

Tönnies per riproporle in una dimensione contemporanea e assolutamente attuale. A Bonvecchio,

infatti, l’Europa dell’euro sembra il modello perfetto di una società di tipo geo-economico: c’è una

banca, una moneta, persino un parlamento ma nessuna traccia di identità, nessuna radice nella quale

rispecchiarsi. Eppure, afferma Bonvecchio, i possibili riferimenti identitari ci sarebbero e vanno

cercati nella propria storia: ma a frenarne il riemergere ci pensa un senso di colpa e di timore che

l’eredità della seconda guerra mondiale continua ad alimentare. Tutto ciò ha impedito all’Europa di

resistere al modello etico, oltre che economico-politico, americano, che dimostra tutta la sua

aggressività e l’incapacità di considerare il diverso da sé. A questo modello massificante ed

omologante viene contrapposta la vocazione universalista di cui il Vecchio Continente è

storicamente portatore.

Qui va fatta una precisazione. L’universalismo cui si riferisce Bonvecchio non può dissociarsi

dall’idea di imperialità. E l’impero è concepito come l’unica forma politica e simbolica capace di

unire le differenze, al tempo stesso preservandole. È inutile ricordare ai lettori di Diorama lo stesso

riferimento presente nel de Benoist de L’impero interiore, che pure non perde occasione per

criticare il concetto moderno di universalismo, considerato una corruzione dell’oggettività e un

grimaldello ideologico al servizio del pensiero dominante per annullare le identità e qualunque

espressione di appartenenza in nome dell’astrazione più assoluta (si veda, da ultimo, il suo saggio

Oltre i diritti dell’uomo). Ne sono figli la teorizzazione dei diritti umani, nonché l’idea

dell’esportibilità di modelli politici quali la democrazia liberale. L’universalismo di Bonvecchio

non può concepirsi se non in relazione al pluralismo culturale (si veda, a tal proposito, il volume di

Chiodi, Europa. Universalità e pluralismo delle culture): esso è connesso all’idea di un’Europa

quale casa comune, legata dalla spiritualità e dal sacro prima e dalla cultura poi, munita di una

lingua, il latino, che oltre ad essere uno strumento di comunicazione era soprattutto l’espressione di

un modo di vivere, pensare e ragionare essenzialmente europei. Questo riferimento al latino

permette il raffronto con un'altra lingua, quella inglese, che pure oggi viene propugnata quale lingua

universale, ma che qui viene liquidata come la lingua del commercio e della pratica del mercato,

incapace di imprimere nell’anima di chi la adopera qualunque idea di appartenenza comune.

L’inglese è infatti la lingua del particolarismo individualistico, di quel cosmopolitismo che per

Bonvecchio è la vera malattia dell’Europa. È il cosmopolitismo a determinare il declino del

Vecchio Continente: il suo momento centrale è individuato nella Rivoluzione Francese, che

sostituirà alla centralità del sistema simbolico europeo, espressione di valori condivisi, il

particolarismo ideologico ed il funzionalismo dello stato nazionale ad esso asservito. La chiave di

volta non sarà più l’uomo, ma il denaro: l’Europa sceglierà i mercanti. Il frutto di questo processo

sarà l’affermazione di un’identità cosmopolita che si pensa politicamente nella nazione ma

economicamente nel mercato internazionale e mondiale: una contraddizione solo apparente,

alimentata dal prevalere dell’economico sul politico, che sfocerà nei due conflitti mondiali che

hanno messo in ginocchio l’Europa. La globalizzazione rappresenta, a tal proposito, la moderna

forma di asservimento alla signoria del mercato, capace di avvalersi della formidabile gamma di

apparati tecnici, sociali e amministrativi che deresponsabilizzano l’uomo e concorrono ad

un’omologazione mortificante e massificante. Qualunque differenza e specificità viene stritolata in

nome di una totalità virtuale, basata su valori troppo astratti per essere coesivi.

Come se ne esce? Bonvecchio non ha dubbi: l’Europa ha nella sua storia le armi dello spirito e

della cultura che le permetterebbero, se solo volesse, di resistere. Si tratta di “passare al bosco”;

l’espressione di Jünger, che la ha adottata ne Il trattato del ribelle, ben si presta alla scelta che

spetta all’uomo europeo: ritrovare l’originaria partecipazione alla comunità che passa per un

recupero della dignità perduta. Si devono scegliere gli eroi: viene tracciato così un’itinerario di

ribellione, che da individuale si fa collettivo, e che passa per la riscoperta delle proprie radici

spirituali, che affondano nel Sacro e nelle molteplici forme in cui esso si esprime, e che continua

nella scelta politica di una grande Europa, imperiale, capace di riscoprire la ricchezza che proviene

dall’essere differenti nell’unità. L’ultimo passo è il recupero di un’economia sociale piegata alle

leggi del politico: il modello non può essere quello liberista, causa dello squilibrio che costringe

l’uomo all’interno della schiavitù del mercato e della tirannia del consumo.

Volutamente provocatorio, al limite dell’utopico come lo stesso autore non ha remore ad

ammettere, il testo di Bonvecchio non fa sconti al ‘politicamente corretto’. Questo ne rappresenta

indubbiamente un punto di forza, a cui si accompagna una vis argomentativa altrettanto efficace,

che permette più di uno spunto di riflessione. Segnaleremmo, tra questi, la riaffermazione della

centralità e dell’efficacia del mito in un tempo che, di fronte ad interrogativi sempre più inquietanti,

sconta una paurosa carenza di risposte e in cui il pensiero è quasi costretto a presentarsi quale

‘debole’. Ma, soprattutto, il riferimento all’impero come forma politica ancora praticabile: già Carl

Schmitt aveva rimarcato ne Le categorie del politico il carattere storico dello stato moderno, il cui

declino era inevitabile; l’Europa degli stati e dei governi, quella di Bruxelles, finisce per essere

l’espressione di una burocrazia e di una tecnocrazia economica e finanziaria che sfuggono ad ogni

controllo e si avvalgono di un’assoluta deresponsabilizzazione. Si può convenire quindi, con

Claudio Bonvecchio come con Alain de Benoist, che il modello imperiale rimane l’unica alternativa

praticabile per una Europa delle culture e dei popoli.